Hell is empty and all the devils are here
L’inferno è vuoto e tutti i diavoli sono qui.
W. Shakespeare, La Tempesta
Sin dalle prime immagini, Bogre abbandona la rassicurante orizzontalità del cammino in avanti, rinuncia da subito ad un narratore onnisciente ed esterno che tende a un fine da raggiungere, sia esso un’idea o una tesi da enunciare. Alla stabilità della linea retta che presuppone il racconto classico, il film preferisce l’apparente immobilità della figura circolare, meglio ancora, preferisce il lento discendere verso il basso della forma a spirale. Per questa ragione Bogre ad un primo livello di lettura racconta la storia di un’eresia medievale sconosciuta ai libri di storia e alla maggior parte delle persone. Più in basso diventa un film politico, soprattutto quando si interroga su come e perchè quel “potere” che, come scrive Danilo Dolci, nella sua natura implica“potenzialità”, “forza”, “virtù”, possa ammalarsi e diventare “dominio”, ovvero sottomissione passiva dell’altro fondata sulla paura. Ancora più a fondo Bogre è un film filosofico: perché la morte? Qual è l’origine del male? Da dove tanta sventura? Perché viviamo? Durante le oltre tre ore di proiezione queste domande accompagnano lo spettatore come una sorta di controcanto sommesso al fluire delle immagini sullo schermo. E’ però nel punto più profondo e nascosto della spirale che Bogre si trasforma in una preghiera laica, in un rivolgersi al mistero del “sacro” attraverso la compassione, attraverso il “sentire” su di sé tutto il dolore e l’amore per un’umanità da sempre ferita, calpestata e offesa.
Nel viaggio alla ricerca dell’eresia catara servono a poco le suggestive mappe che compaiono lungo il racconto, con quelle macchie rosso sangue a segnare i luoghi delle stragi e dei roghi.
Le trame dei percorsi della Storia sono segnate da sempre sulla pelle degli uomini, su ogni ruga dei nostri corpi, anche se abbiamo disimparato a leggerle e decifrarle.
Non so se il pensiero cataro avesse o meno ragione ad asserire che il corpo fosse solo la tunica di carne che riveste l’anima. A sostenere che il corpo, essendo di natura materiale e non spirituale, traesse la sua origine dal male. Di certo, il corpo è il luogo della nostra identità, la fragile sostanza che coincide con l’io e che contiene tutte le storie; l’unico mezzo in nostro possesso per relazionarci con il mondo.
Per questo Bogre è un film percorso da corpi, a cominciare da quello esile, quasi etereo di Fredo che deve tenersi stretto alle pareti di pietra di uno dei numerosi castelli che visita per evitare di farsi trascinare via dal vento. La sua presenza discreta attraversa tutto il film ed è proprio quella figura assorta, stupita e, a volte, affaticata l’autentica bussola e mappa del viaggio. E poi c’è la presenza di Olivier de Robert, con quella fisicità che lo fa assomigliare a uno dei protagonisti dei film del grande Jean Pierre Melville. Quando Olivier ripete, parlando della figura dell’inquisitore “Il peut tout” e accompagna la frase con un gesto perentorio del braccio e della mano che unisce l’indice e il pollice, un brivido ti percorre la schiena. Tu sei lì davanti all’inquisitore, di fronte a quell’uomo dalla figura triste e, solo allora, comprendi sino in fondo che “Il peut tout”. Poche rappresentazioni della forza annichilente del potere/dominio hanno raggiunto tale efficacia.
Altre presenze attraversano lo schermo, da quella moderna/antica dell’attore Giovanni Lindo Ferretti, ai corpi degli intervistati, fino alle presenze mute della troupe del film. E poi c’è la presenza più importante: quella assente di poveri corpi silenziosi e senza volto portati via dalla Storia e bruciati sui roghi, o nei forni di Auschwitz, corpi negati, cancellati, martoriati. “Il peut tout”.
Se il racconto rinuncia al tempo della linearità narrativa, prende allora il sopravvento la dimensione spaziale. Non solo Bogre è un film di corpi ma è anche un film di luoghi: quelli pubblici delle strade, delle città, dei canali di Venezia o della biblioteca violata di Sarajevo. I luoghi degli spazi aperti, quelli della memoria, quelli della Storia e delle storie; i luoghi intimi e privati delle case, i luoghi dell’anima, quelli della coscienza e della memoria.
Al termine del viaggio, un ultimo luogo aspetta di essere abitato: quello segreto dello sguardo di Fredo: il punto più profondo della spirale, il posto dove tutto inizia e tutto finisce. Quello sguardo formula una domanda silenziosa e, allo stesso tempo, apre ad un bisogno di complicità e di aiuto. Seduto in platea, non ho risposte, non ho parole. Posso solo restare lì in silenzio accanto a Fredo; in due la notte sembra meno buia e, forse, ci si sente meno soli.
Eppure ne sono certo: è proprio nella sincerità di quello sguardo rivolto allo spettatore che nascono il Cinema e tutte le storie del mondo.
commenta