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Storia della cascina - Robilante

Estòria de la cassina

Robilante - Margherita Romana
Racconto e voce dell'autrice

Storia della cascina - Robilante
italiano A Robilante c'è la Cascina,
una piccola borgata ai piedi della collina.
È vecchia come Matusalemme, ma rispettata da chi lì
è cresciuto e ha messo su famiglia.
Allegri, laboriosi e canterini sono:
i Giordano, i Giraudo, i Vallauri,
i Sordello e quelli di Annamaria.
La Cascina era proprietà del conte Nicolis
che poi l'ha venduta per disperazione
perché si dice che i suoi affari andavano a rotoli.
L'hanno acquistata in cinque, l'hanno divisa
e se la sono tenuta.
La Cascina del Conte
è separata da un vallone ed un ponte:
il vallone del Prete che, all'ombra dei suoi castagni,
porta l'acqua al bosco di Pinotu Forné.
Questo vallone parte da Tetto Fantino,
passa a En Cuerni, a La Ciapera,
attraversa il piano
e poi si riversa nella gora del mulino.
Al vallone del Prete passa la strada del Tetto Violetta,
accanto alla rocca Giuana, la proprietà di Gia Mai, la piccola vigna, Martinas, il Pendun
e la miniera dall'altra parte del vallone.
La miniera, quando funzionava, tanti anni fa,
era diretta dal signor Cosso sotto una ditta di Milano
e quei pochi operai guadagnavano un pezzo di pane.
Erano: Antonio Romana, Lorenzo Dalmasso, Battista Macario,
Giacomo Vallauri, Federico Dalmasso, Giacomo Maomero.
Erano senza sindacato,
ma lavoravano proprio tutti.

Accanto alla miniera c'è il bosco Fus,
con le sue sorgenti, che fornisce l'acqua a tutta la gente.
Alla Cascina c'è anche un pilone con la Madonnina;
lì, all'ombra delle robinie, protegge le due vie.
Questo pilone l'aveva costruito Giacomo Sordello,
ma dopo molti anni i muri cadevano in rovina.
Allora i nipoti, per tradizione e con buona volontà,
ne hanno fatto uno nuovo tre metri più in là.
Lì accanto ci sono due cortili dove si faceva l'aia:
scopavano, spargevano e lisciavano la bovina,
che da secca era meno sudicia,
poi con i correggiati trebbiavano il grano,
affastellato in covoni, per farne del pane.
La terra della Cascina parte dalla Brundana,
in fondo al bosco Margò,
giunge dalla ferrovia, oltre la strada principale,
fin lassù dove ora allevano i vitelli.
Su questa terra di Giacomo Sordello
i Barale di Roccaforte avevano costruito il mulino;
poi hanno aggiunto la sega e la cabina.
Quella ruota idraulica forniva luce elettrica
alla chiesa e a quelli della Cascina.
Avevano soltanto una lampadina per famiglia,
un po' era per risparmiare
e un po' perché mancava la potenza.
E c'erano pochi mestieri: contadino o boscaiolo.
Nei boschi raccoglievano castagne, pascolavano l'erba, seminavano la segale e andavano per funghi.
Nel piano falciavano con la falce fienaia,
aravano con l'aratro,
sarchiavano con la zappa,
seminavano una mescola di frumento e segale, mais, patate, fagioli e pure la canapa.


Piantavano gelsi, pruni e meli aciduli,
quelli della lira, quelli dolci-bianchi e i martin sec.
La foglia dei gelsi era cibo per i bachi da seta
che venivano tenuti sui ripiani.
Quando i bachi dalla quarta si svegliavano,
era un'esagerazione quanto mangiavano.
I bachi con la bava formavano i bozzoli
salendo sull'erica legata a mazzetti.
Era una gran meraviglia da vedere:
i bozzoli gialli come l'oro, talmente ben messi e composti
che valevano uno scudo l'uno.
La canapa serviva per fare la tela.
La seminavano in primavera, d'autunno la sradicavano,
la sceglievano, la legavano e la mettevano a macerare.
Trascorso quel dato tempo, la estraevano e la facevano soleggiare.
Arrivato l'inverno la pestavano su un toppo spaccato.
Poi con gramole e scapecchiatoi
facevano la canapa, i capecchi e le stoppe.
La filavano con rocca, filatoio, fuso e portafusi
e al guindolo facevano la matassa.
Poi portavano a fare la tela del nove o del sette
alla tessitrice di Tetto Giardinet.
Tre volte all'anno facevano il bucato:
mettevano le lenzuola insaponate dentro un grosso mastello;
sopra allargavano il ceneracciolo
e lo coprivano con cenere setacciata.
Lì accanto con il calderone
facevano bollire il ranno fino a sera,
poi sciacquavano tutto al fossato.

Vivevano assieme grosse famiglie
padre, madre, nipoti, nuore e figlie.
La suocera teneva il mestolo,
il nonno teneva la pace,
la nuora diceva di si, ma arricciava il naso.
La chiamavano armonia, ma, diciamolo pure,
c'era anche qualche litigio.
Mangiavano pancotto, tagliatelle, polenta e castagne,
bevevano acqua fresca, sidro o vino di uva fragola.
Accendevano il camino, il treppiede sotto la pentola
ed il paiuolo di ghisa appeso alla catena.
Quando qualcuna aveva la pentola rotta
o si era staccata la maniglia,
portavano tutto all'abbeveratoio.
Lì veniva ogni tanto lo stagnino di Borgo
che con soffietto, stagno e sgabello
lustrava i mestoli, stagnava i paiuoli di rame e tappava i forellini.
Tenevano il tostino appeso alla cannicciata,
facevano i tomini con il latte della pecora.
Quando vendevano i capretti, si riservavano il presame.
Facendo il burro toglievano il latticello
che serviva ancora per fare la ricotta.
Su questa terra i nostri vecchi
hanno allevato grosse famiglie,
hanno allevato tutti, maschi e femmine.
E siccome erano tanti,
ne coricavano due per culla,
un indietro, l'altro avanti.
I più grandi venivano coricati assieme
sul pagliericcio o sul fienile.
I più piccoli prendevano il latte alla tettarella,
portavano la gonna fino a quando capivano da loro
se erano maschi o se erano femmine.


Quando andavano a scuola,
oltre alle pulci, prendevano anche i pidocchi,
li raccoglievano con una pettinella,
facevano bollire i vestiti
e bruciavano le foglie del pagliericcio.
Le ragazze filavano la canapa,
alcune facevano le sarte
e, per ripararsi dal freddo alle dita,
Antonio Romana faceva il calzolaio.
Giacomo Vallauri faceva il falegname,
Adolfo Mignani faceva le barche,
Donato Giordano faceva interesse,
Sebastiano Giordano andava alla fiera,
Giacomo Vallauri raccontava le barzellette,
oh, erano davvero tutti occupati!
I giovanotti d'inverno scendevano la treggia
e si davano da fare da mattina a sera,
ma se capitava l'occasione
giocavano a carte da sera a mattina
con buonanima di Pietro Landra e Marcello Pettavino.
La sposa portava lo zendale,
l'abito nero, il giubbotto plissettato.
Lo sposo era lui pure elegante:
un abito completo, le scarpe di vacchetta
ed il cappello a bombetta.
Quando nasceva un bambino
nel giro di otto giorni lo portavano a battezzare,
con una coperta per bambini, pezze e fasce
lo legavano come un salame,
una cuffia in testa,
quindi lo ponevano dentro il porte-enfant.
Gli uomini portavano il cappello bordato,
il gilè con l'orologio nel taschino;
i pantaloni di velluto con la fibbia
che andava bene a metterci l'accetta.
E Bartolomeo, mio marito,
andava a lavorare alla cava di Vernante,
su e giù in bicicletta, una mantella per il freddo,
zaino a spalle, borraccia a tracolla
con dentro pane e gorgonzola.

Le nonne avevano la pettinatura con la crocchia,
portavano il corpino con sotto il bustino,
la gonna lunga con la cintura a martingala
il grembiule, reggicalze e calze di lana
e le scarpe con i legacci di cuoio e poco tacco.
E quando, trenta o quarant'anni fa,
vegliavano ancora nelle stalle
chiacchieravano e raccontavano frottole;
mio nonno, Giacomo Romana, nel pagliericcio
cantava le sue canzoni.
Il più benestante della Cascina era un bell'uomo
con i capelli riccioluti: Dunatin d'la Cascina.
Lui cantava "forte e virili pectore"
e teneva anche la monta taurina..
Quelli della Cascina erano chiamati i bigotti,
almeno avevano un titolo.
Allora andavano sempre a piedi
e arrivavano sempre in tempo;
adesso andiamo in carrozza,
ma più di una volta arriviamo tardi a messa.
C'era l'usanza, il mese di Maria,
di trovarsi tutte le sere all'edicola,
dire un pezzo di rosario
e poi cantare alcune canzoni
A carnevale ci si mascherava.
Divertimenti non ce n'erano
e ciò che faceva piacere
si dice che facesse anche peccato.
Abbiamo spannocchiato mais,
abbiamo portato gli zoccoli,
abbiamo mangiato pane ammuffito
e quanto ne abbiamo mangiato!
Dopo la guerra le cose sono migliorate:
viviamo in un'altra maniera,
ma non disprezziamo mai la terra.
È proprio tutto cambiato,
allora avevamo la fontana lontano
ed i servizi igienici separati;
ora l'acqua è pronta da prendere
ed i servizi dentro casa.
La chiamavano Cascina del Conte,
quindi Cascina Soprana e Sottana,
ma che sia sotto che sia sopra
ci siamo sempre noi della Cascina.
Siamo oltre il duemila,
ma la storia è stata combinata e scritta
alcuni anni prima da me, Romana Margherita,
ma tutto ciò che vi ho raccontato
è la pura verità.
occitan A Robilant lhi es la Cassina,
na chòta borgaa ai pè d' la colina.
L'es velha 'ma Betusa, ma respectaa da qui pròpi lí
s'es enlevat e puei a tirat sú la soa familha.
Alegres, travalhadors e cantarins son:
lhi Bias Chèc, lhi Mèrma, lhi Micolin,
lhi Mòri e quilh d'Anamaria.
La Cassina l'era proprietat dal cont Nicolís
que après a vendut per desperacion
perqué se di que lhi seus afars andasien a trabucons.
L'an cataa entre cinc, l'an dividua
e s'la son tenua.
La Cassina dal Cont
l'es separaa da un valon e un pont:
lo valon dal Preve que, a l'ombra di seus castanhiers,
pòrta l'eva al bòsc de Pinòto Fornier.
Esto valon part dal Teit Fantin,
passa a En Cuerni, a La Chapera,
travèrsa lo plan
e puei vòida ental beal dal mulin.
Al valon dal Preve lhi passa la via dal Teit Violeta,
vesin a la ròca Joana, lò d' Ja Mai, la vinheta,
Martinàs, Lo Pendon
e la minera da l'auta part dal valon.
La minera, quora foncionava, tanti ans fa,
l'era dirècta da mossú Còsso, sota na dita d' Milan
e quilh pòqui operais vanhaven un tòc de pan.
E lhi eren: Tòni d' la Mòria, Palhòt, Titin d' la Tòca,
Jaco d' Flip, Riqueto d' Coch, Jaco Canta.
Lhi eren sensa sindacat,
ma travalhaven puei tuit planta.

De flanc a la minera lhi es lo bòsc Fos,
con lhi soas sorgents da l'eva a tut la gent.
A la Cassina lhi es decò un pilon con na Madonina,
lí a l'ombra di gasilhas protech lhi doas vias.
Esto pilon l'avia tirat sus Jaco Mòri, lo Sordèl,
mas après d' tanti ans lhi muralhas andasien a rabèl.
Alora lhi nevots, per tradicion
e con bona volontat
n'an fait un nueu tres mètres pus enlai.
Aquí vesin lhi es decò doas corts onda s' fasia l'aira:
ramassaven, espanteaven e suliaven la bosa,
que da seca l'era meno escrosa,
puei con lhi cavàlias batien lo gran,
maçolat a gèrbas, per far-ne puei de pan.
La tèrra d'la Cassina part da La Brondana,
en cavon dal bòsc Margò,
e chapa da la ferrovia, de delai dal camin,
fins lassús onda aüra tenen lhi bochins.
En cima d'la tèrra de Jaco Mòri
lhi Baral d'la Ròca avien fait lo mulin;
après an jontaa la rèssea e la gabina.
Quel rodon dasia de luche eléctrica
a la glesia e a quilh d'la Cassina.
Avien masque na lampadina per familha,
un pauc l'era per far economia
e un pauc perqué mancava la potença.
E lhi era pòqui mestiers: campanhin o lenhandier.
Enti bòscs culhien lhi castanhas, pasturaven l'èrba
e semenaven lo sèel e andasien per bolets.
Ental plan seaven con lo danh,
lavoraven con l'esloira, serien con la sapa,
semenaven barbareat, mèlia, patatas, fasòls
e decò la cauna.

Plantaven lhi moriers, brinholeras e pomiers brusquets,
quilh d'la lira, lhi doç-blancs e lhi martins secs.
La fuelha di moriers fasia da manjar ai bigats
que venien tenuts en cima di chafalcs.
Quora lhi bigats da en la qüarta s' desvelhaven,
l'era n'exageracion quò que manjaven..
Lhi bigats con la bava fasien lhi coquets
montant sú d'la bruvera gropaa a macets.
L'era na gran meravilha da véguer:
lhi coquets jauns 'ma l'òr, talment ben butats e componuts
que d'un pr'un valien n'escut.
La cauna servia per far la tela.
La semenaven de prima, d'auton la deraïsaven,
la cernien, la gropaven e la butaven a naisar.
Passat que tal temp, la tiraven fòra e la fasien solelhar.
Arrubat d'invèrn la flacaven en cima d' na tòpa eschapaa.
Après con bragons e brústias
fasien la rista, lhi estopas e lhi cochas.
La filaven con roca, roet, fus e fusera,
a la víndola se fasia la mutera.
Puei portaven a far la tela dal nòu o dal sèt,
a la tessarís dal Teit Jardinèt.
Tres vòtas d' l'an fasien leissia:
butaven lhi linçòls ensavonats dinta d' na gròssa selha;
en cima lhi eslargaven lo florièr
e lo coataven de cendre cernilhaa.
Aquí da cant con la caudiera
fasien escaudar lo leissiàs fins a d' sera,
puei rinfrescaven tut a la bealera.

Vivien ensem de gròssas familhas
pare, mare, nevots, nòras e filhas.
Mare madòna tenia lo caçul,
parsier tenia la patz,
la nòra disia que d' sí, ma riçava lo nas.
La chamaven armonia, mas, disoma pura,
lhi era puei decò qualquas plinarias.
Manjaven panada, talharins, polenta e castanhas,
bevien eva fresca, vin de pomas o quel d'americana.
Fasien fuec al fornèl, lo trespè sota d'la paela
e lo fras pendut a la caena.
Quora qualqu'unas avien la paela rota
o s'era destacaa la manilha,
portaven tut al bachàs.
Lí lhi venia ònhi tant lo manhin dal Borg
que con soflet, l'estanh e lo banquet
lustrava lhi caçuls, estanhinava lhi pairòls
e estopava lhi pertusets.
Tenien lo brusatin pendut a la clea,
fasien lhi tomins con lo lait d' la fea.
Quora vendien lhi cravòts, se riservaven lo calhet.
En fasent lo bur gavaven lo laitin
que valia encà per far lo brosset.
En cima d'esta tèrra lhi nòstri velhs
an tirat sú de gròssas familhas,
an enlevat tut, tant lhi garçons 'ma lhi filhas.
E sicoma lhi eren tanti,
ne cojaven doas per cuna,
un endarrer e l'autre avanti.
Di pus grands ne'n fasien na cogera
ental palhon o en cima d'la fenera.
Lhi pus chòts pilhaven lo lait a la puparèla,
portaven la còta fins a quora capien da lor
se ilh eren maschs o se ilh eren fumèla.

Quora andasien a escòla,
de sobrepús di pules, chapaven decò lhi peolhs,
lhi culhien con na penteneta,
fasien búlher lhi vestimentas
e brusaven lhi fuelhas d'la palhasseta.
Lhi mendias filaven la rista,
qualqu'unas fasien lhi sartoras
e, per parar-se la freid ai dets,
Tòni d'la Mòria fasia lo calier.
Jaco de Flip fasia lo menusier
Dòlfo fasia lhi barcas,
Nato fasia enterès,
Bastian andasia a la fièra,
Jacolin contava lhi barzeletas,
òh, ilh eren puei tuit ocupats!
Lhi garçons d'invèrn calaven la bracera
e se dasien da far da la matin a la sera,
ma se portava l'ocasion
juaven ai cartas da la sera a de matin
con bon'ànima d' Peto d' Lòta e Chelo Balabin.
L'esposa portava la coefa,
la vèsta niera e lo gipon a plissets.
L'espós, decò chèl elegant,
na vestimenta nòva, lhi escarpas de vaqueta
e lo capèl a bombeta.
Quora i naissia un pichòt
ental vir d'uet dí lo portaven a batear,
con lani peças e faissas,
lo gropaven 'ma un salam,
n'escúfia en tèsta,
puei lo butaven dinta dal pòrta-enfants.
Lhi òmes portaven lo capèl bordat,
lo corpetin con la mostra al sacochin;
lhi braias d' velut con lo correòt,
que andasia ben a butar l'apiòt.
E Mineto, me òm,
andasia a travalhar a la cava dal Vernant,
sú e jú en bicicleta, na mantelina per la freid,
zaino a espatlas, pèl d' boc a tracòla,
con dinta pan e gorgonzòla.

Lhi nònas avien la pentenura con la cordonura,
portaven lo basquin, con sota lo bustin,
la fauda longa, la centura a martingala,
lo faudilet, liagambas e cauças d' lana,
lhi escarpas con lhi liacets e vaire d' garet.
E quora, tranta o quaranta ans fa,
velhaven encà en lhi estalas
charamelaven, contaven balas;
miu pairsier, Jaco Romana, ental palhon
cantava lhi soas cançons.
Lo pus benestant d' la Cassina l'era un bel òm
con lhi cavelhs riçolinats: Donatin d'la Cassina.
Chèl cantava "fòrte e virili pectore"
e tenia decò la monta taurina.
Quilh d'la Cassina lhi chamaven lhi bisòcs,
almeno avien un tìtol.
Enlora andasien sempre a pè
e arrivaven sempre en temp,
aüra andoma en carròça
mas pus de na vòlta arrivoma tard a messa.
Lhi era l'usança, lo mes de Maria,
truvar-se tutas lhi seras au pilon
dir un tòc d' rosari
e puei cantar ensem dos-tres cançons.
A carlevar se fasia mascaradas.
De divertiments lhi n'era pas
e puei lò que fasia plasir
di que fasia decò pecat.
Oma despulhit mèlia,
oma portat lhi çòcas,
oma manjat lo pan mufit
e quant n'oma manjat!
Après d'la guèrra lhi còsas an milhorat:
vivoma en n'autra manera,
ma despresoma puei mai la tèrra.
L'es pròpi tut cambiat,
alora avíem la fontana daluenh
e la chabòta destacaa;
aüra lhi es l'eva pena a pilhar
e la chabòta dinta ca'.
La chamaven Cassina dal Cont,
après Cassina Sobrana e Sotana,
ma que sie dessota que sie en cima
lhi soma sempre nautri d'la Cassina.
Soma passats lo dui mila,
ma l'estòria l'es estaita combinaa e escrita
dos-tres ans prima da mi, Romana Marguerita,
ma lò que v'ai contat
l'es la pura veritat.