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Lingua e cultura di un territorio montano

Lingua e cultura di un territorio montano

“Le parole del padre”: il crinale di Fredo Valla.

“Le parole del padre”: lo crest de Fredo Valla.

di Andrea Fantino

“Le parole del padre”: il crinale di Fredo Valla.
italiano

Se c’è un’immagine che mi torna in mente ogni volta che penso a “Le parole del padre” di Fredo Valla o meglio se c’era un’immagine che continuava a tornarmi in mente ogni volta che leggevo le sue pagine, ecco, quell’immagine è semplice e forte, nella sua essenza e nella sua epicità, forma e sostanza che si abbracciano e quasi ti abbagliano nella loro nitidezza: Fredo è su un crinale montano, alto, il cielo è sgombro di nuvole e il sole sta scendendo, una scia di rosso si mischia al blu, la figura di Fredo è quella di un uomo quasi controluce, una figura nera, di fatto una silhouette. È in piedi, saldo, e guarda oltre. Vestito del suo nero preferito, mira all’orizzonte e lentamente attraversa lo spazio con lo sguardo. Forse ha un cappello in testa o forse se lo è appena tolto e lo tiene in mano, forse ha anche un bastone con sé. La sua immagine ora mi rievoca il “Viandante sul mare di nebbia” di Caspar David Friedrich e mi chiedo se non è un caso che queste due immagini ora mi rimbalzano in testa e un po’ si rincorrono. C’è contemplazione nelle due, c’è lo spirito del romanticismo, l’esplorazione e l’avventura, c’è il bello che diventa sublime, c’è l’autoriflessione, il respiro che unisce il percorso alla meta. Una forma di solitudine utile al pensiero, e rivolta al mondo che si guarda e si abita.

È tutto questo il libro di Fredo. Frammenti, dice lui. Sono schegge, dicono altri. Sono parti di una vita, pezzi di mosaico che sembrano ritrarre l’autore nella sua completezza e allo stesso tempo continuano a suggerirti di andare oltre, perché non è con quella pagina che si confina una vita, una biografia, un’anima. Umilmente Fredo raccoglie quel che ha scritto e ha pensato in tanti anni e non sembra accorgersi che quando si raggiunge un punto all’orizzonte non si può fare a meno di andare avanti, perché la curiosità e il suo impegno nel tempo e nei mondi che ha conosciuto finiscono per contagiare il lettore, finiscono per renderlo avido di qualche storia in più. I punti che vede il lettore sono gli stessi punti che Fredo vede dal crinale. Sono mete, certo, ma il più delle volte sono mondi, vicini e lontani. Un intellettuale ha il raro pregio di offrire una visione alla comunità che abita, la comunità nativa che via via può estendersi fino ad includere chi appartiene alla grande famiglia dell’umanità. Il Fredo intellettuale non solo regala visioni del mondo, ma è capace di connettere quei puntini, ed è forse lì che trovo il perché di un Fredo Valla posto su un crinale montano. Perché è da lì che Fredo riesce ad unire i puntini, anche quando sono molto lontani tra loro. Vede elementi comuni e differenze, e traccia una linea, a volte più linee, che tutte insieme si intrecciano e regalano un ordito vivace nei colori e insieme rigoroso, solido, resistente. Da Sampeyre e Ostana alla foresta amazzonica, dai Pirenei occitani ai fiumi russi, dai Balcani alle nebbie padane, ogni spazio prende il suo senso ed entra prima nel tempo, e poi nella Storia. Da quel crinale Fredo vede il tempo. Non lo vede scorrere come un fiume innavigabile. Non lo vede minaccioso, o inquieto, pericoloso. Osserva quel fiume dall’alto, senza timore, e insieme sembra essere a riva, pronto a costruire una zattera e a salirci sopra, un po’ come fa il protagonista di uno dei suoi film preferiti, “Aguirre – Furore di Dio” di Werner Herzog. Fredo può salire sulla zattera ma non va alla ricerca dell’oro, non è uno dei conquistadores pronto ad uccidere chi è diverso per il semplice fatto che è Altro. Fredo ha la sua zattera ed è una zattera che unisce l’antropologia all’eresia. “Le strade della civiltà” – la raccolta di volumi con cui il maestro Serge Bertino lo ha introdotto alla ricerca e alla scrittura – incontrano il catarismo e il valdismo, dalla Bulgaria a Montségur alla Valle Pellice. L’amore per le storie e le tradizioni dei popoli - che porta dalla “sua” Baìo di Sampeyre alla festa di Boi Bumba nella città di Parintins in Brasile – incontra il pensiero ai margini, politico, libero e visionario dei maestri Gustavo Malan e François Fontan. Il suo essere cittadino di montagna (cittadino in quanto detentore di diritti e doveri) lo porta a credere fino in fondo in una storia, quella de “Il vento fa il suo giro” che ha qualcosa di eretico e antropologico fin nella sua scrittura, con una riflessione sull’accoglienza dello straniero in una comunità, con l’approfondimento lucido delle tante dinamiche comunitarie spesso malcelate, con il desiderio di portare a termine un film che non doveva interessare nessuno perché “un film sulle capre”. Un film che rischiava di stare nell’ennesimo cassetto dei progetti non portati a termine se non avesse preso la strada dell’amicizia con Giorgio Diritti, quella relazione sodale e artistica maturata negli anni, capace di accogliere nella sua grandezza la lezione del maestro Ermanno Olmi per poi – qui sì in un modo eretico e indipendente – intraprendere un proprio progetto andando oltre le relazioni vescovili e cardinalizie che, accennate da Fredo con tenera comprensione e divertita ironia, intrappolavano alcuni autori di fronte al “Papa” fondatore di Ipotesi Cinema a Bassano del Grappa.

A Sao Pedro, Brasile, non lontano da Manaus, ha del comico la fobia dei ragni che si impadronisce dei due amici registi e sceneggiatori, ospiti di una capanna in una notte insonne, passata a eliminare vedove nere con il piede del cavalletto fotografico. Lo strumento professionale, tecnico, al servizio della quotidianità. Un episodio inserito in un taccuino ricco di analisi, vivace nelle sue interpretazioni, curioso, un reportage/diario di vita in Amazzonia che è anche diario etnografico: la penna di Fredo è abile nel descrivere l'ambiente, le abitudini, le peculiarità culturali, le esigenze della comunità senza correre il rischio di oggettivizzare ma anzi esplicitando il proprio sguardo e il proprio posizionamento rispetto agli eventi e agli incontri, alla società che si attraversa. 

Fredo è sulla riva e sa che la corrente può andare più o meno veloce, sa – lo ripete spesso – che la Storia a volte può accelerare, che esistono sinergie e condizioni, combinazioni di variabili uniche che possono dare una spinta alla velocità e al susseguirsi degli eventi storici, alla zattera che trasporta i propri sogni, i propri ideali, le proprie speranze. Dal crinale in Valle Po, di fronte al Monviso, Fredo immagina l’Occitania, quella “finestra sul mondo” che gli ha cambiato la vita e dice a sé stesso “sono ancora qui a parlare e a scrivere di Occitania. A credere in un risorgimento occitano”. Le correnti della Storia cambiano ma la causa di una vita rimane, si trasforma in attivismo e arte, e diventa strumento e lente per osservare altri mondi lontani, come detto, ma anche per resistere, dal basso e dai margini eretici (ricordando che è eretico colui che sceglie), all’inclemente omogeneizzazione, a quell’escavatore del mercato e dello spirito conformista che vorrebbe livellare le cime, i pendii, le valli che Fredo vede dal suo crinale. Fredo non vuole appiattire la terra, anzi, ne ama le irregolarità, le sporgenze, le singolarità. Le ama così tanto che ama essere ponte tra queste cime, ancora una volta unisce i puntini, e non si può non rilevare la sua abilità nel costruire i ponti, linee che vogliono superare le faziosità interne ai movimenti politici e culturali, linee che tentano di liberare chi è costretto dalle rigidità del politicamente corretto, dalle rigidità delle regole accademiche, delle condizioni produttive e burocratiche. In questi casi lo sguardo di Fredo sembra volare e farsi mediatore, quando gli è possibile. È per questo che Fredo sta là sul crinale, perché da là può osservare il territorio, scegliere il punto che più desidera e volare in quella direzione, per immergersi in fondo a quel contesto e risalire solo quando sente che ha toccato il fondo, quando sente che la ricerca è esaustiva, quando non c’è più niente da scavare. “Bogre. La grande eresia europea” è il risultato di questo approccio, un’infinita competenza storica, la necessità di fare memoria e la capacità di unire la storia laddove è stata strappata, laddove l’eresia è stata massacrata. L’immagine che segue, un lampo tra le righe di “Le parole del padre”, è quella di Nadin, che “trovò il corpo del figlio, un anno dopo la fucilazione e dopo aver disseppellito una quarantina di cadaveri”. La storia è quella di Nadinot, figlio di Nadin, giustiziato dai partigiani, una di quelle storie che Fredo ha raccolto negli anni, e che è rimasta lì, un archivio pronto per essere narrato, che comprende un sopralluogo con una 8 mm che non può non fare gola a tutti gli amanti del montaggio e della memoria della resistenza. Fredo scava a lungo allo stesso modo di Nadin, a volte cerca anche verità e giustizia, e poi risale, come archeologo con un reperto, come sub, come le vite dentro al sottomarino che ha raccontato in “Medusa”. Quando risale in superficie guarda al futuro. Pensa alla vita sulle sue montagne e si chiede “Possibile che tutto ciò sia finito?”. “Potremo tornare”, sembra dire, “noi popoli delle montagne, a disegnare, a inventare il nostro futuro?” Le domande sono tutte pertinenti, da chi, proprio su quelle montagne, ad Ostana, scrive “La notte guardo il cielo. Guardo con gli occhi di quel bambino che sono stato. Cerco le costellazioni, passo da una un’altra, seguo quei sentieri nel buio, fatti di linee e intrecci, che mio padre mi insegnò molti anni fa come un gioco”. Oggi quel bambino è diventato padre e ha scritto al suo figlio le sue lettere, le sue parole. Una raccolta di frammenti, dice. Il figlio potrà amarla quando il tempo lo dirà. Potrà mettersi sulla riva, e salire sulla zattera giusta, seguendo la corrente.

Il cielo continua ad avere gli stessi colori, forse Fredo Valla ora si è rimesso il cappello in testa, lassù sul crinale. Dal basso, dalle valli, o laggiù, dall’orizzonte, sembra salire, quasi come un coro, un sentimento di gratitudine che tutti gli dobbiamo, in un modo o nell’altro, e che non può non scaturire dalla lettura di questo libro. L’immagine è la stessa, c’è la silhouette, il cielo ha il blu e il rosso. Ma in me ora si è insinuata un’altra immagine, e prevale, come un’interruzione fondamentale e necessaria. Fredo e Giorgio sono all’aeroporto di Cagliari, una tappa del loro viaggio, e lì l’idea della Scuola di Cinema di Ostana diventa un’idea concreta. In quel momento Fredo non poteva saperlo, ma è cambiata anche la mia vita. Nello stesso modo in cui è cambiata la sua di vita, ogni qualvolta ha incontrato e riconosciuto un maestro. Grazie Fredo.

occitan

Se lhi a un’image que me torna en ment tuchi lhi bòts que penso a “Le parole del padre” de Fredo Valla o mielh se lhi a un’image que continuava a tornar-me en ment chasque bòt que lesiu sas pàgines, vaquí, aquela imatge es simple e forta, dins son essença e dins son epicitat, forma e sostança que s’embraçon e esquasi t’esblucon dins lor netessa: Fredo es sus un crest de montanha, aut, lo cèl es sensa núvolas e lo solelh ista calant, una traça de ros se mescla al blòi, la figura de Fredo es aquela d’un òme es quasi còntralutz, una figura niera, de fach una silueta. Es en pè, ferm, e beica al delai. Vestit de son nier preferit, mira l’orizont e lentament atravèrsa l’espaci abo l’esgard. Magara a un chapèl en tèsta  o magara se l’es just gavat e lo ten en man, magara a decó un baston. Son imatge aüra m’évoca “Lo vianant sal mar de nèbla” de Caspar David Friedrich e me demando se es ren un cas que aquestes doas images aüra me redonden en tèsta e un pauc se rencorren. Lhi a de contemplacion dins las doas, lhi a l’esprit dal romanticisme, l’exploracion e l’aventura, lhi a lo bèl que deven sublim, lhi a l’autoreflexion, l’alen que jonh lo percors a la mira. Una forma de solituda útila al pensier, adreçaa al mond que se beica e se àbita.

Es tot aquò lo libre de Fredo. De fragments, ditz nele. Son d’esquejas, dison d’autri. Son de parts d’una vita, de tocs d’un mosaic que semelhon retraire l’autor dins sa completesa e an un bòt contínuon a suggerir-te d’anar al delai, perquè es ren abo aquela pàgina que se confina una vita, una biografia, un’ànima. Umilment Fredo recuelh çò que a escrich e pensat dins tanti ans e semelha pas avisar-se que quora sun rejonh un ponch a l’orizont un pòl pas far a menc d’anar anant, perquè la curiositat e son empenh ental temp e enti monds que a conoissut finisson per contagiar lo lector, finisson per render-lo àvid de quarque estòria de mai. Lhi ponchs que ve lo lector son lhi mesmes ponchs que Fredo ve dal crest. Son de miras, segur, mas la major part di bots son de monds, da pè e daluenh. Un intellectual a la rara qualitat d’ofrir una vision a la comunitat ente ista, la comunitat nativa que man a man pòl eslarjar-se fins a encluire qui aparten a la granda familha de l’umanitat. Lo Fredo intellectual ren masque semon de visions dal mont, mas es bòn a unir aquilhi ponchets, e benlèu es aquí que trobo lo perquè d’un Fredo Valla sus un crest de montanha. Perqué es d’aquí que Fredo arruba a unir lhi ponchets, bèla quora son pro luenhs entre lor. Ve d’elements comuns e de diferenças, e traça una linha, de bòts mai d’una, que totes ensema de tèrçon e regalon una trama viva enti colors e ensem rigorosa, sòlida, resistenta. Da Sant Peire e Ostana a la forèsta amazònica, da lhi Pirenèus occitans a lhi flum rus, da lhi Balcans a las nèblas padanas, chasque espaci pilha son sens e intra deran ental temp, puei dins l’Estòria. Da aquel crest Fredo ve lo temp. Lo ve ren escórrer coma un flum innavigable. Lo ve ren menaçós, o inquiet, pericolós. Obsèrva aquel flum da ‘aut, sensa crenta, e ensema semelha èsser sus la riba, prompt a construïr un radeu e a montar-lhi sus, un pauc coma fai lo protagonista d’un de si film preferits, “Aguirre – Furor de Diu” de Werner Herzog. Fredo pòl montar sal radeu mas vai ren a la recèrcha de l’òr, es ren un di conquistadores prompt a maçar qui es diferent masque per lo fach que es Autre. Fredo a son radeu e es un radeu que unís l’antropologia a l’eresia. “Le strade della civiltà” – lo recuelh de volums abo lo qual lo mèstre Serge Bertino l’a introduch la recèrcha e a l’escrichura – encòntron lo catarisme e lo valdisme, da la Bulgaria a Montsegur a la Val Pelis. L’amor per las estòrias e las tradicions di pòples – que pòrta da “sa Baïa de Sant Peire a la festa di Boi Bumba dins la vila de Parintins en Brasil – encòntra lo pensier al marge, polític, libre e visionari di mestres Gustavo Malan e François Fontan. Son èsser citadin de montanha (citadin en tant que dententor de drechs e devers) lo pòrta a creire fins en fons dins un’estòria, aquela de “L’aura fai son vir” que a quarquaren d’erètic e d’antropològic bèla dins son escrichura, abo una reflexions us l’aculhença de l’estrangier dins una comunitat, abo l’aprofondiment lúcid de las tantes dinàmicas comunitàries sovent mal estremaas, abo lo desidèri de portar a terme un film que devia pas interessar degun perquè “un film sus las chabras”. Un film que riscava d’istar dins l’enen tiraor di projècts ren finits se auguesse ren pilhat lo chamin de l’amicícia abo Giorgio Diritti, aquela relacion sodala e artística maüraa dins lhi ans, capabla d’aculhir dins sa grandessa la lecion dal mèstre Ermanno Olmi per puei – aquí sì un biais erètic e indipendent – enchaminar un lor projèct en anant al delai de las relacions vescovilas e cardinalícias que, mencionaas da Fredo abo una tenra comprension e una divertia ironia, blocavon quarqui autors derant al “Papa” fondator de Ipotesi Cinema a Bassano del Grappa.

A sao Pedro, en Brasil, ren daluenh da Manaus, es un pauc còmica la fòbia di ranhs que chapa lhi dui amís regista e scenetjators, òstes dins una cabana dins una nuech sensa dormir, passaa a eliminar de vevas nieres abo lo pè dal cavalet fotogràfic. L’enstrument professional, tècnic, al servici de la quotidianitat. Un episodi inserit dins un quadernet ric d’anàlisis, viu dins sas interpretacions, curiós, un reportatge/diari de vita en Amazònia que es decó un diari etnogràfic: la pluma de Fredo es àbila enta descriure l’ambient, las costumas, las particularitats culturalas, las exigenças de la comunitat sensa córrer lo risc d’objectivizar mas en expriment son esgard e sa posicion sus lhi aveniments e lhi encòntres, la societat que atraversem.

Fredo es sus la riba e sa que la corrent pòl anar pus o menc fito, sa  - lo repet sovent – que l’Estòria mincatant pòl anar pus lèsta, que existon de sinergies e de condicions, de combinacions de variablas únicas que pòlon donar una possaa a la velocitat e  seguir-se de lhi aveniments estòrics, al radeu que transpòrta si sumis, si ideals, sas esperanças. Dal crest en Val Pò, derant al Vísol, Fredo imàgiana l’Occitània, aquela “fenèstra sal mond” que lhi a chambiat la vita e se ditz “siu ençà icí a parlar e a escriure d’Occitània. A creire dins una renaissença occitana”. Las corrents de l’Estòria chambion mas la causa d’una vita resta, se transforma en activisme e art, e deven un enstrument e una lent per beicar d’autri monds luenhs, coma dich, mas decó per resíster, dal bas e da lhi marges erètics (en navisant que es erètic qui ciern) a l’omogeneïzacion inclementa, a aquel chavaor dal marchat e de l’esprit conformista que voleria nivelar las cimas, las broas, las valadas que Fredo ve da son crest. Fredo vòl ren aplatir la tèrra, al contrari, ama sas irregolaritats, sas salhias, sas singularitat. Las ama parelh tant que ama èsser un pònt entre aquestes cimas, ençà un bòt jonh lhi ponchets, e se pòl pas ren notar son abilitat ental construir lhi pònts, de linhas que vòlon sobrar las faciositats enti moviments polítics e culturals, de linhas que tempton de liberar qui es constrech da las rigiditats dal políticament corrèct, de las règlas acadèmicas, de las condicions productives e burocràticas. Ent aquesti cas l’esgard de Fredo semelha volar e far-se mediator, quora pòl. E es pr’aquò que Fredo es ilai sal crest, perquè d’ilai pòl observar lo territori, ciérner lo ponch que vòl de mai e volar ent aquela direccion, per immèrger-se alfons d’aquel context e remontar masque quora sent que a truchat lo fons, quora sent que la recèrcha es exhaustiva, quora lhi a pas pus ren da chavar. “Bogre. La grande eresia europea” es lo resultat d’aquel apròch, una competença estòrica, lo besonh de crear de memòria e la capacitat d’unir l’estòria ilai ente es istaa eschancaa, ente l’eresia es istaa massacraa. L’image que ven, un esluç entre las rigas de “Le parole del padre”, es aquela de Nadin, que “a trobat lo còrp dal filh, un an après sa fusiliacion  e après aver desenterrat una quarantena de cadavres”. L’estòria es aquela de Nadinòt, filh de Nadin, justiciat da lhi partisans, una d’aquelas estòrias que Fredo a reculhit dins lhi ans, e que es restaa aquí, un arquivi prest per èsser contiat, que compren un sobreluec abo una 8mm que pòl pas ren far gola a tuchi lhi amants dal montatge e de la memòria de la resistença. Fredo chava a lòng coma Nadin, de bòts cèrcha decó de veritat e de justícia, e après remonta, coma un arqueòlog abo un repèrt, coma un plonjaire, coma las vitas ental somarin que a contiat dins “Medusa”. Quora remonta en superfiç beica vèrs l’avenir. Pensa a la vita sus sas montanhas e se demanda “Possible que tot sie finit?”. “Polarèm tornar”, semelha dir, “nosautri pòples de las montanhas, a dessenhar, a inventar nostre futur?” Las demandes son totes pertinentas, da qui, pròpi sus aquelas montanhas, a Ostana, escriu “De nuech beico lo cèl. Beico abo lhi uelhs d’aquela mainaa que siu istat. Cèrcho las constellacions, passo da una a l’autra, seguo aquilhi chamins dins l’escur, fachs de linhas e de tramas, que mon paire m’a mostrat ben d’ans fa coma un juec”. Encui aquel filhet es vengut paire e a escrich a son filh sas letras, sas paraulas. Un recuelh de fragments, ditz. Lo filh polarè amar-la quora lo disarè lo temp. Polarè butar-se sus la riba, e montar sal just radeu, en seguent la corrent.

Lo cèl contínua a aver lhi mesmes colors, benlèu Fredo Valla aura s’es rebutat lo chapèl en tèsta, ilamont sal crest. Dal bas, da las valadas, o ilaval, da l’orizont, semelha montar, esquasi coma un còr, un sentiment de gratituda que tuchi lhi devem, en quarque maniera, e que pòl pas ren nàisser da la lectura d’aqueste libre. L’image es la mesma, lhi a una silueta, lo cèl a lo blòi e lo ros. mas dins mi aüra s’es insinuaa un’autra imatge, e preval, coma un’interrupcion fondamentala e necessària. Fredo e Giorgio son a l’areopòrt de Cagliari, una tapa de lor viatge, e aquí l’idea de la Scuola di Cinema di Ostana deven un’idea concreta. Dins aquel moment Fredo polia ren sauber-lo, mas es chambiaa decó ma vita. Parelh coma es chambiaa sa vita, tuchi lhi bòts que a encontrat e a reconoissut un mèstre. Gràcias Fredo.


Lingua e cultura di un territorio montano

Lingua e cultura di un territorio montano

“Le parole del padre”: il crinale di Fredo Valla.

“Le parole del padre”: lo crest de Fredo Valla.

di Andrea Fantino

“Le parole del padre”: il crinale di Fredo Valla.
italiano

Se c’è un’immagine che mi torna in mente ogni volta che penso a “Le parole del padre” di Fredo Valla o meglio se c’era un’immagine che continuava a tornarmi in mente ogni volta che leggevo le sue pagine, ecco, quell’immagine è semplice e forte, nella sua essenza e nella sua epicità, forma e sostanza che si abbracciano e quasi ti abbagliano nella loro nitidezza: Fredo è su un crinale montano, alto, il cielo è sgombro di nuvole e il sole sta scendendo, una scia di rosso si mischia al blu, la figura di Fredo è quella di un uomo quasi controluce, una figura nera, di fatto una silhouette. È in piedi, saldo, e guarda oltre. Vestito del suo nero preferito, mira all’orizzonte e lentamente attraversa lo spazio con lo sguardo. Forse ha un cappello in testa o forse se lo è appena tolto e lo tiene in mano, forse ha anche un bastone con sé. La sua immagine ora mi rievoca il “Viandante sul mare di nebbia” di Caspar David Friedrich e mi chiedo se non è un caso che queste due immagini ora mi rimbalzano in testa e un po’ si rincorrono. C’è contemplazione nelle due, c’è lo spirito del romanticismo, l’esplorazione e l’avventura, c’è il bello che diventa sublime, c’è l’autoriflessione, il respiro che unisce il percorso alla meta. Una forma di solitudine utile al pensiero, e rivolta al mondo che si guarda e si abita.

È tutto questo il libro di Fredo. Frammenti, dice lui. Sono schegge, dicono altri. Sono parti di una vita, pezzi di mosaico che sembrano ritrarre l’autore nella sua completezza e allo stesso tempo continuano a suggerirti di andare oltre, perché non è con quella pagina che si confina una vita, una biografia, un’anima. Umilmente Fredo raccoglie quel che ha scritto e ha pensato in tanti anni e non sembra accorgersi che quando si raggiunge un punto all’orizzonte non si può fare a meno di andare avanti, perché la curiosità e il suo impegno nel tempo e nei mondi che ha conosciuto finiscono per contagiare il lettore, finiscono per renderlo avido di qualche storia in più. I punti che vede il lettore sono gli stessi punti che Fredo vede dal crinale. Sono mete, certo, ma il più delle volte sono mondi, vicini e lontani. Un intellettuale ha il raro pregio di offrire una visione alla comunità che abita, la comunità nativa che via via può estendersi fino ad includere chi appartiene alla grande famiglia dell’umanità. Il Fredo intellettuale non solo regala visioni del mondo, ma è capace di connettere quei puntini, ed è forse lì che trovo il perché di un Fredo Valla posto su un crinale montano. Perché è da lì che Fredo riesce ad unire i puntini, anche quando sono molto lontani tra loro. Vede elementi comuni e differenze, e traccia una linea, a volte più linee, che tutte insieme si intrecciano e regalano un ordito vivace nei colori e insieme rigoroso, solido, resistente. Da Sampeyre e Ostana alla foresta amazzonica, dai Pirenei occitani ai fiumi russi, dai Balcani alle nebbie padane, ogni spazio prende il suo senso ed entra prima nel tempo, e poi nella Storia. Da quel crinale Fredo vede il tempo. Non lo vede scorrere come un fiume innavigabile. Non lo vede minaccioso, o inquieto, pericoloso. Osserva quel fiume dall’alto, senza timore, e insieme sembra essere a riva, pronto a costruire una zattera e a salirci sopra, un po’ come fa il protagonista di uno dei suoi film preferiti, “Aguirre – Furore di Dio” di Werner Herzog. Fredo può salire sulla zattera ma non va alla ricerca dell’oro, non è uno dei conquistadores pronto ad uccidere chi è diverso per il semplice fatto che è Altro. Fredo ha la sua zattera ed è una zattera che unisce l’antropologia all’eresia. “Le strade della civiltà” – la raccolta di volumi con cui il maestro Serge Bertino lo ha introdotto alla ricerca e alla scrittura – incontrano il catarismo e il valdismo, dalla Bulgaria a Montségur alla Valle Pellice. L’amore per le storie e le tradizioni dei popoli - che porta dalla “sua” Baìo di Sampeyre alla festa di Boi Bumba nella città di Parintins in Brasile – incontra il pensiero ai margini, politico, libero e visionario dei maestri Gustavo Malan e François Fontan. Il suo essere cittadino di montagna (cittadino in quanto detentore di diritti e doveri) lo porta a credere fino in fondo in una storia, quella de “Il vento fa il suo giro” che ha qualcosa di eretico e antropologico fin nella sua scrittura, con una riflessione sull’accoglienza dello straniero in una comunità, con l’approfondimento lucido delle tante dinamiche comunitarie spesso malcelate, con il desiderio di portare a termine un film che non doveva interessare nessuno perché “un film sulle capre”. Un film che rischiava di stare nell’ennesimo cassetto dei progetti non portati a termine se non avesse preso la strada dell’amicizia con Giorgio Diritti, quella relazione sodale e artistica maturata negli anni, capace di accogliere nella sua grandezza la lezione del maestro Ermanno Olmi per poi – qui sì in un modo eretico e indipendente – intraprendere un proprio progetto andando oltre le relazioni vescovili e cardinalizie che, accennate da Fredo con tenera comprensione e divertita ironia, intrappolavano alcuni autori di fronte al “Papa” fondatore di Ipotesi Cinema a Bassano del Grappa.

A Sao Pedro, Brasile, non lontano da Manaus, ha del comico la fobia dei ragni che si impadronisce dei due amici registi e sceneggiatori, ospiti di una capanna in una notte insonne, passata a eliminare vedove nere con il piede del cavalletto fotografico. Lo strumento professionale, tecnico, al servizio della quotidianità. Un episodio inserito in un taccuino ricco di analisi, vivace nelle sue interpretazioni, curioso, un reportage/diario di vita in Amazzonia che è anche diario etnografico: la penna di Fredo è abile nel descrivere l'ambiente, le abitudini, le peculiarità culturali, le esigenze della comunità senza correre il rischio di oggettivizzare ma anzi esplicitando il proprio sguardo e il proprio posizionamento rispetto agli eventi e agli incontri, alla società che si attraversa. 

Fredo è sulla riva e sa che la corrente può andare più o meno veloce, sa – lo ripete spesso – che la Storia a volte può accelerare, che esistono sinergie e condizioni, combinazioni di variabili uniche che possono dare una spinta alla velocità e al susseguirsi degli eventi storici, alla zattera che trasporta i propri sogni, i propri ideali, le proprie speranze. Dal crinale in Valle Po, di fronte al Monviso, Fredo immagina l’Occitania, quella “finestra sul mondo” che gli ha cambiato la vita e dice a sé stesso “sono ancora qui a parlare e a scrivere di Occitania. A credere in un risorgimento occitano”. Le correnti della Storia cambiano ma la causa di una vita rimane, si trasforma in attivismo e arte, e diventa strumento e lente per osservare altri mondi lontani, come detto, ma anche per resistere, dal basso e dai margini eretici (ricordando che è eretico colui che sceglie), all’inclemente omogeneizzazione, a quell’escavatore del mercato e dello spirito conformista che vorrebbe livellare le cime, i pendii, le valli che Fredo vede dal suo crinale. Fredo non vuole appiattire la terra, anzi, ne ama le irregolarità, le sporgenze, le singolarità. Le ama così tanto che ama essere ponte tra queste cime, ancora una volta unisce i puntini, e non si può non rilevare la sua abilità nel costruire i ponti, linee che vogliono superare le faziosità interne ai movimenti politici e culturali, linee che tentano di liberare chi è costretto dalle rigidità del politicamente corretto, dalle rigidità delle regole accademiche, delle condizioni produttive e burocratiche. In questi casi lo sguardo di Fredo sembra volare e farsi mediatore, quando gli è possibile. È per questo che Fredo sta là sul crinale, perché da là può osservare il territorio, scegliere il punto che più desidera e volare in quella direzione, per immergersi in fondo a quel contesto e risalire solo quando sente che ha toccato il fondo, quando sente che la ricerca è esaustiva, quando non c’è più niente da scavare. “Bogre. La grande eresia europea” è il risultato di questo approccio, un’infinita competenza storica, la necessità di fare memoria e la capacità di unire la storia laddove è stata strappata, laddove l’eresia è stata massacrata. L’immagine che segue, un lampo tra le righe di “Le parole del padre”, è quella di Nadin, che “trovò il corpo del figlio, un anno dopo la fucilazione e dopo aver disseppellito una quarantina di cadaveri”. La storia è quella di Nadinot, figlio di Nadin, giustiziato dai partigiani, una di quelle storie che Fredo ha raccolto negli anni, e che è rimasta lì, un archivio pronto per essere narrato, che comprende un sopralluogo con una 8 mm che non può non fare gola a tutti gli amanti del montaggio e della memoria della resistenza. Fredo scava a lungo allo stesso modo di Nadin, a volte cerca anche verità e giustizia, e poi risale, come archeologo con un reperto, come sub, come le vite dentro al sottomarino che ha raccontato in “Medusa”. Quando risale in superficie guarda al futuro. Pensa alla vita sulle sue montagne e si chiede “Possibile che tutto ciò sia finito?”. “Potremo tornare”, sembra dire, “noi popoli delle montagne, a disegnare, a inventare il nostro futuro?” Le domande sono tutte pertinenti, da chi, proprio su quelle montagne, ad Ostana, scrive “La notte guardo il cielo. Guardo con gli occhi di quel bambino che sono stato. Cerco le costellazioni, passo da una un’altra, seguo quei sentieri nel buio, fatti di linee e intrecci, che mio padre mi insegnò molti anni fa come un gioco”. Oggi quel bambino è diventato padre e ha scritto al suo figlio le sue lettere, le sue parole. Una raccolta di frammenti, dice. Il figlio potrà amarla quando il tempo lo dirà. Potrà mettersi sulla riva, e salire sulla zattera giusta, seguendo la corrente.

Il cielo continua ad avere gli stessi colori, forse Fredo Valla ora si è rimesso il cappello in testa, lassù sul crinale. Dal basso, dalle valli, o laggiù, dall’orizzonte, sembra salire, quasi come un coro, un sentimento di gratitudine che tutti gli dobbiamo, in un modo o nell’altro, e che non può non scaturire dalla lettura di questo libro. L’immagine è la stessa, c’è la silhouette, il cielo ha il blu e il rosso. Ma in me ora si è insinuata un’altra immagine, e prevale, come un’interruzione fondamentale e necessaria. Fredo e Giorgio sono all’aeroporto di Cagliari, una tappa del loro viaggio, e lì l’idea della Scuola di Cinema di Ostana diventa un’idea concreta. In quel momento Fredo non poteva saperlo, ma è cambiata anche la mia vita. Nello stesso modo in cui è cambiata la sua di vita, ogni qualvolta ha incontrato e riconosciuto un maestro. Grazie Fredo.

occitan

Se lhi a un’image que me torna en ment tuchi lhi bòts que penso a “Le parole del padre” de Fredo Valla o mielh se lhi a un’image que continuava a tornar-me en ment chasque bòt que lesiu sas pàgines, vaquí, aquela imatge es simple e forta, dins son essença e dins son epicitat, forma e sostança que s’embraçon e esquasi t’esblucon dins lor netessa: Fredo es sus un crest de montanha, aut, lo cèl es sensa núvolas e lo solelh ista calant, una traça de ros se mescla al blòi, la figura de Fredo es aquela d’un òme es quasi còntralutz, una figura niera, de fach una silueta. Es en pè, ferm, e beica al delai. Vestit de son nier preferit, mira l’orizont e lentament atravèrsa l’espaci abo l’esgard. Magara a un chapèl en tèsta  o magara se l’es just gavat e lo ten en man, magara a decó un baston. Son imatge aüra m’évoca “Lo vianant sal mar de nèbla” de Caspar David Friedrich e me demando se es ren un cas que aquestes doas images aüra me redonden en tèsta e un pauc se rencorren. Lhi a de contemplacion dins las doas, lhi a l’esprit dal romanticisme, l’exploracion e l’aventura, lhi a lo bèl que deven sublim, lhi a l’autoreflexion, l’alen que jonh lo percors a la mira. Una forma de solituda útila al pensier, adreçaa al mond que se beica e se àbita.

Es tot aquò lo libre de Fredo. De fragments, ditz nele. Son d’esquejas, dison d’autri. Son de parts d’una vita, de tocs d’un mosaic que semelhon retraire l’autor dins sa completesa e an un bòt contínuon a suggerir-te d’anar al delai, perquè es ren abo aquela pàgina que se confina una vita, una biografia, un’ànima. Umilment Fredo recuelh çò que a escrich e pensat dins tanti ans e semelha pas avisar-se que quora sun rejonh un ponch a l’orizont un pòl pas far a menc d’anar anant, perquè la curiositat e son empenh ental temp e enti monds que a conoissut finisson per contagiar lo lector, finisson per render-lo àvid de quarque estòria de mai. Lhi ponchs que ve lo lector son lhi mesmes ponchs que Fredo ve dal crest. Son de miras, segur, mas la major part di bots son de monds, da pè e daluenh. Un intellectual a la rara qualitat d’ofrir una vision a la comunitat ente ista, la comunitat nativa que man a man pòl eslarjar-se fins a encluire qui aparten a la granda familha de l’umanitat. Lo Fredo intellectual ren masque semon de visions dal mont, mas es bòn a unir aquilhi ponchets, e benlèu es aquí que trobo lo perquè d’un Fredo Valla sus un crest de montanha. Perqué es d’aquí que Fredo arruba a unir lhi ponchets, bèla quora son pro luenhs entre lor. Ve d’elements comuns e de diferenças, e traça una linha, de bòts mai d’una, que totes ensema de tèrçon e regalon una trama viva enti colors e ensem rigorosa, sòlida, resistenta. Da Sant Peire e Ostana a la forèsta amazònica, da lhi Pirenèus occitans a lhi flum rus, da lhi Balcans a las nèblas padanas, chasque espaci pilha son sens e intra deran ental temp, puei dins l’Estòria. Da aquel crest Fredo ve lo temp. Lo ve ren escórrer coma un flum innavigable. Lo ve ren menaçós, o inquiet, pericolós. Obsèrva aquel flum da ‘aut, sensa crenta, e ensema semelha èsser sus la riba, prompt a construïr un radeu e a montar-lhi sus, un pauc coma fai lo protagonista d’un de si film preferits, “Aguirre – Furor de Diu” de Werner Herzog. Fredo pòl montar sal radeu mas vai ren a la recèrcha de l’òr, es ren un di conquistadores prompt a maçar qui es diferent masque per lo fach que es Autre. Fredo a son radeu e es un radeu que unís l’antropologia a l’eresia. “Le strade della civiltà” – lo recuelh de volums abo lo qual lo mèstre Serge Bertino l’a introduch la recèrcha e a l’escrichura – encòntron lo catarisme e lo valdisme, da la Bulgaria a Montsegur a la Val Pelis. L’amor per las estòrias e las tradicions di pòples – que pòrta da “sa Baïa de Sant Peire a la festa di Boi Bumba dins la vila de Parintins en Brasil – encòntra lo pensier al marge, polític, libre e visionari di mestres Gustavo Malan e François Fontan. Son èsser citadin de montanha (citadin en tant que dententor de drechs e devers) lo pòrta a creire fins en fons dins un’estòria, aquela de “L’aura fai son vir” que a quarquaren d’erètic e d’antropològic bèla dins son escrichura, abo una reflexions us l’aculhença de l’estrangier dins una comunitat, abo l’aprofondiment lúcid de las tantes dinàmicas comunitàries sovent mal estremaas, abo lo desidèri de portar a terme un film que devia pas interessar degun perquè “un film sus las chabras”. Un film que riscava d’istar dins l’enen tiraor di projècts ren finits se auguesse ren pilhat lo chamin de l’amicícia abo Giorgio Diritti, aquela relacion sodala e artística maüraa dins lhi ans, capabla d’aculhir dins sa grandessa la lecion dal mèstre Ermanno Olmi per puei – aquí sì un biais erètic e indipendent – enchaminar un lor projèct en anant al delai de las relacions vescovilas e cardinalícias que, mencionaas da Fredo abo una tenra comprension e una divertia ironia, blocavon quarqui autors derant al “Papa” fondator de Ipotesi Cinema a Bassano del Grappa.

A sao Pedro, en Brasil, ren daluenh da Manaus, es un pauc còmica la fòbia di ranhs que chapa lhi dui amís regista e scenetjators, òstes dins una cabana dins una nuech sensa dormir, passaa a eliminar de vevas nieres abo lo pè dal cavalet fotogràfic. L’enstrument professional, tècnic, al servici de la quotidianitat. Un episodi inserit dins un quadernet ric d’anàlisis, viu dins sas interpretacions, curiós, un reportatge/diari de vita en Amazònia que es decó un diari etnogràfic: la pluma de Fredo es àbila enta descriure l’ambient, las costumas, las particularitats culturalas, las exigenças de la comunitat sensa córrer lo risc d’objectivizar mas en expriment son esgard e sa posicion sus lhi aveniments e lhi encòntres, la societat que atraversem.

Fredo es sus la riba e sa que la corrent pòl anar pus o menc fito, sa  - lo repet sovent – que l’Estòria mincatant pòl anar pus lèsta, que existon de sinergies e de condicions, de combinacions de variablas únicas que pòlon donar una possaa a la velocitat e  seguir-se de lhi aveniments estòrics, al radeu que transpòrta si sumis, si ideals, sas esperanças. Dal crest en Val Pò, derant al Vísol, Fredo imàgiana l’Occitània, aquela “fenèstra sal mond” que lhi a chambiat la vita e se ditz “siu ençà icí a parlar e a escriure d’Occitània. A creire dins una renaissença occitana”. Las corrents de l’Estòria chambion mas la causa d’una vita resta, se transforma en activisme e art, e deven un enstrument e una lent per beicar d’autri monds luenhs, coma dich, mas decó per resíster, dal bas e da lhi marges erètics (en navisant que es erètic qui ciern) a l’omogeneïzacion inclementa, a aquel chavaor dal marchat e de l’esprit conformista que voleria nivelar las cimas, las broas, las valadas que Fredo ve da son crest. Fredo vòl ren aplatir la tèrra, al contrari, ama sas irregolaritats, sas salhias, sas singularitat. Las ama parelh tant que ama èsser un pònt entre aquestes cimas, ençà un bòt jonh lhi ponchets, e se pòl pas ren notar son abilitat ental construir lhi pònts, de linhas que vòlon sobrar las faciositats enti moviments polítics e culturals, de linhas que tempton de liberar qui es constrech da las rigiditats dal políticament corrèct, de las règlas acadèmicas, de las condicions productives e burocràticas. Ent aquesti cas l’esgard de Fredo semelha volar e far-se mediator, quora pòl. E es pr’aquò que Fredo es ilai sal crest, perquè d’ilai pòl observar lo territori, ciérner lo ponch que vòl de mai e volar ent aquela direccion, per immèrger-se alfons d’aquel context e remontar masque quora sent que a truchat lo fons, quora sent que la recèrcha es exhaustiva, quora lhi a pas pus ren da chavar. “Bogre. La grande eresia europea” es lo resultat d’aquel apròch, una competença estòrica, lo besonh de crear de memòria e la capacitat d’unir l’estòria ilai ente es istaa eschancaa, ente l’eresia es istaa massacraa. L’image que ven, un esluç entre las rigas de “Le parole del padre”, es aquela de Nadin, que “a trobat lo còrp dal filh, un an après sa fusiliacion  e après aver desenterrat una quarantena de cadavres”. L’estòria es aquela de Nadinòt, filh de Nadin, justiciat da lhi partisans, una d’aquelas estòrias que Fredo a reculhit dins lhi ans, e que es restaa aquí, un arquivi prest per èsser contiat, que compren un sobreluec abo una 8mm que pòl pas ren far gola a tuchi lhi amants dal montatge e de la memòria de la resistença. Fredo chava a lòng coma Nadin, de bòts cèrcha decó de veritat e de justícia, e après remonta, coma un arqueòlog abo un repèrt, coma un plonjaire, coma las vitas ental somarin que a contiat dins “Medusa”. Quora remonta en superfiç beica vèrs l’avenir. Pensa a la vita sus sas montanhas e se demanda “Possible que tot sie finit?”. “Polarèm tornar”, semelha dir, “nosautri pòples de las montanhas, a dessenhar, a inventar nostre futur?” Las demandes son totes pertinentas, da qui, pròpi sus aquelas montanhas, a Ostana, escriu “De nuech beico lo cèl. Beico abo lhi uelhs d’aquela mainaa que siu istat. Cèrcho las constellacions, passo da una a l’autra, seguo aquilhi chamins dins l’escur, fachs de linhas e de tramas, que mon paire m’a mostrat ben d’ans fa coma un juec”. Encui aquel filhet es vengut paire e a escrich a son filh sas letras, sas paraulas. Un recuelh de fragments, ditz. Lo filh polarè amar-la quora lo disarè lo temp. Polarè butar-se sus la riba, e montar sal just radeu, en seguent la corrent.

Lo cèl contínua a aver lhi mesmes colors, benlèu Fredo Valla aura s’es rebutat lo chapèl en tèsta, ilamont sal crest. Dal bas, da las valadas, o ilaval, da l’orizont, semelha montar, esquasi coma un còr, un sentiment de gratituda que tuchi lhi devem, en quarque maniera, e que pòl pas ren nàisser da la lectura d’aqueste libre. L’image es la mesma, lhi a una silueta, lo cèl a lo blòi e lo ros. mas dins mi aüra s’es insinuaa un’autra imatge, e preval, coma un’interrupcion fondamentala e necessària. Fredo e Giorgio son a l’areopòrt de Cagliari, una tapa de lor viatge, e aquí l’idea de la Scuola di Cinema di Ostana deven un’idea concreta. Dins aquel moment Fredo polia ren sauber-lo, mas es chambiaa decó ma vita. Parelh coma es chambiaa sa vita, tuchi lhi bòts que a encontrat e a reconoissut un mèstre. Gràcias Fredo.