Dopo aver toccato altri temi, vorrei riprendere il discorso intorno alla letteratura francoprovenzale. Nell’articolo 5 abbiamo iniziato a conoscere le origini di questa produzione letteraria e abbiamo individuato in Marguerite d’Oingt, mistica lionese del XIII secolo, la prima scrittrice di un testo in francoprovenzale.
Da allora e lungo tutto il medioevo, la creazione in lingua rimane limitata a qualche traduzione di opere classiche e a rari esempi di prosa. Solo a partire dal Cinquecento i testi diventano più numerosi e provengono dai grandi centri culturali della regione quali Lione, Ginevra e Grenoble e dalla Savoia.
Va dunque constatato come la lingua del popolo, quella che la tradizione italiana definisce “volgare”, il parlare del volgo, della gente, incomincia ad assumere una veste grafica al pari del francese o dell’occitano. Lungi dall’essere presente un sistema di regole grafiche condivise, e lungi dall’avere un vero obiettivo letterario, tali composizioni manifestano tuttavia il desiderio di trasmettere dei contenuti in una lingua socialmente compresa.
Il fatto che nel XVI secolo si assista a un aumento di autori che si cimentano con la scrittura in francoprovenzale, potrebbe intuitivamente indurci a pensare all’importanza dell’influsso culturale avuto dalla riforma protestante del 1517. È infatti a seguito di questa data che iniziano a fiorire i primi nomi quali Nicolas Martin che, come già ricordato nell’articolo succitato, compose i Noelz e Chansons nouvellement composez tant en vulgaire françoys que savoysien dict patoys (Canti di Natale e canzoni composti sia in francese volgare che in savoiardo detto patois) del 1555. Altri autori da ricordare sono Jehan des Prez e Jacques Gruet di Ginevra, Pierre de Villiers di Lione e Laurent de Briançon di Grenoble.
Quest’ultimo è stato autore del poema Lo Batifel de la Gisen (1563 o 1564) scritto nel francoprovenzale di Grenoble e tratta della non sempre facile convivenza tra cattolici e protestanti in quella città. Laurent de Briançon, che nulla ha a che vedere con la città di Briançon nel dipartimento delle Alte Alpi, inscena un dibattito tra le comari di Grenoble intorno al tema dell’autorità religiosa ritenuta più idonea per pregare Dio. Tutte, tranne una, si pronunciano a favore di quella cattolica perché propositrice di una morale meno austera contro un eccessivo puritanismo calvinista.
La lingua del volgo diventa dunque utile per parlare al popolo e per canzonare il potere e Laurent de Briançon, in modo più o meno voluto, pone l’accento sull’importanza di far parlare la gente tramite l’uso della sua lingua e non del francese o del latino.
Nasce in questo modo la letteratura francoprovenzale.
Come già sostenuto, l’area piemontese e quella valdostana non conoscono la stessa fortuna e non sono a noi pervenuti dei testi francoprovenzali di epoca medievale o successiva. Tale situazione è data dalle caratteristiche stesse delle due regioni, prive di centri di riferimento linguistico e culturale. Nemmeno la città di Aosta ha avuto questo privilegio e si dovrà aspettare addirittura l’Ottocento con l’opera dell’abate Jean-Baptiste Cerlogne per avere una letteratura francoprovenzale valdostana.
Il Piemonte, seppur al centro dei domini di casa Savoia, culla del francoprovenzale, ha da sempre conosciuto una precisa collocazione dei francoprovenzalofoni: lungo le valli e sui versanti delle Alpi. Non ci è dato sapere con precisione sin dove si estendesse l’area di uso di queste varietà, vista la labilità del confine linguistico con il piemontese sia a livello geografico sia nel presunto bilinguismo di una parte della popolazione. L’elemento empirico legato alla letteratura è la constatazione che non esistono testi in lingua provenienti dai secoli passati e, solo negli ultimi decenni, con la scoperta e il desiderio di valorizzazione del patrimonio linguistico, si è cominciato a scrivere in modo per lo più casuale e senza precisi intenti letterari.
Vorrei concludere questo articolo con il riferimento a un componimento particolare intitolato Canzonetta alla savoiarda sopra la pace, redatto a Torino nel 1602. Al di là del contesto storico e del suo contenuto, questa canzonetta è stata probabilmente scritta nel francoprovenzale dell’Alta Moriana e menziona addirittura il paese di Lanslebourg, citato nel testo come Lanlebor.
Tra le molte parole che si possono riconoscere abbiamo la zonca (la dzoncà “ricotta”), la moggy (la modzeù, la modzé “la manza”), mantenendosi coerente con il lessotipo tipico di quest’area, lo viazo e lo personazo (lo viadzo “il viaggio” e lo personadzo “il personaggio” con la classica consonante dz), la fea (la fèia, la faiò “la pecora”) e molte altre che allungherebbero questa lista.
Questo piccolo esempio vuole mostrare come il bisogno di usare la lingua, fissandola su un foglio, non ha riguardato solamente le aree francoprovenzali lontane dalla nostra regione, ma anche zone a noi molto vicine.
Nei prossimi articoli proseguiremo il nostro cammino nella storia di una letteratura non molto conosciuta, non fatta di nomi altisonanti o di grandi composizioni, ma ricca di spunti di riflessione sul nostro passato e, perché no, su ciò che siamo oggi e sulla lingua che ancora custodiamo.
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