Negli anni quaranta del 1700 le Alpi si agitavano sotto il peso delle guerre e della Storia. Sulle alture del Gran Serin e tra le valli del Chisone e della Dora, un manipolo di uomini si preparava a combattere non solo per un re, ma per qualcosa di più antico: una patria perduta.
Erano i gli uomini degli ex Escartons, veterani e fieri montanari. Un tempo cittadini del Delfinato francese, nati nei villaggi liberi delle alte valli, cresciuti sotto la protezione della “Grande Carta delle libertà Brianzonesi”, avevano assaporato la libertà di quelle antiche comunità alpine dotate di autonomia, in seno alla corona francese. Ma nel 1713, con i Trattati di Utrecht, la politica fece ciò che la guerra non aveva osato: cedette le valli di Pragelato, di Oulx e di Casteldelfino al Ducato di Savoia, in cambio di una pace, che tuttavia, sarebbe stata effimera.
Fu un tradimento silenzioso, scritto con l’inchiostro sulle carte dei diplomatici. Gli uomini delle valli, da un giorno all’altro, si trovarono sudditi di un altro Stato. Le vecchie autonomie svanirono, e con esse le proprie libertà. Alcuni accettarono, altri resistettero, altri espatriarono. Tra questi, molti rimasero fedeli al capitano Daniel-André Bourcet, capo della compagnia franca dell’Escarton di Pragelato, composta quasi esclusivamente da uomini degli di quella piccola patria alpina. Uomini che, più che soldati, erano montanari armati di amore per la propria terra.
Quando, la tragica spartizione delle vallate delfinali venne compiuta, la compagnia si smembrò anch’essa a seguito di una gran parata tenutasi sul Champ de mars, davanti alla cittadella di Briançon, tra ricordi e lacrime di commozione.
Passarono gli anni ma il tradimento della diplomazia internazionale non venne mai perdonato da quelle comunità che per secoli avevano saputo gestirsi da sole tra le aspre cime di quei monti.
Così che dopo la morte dell’amato capitano Daniel-Amdré, fu suo figlio, Pierre-Joseph Bourcet, a sognare la liberazione di quell’angolo di Alpi finito in mano ai Savoia.
Pierre-Josepf, nato anch’egli a Usseaux, di fede valdese, educato fin da fanciullo in seno alla compagnia franca e successivamente a Grenoble, dove ricevette un alto grado di istruzione. Ebbe una brillante carriera come cartografo e stratega della guerra in montagna. Pierre-Joseph era cresciuto ascoltando e vivendo da vicino le avventure del padre e dei suoi uomini. Non dimenticò mai le parole del padre udite da bambino a seguito della presa del Forte di Fenestrelle da parte dei piemontesi:
“un re straniero ha preso la nostra terra, il nostro re sta per venderla, ricorda che una patria libera da sovrani può contare solo sull’amore dei suoi figli per non essere depredata.”
Quando agli albori della guerra di successione austriaca irruppe in quello stato di calma apparente, Pierre-Joseph ebbe un ruolo di punta nella pianificazione della campagna alpina contro i Savoia. Grazie alla perfetta conoscenza del suo territorio egli tracciò con mano decisa un itinerario ardito, un colpo di mano attraverso le alture del Gran Serin. Era necessario evitare la fortezza di Exilles nella valle della Dora e il neo nato forte sabaudo a fenestrelle per colpire al cuore le forze piemontesi e riaprire un passaggio verso la pianura del Po. Ma era più di un piano strategico: era una marcia per la restituzione della propria terra, l’ultimo tentativo disperato di redimere il proprio paese.
Pierre-Joseph decise di andare personalmente a perlustrare quei pendii per avere una chiara visione sulla possibilità del suo piano.
Quando fu il momento di nominare le gli uomini per la missione di ricognizione, con sua grande sorpresa notò che i volontari che si presentarono non erano semplici truppe regolari. Erano titti vecchie conoscenze, alcuni provenienti da Usseaux con cui da bambino aveva giocato. Vi erano i figli dei soldati che componevano la vecchia compagnia franca di Pragelato, con immensa commozione trovò anche qualche anziano veterano in pensione che aveva servito sotto il comando di suo padre Daniel, altri erano ex cittadini dell’Escarton esiliati a Briançon. Portavano ancora, cucito nella mente, il ricordo delle loro case, delle leggi comunitarie, delle assemblee nei borghi di alta quota.
Il giorno della battaglia non era lontano e, così una mattina partendo da Grand Puy, anche i soldati dell’ex compagnia iniziarono la marcia tra i boschi e le cime severe. Il rullo dei tamburi rompeva il silenzio. Bourcet camminava in testa, con le mappe al petto e il canocchiale di suo padre sempre nella mano destra.
Iniziarono le manovre di rilevamento del terreno e subito Pierre-Joseph si rese conto che con quelle forti pendenze l’artiglieria non sarebbe riuscita a risalire gli erti pendii.
Come aveva ben studiato capii che la vittoria nella guerra di montagna sta nella strategia di utilizzare la posizione occupata a proprio favore.
Realizzò l’impossibilità di poter avanzare su quelle alture se il nemico si fosse appostato in alto.
Decise che gli elementi raccolti fossero sufficienti e ordinò agli uomini di rientrare passando per un sentiero non ancora esplorato.
Fu li che avvenne il disastro.
Quel terreno era stato riempito di mine e quando la truppa attraversò il pianoro si innescò il fatale meccanismo.
L’esplosione fu devastante. I corpi della compagnia si dispersero tra le rocce. I tamburi si spezzarono. Pierre-Joseph fu l’unico sopravvissuto come per miracolo.
Strisciò sull’erba, in silenzio. Aveva perso i suoi uomini, ma soprattutto la speranza di redimere la terra dei suoi avi poiché aveva realizzato amaramente che non sarebbe potuta ne dovuta esserci mai una battaglia lassù.
Il prezzo di questa consapevolezza era stato pagato caro con la perdita dei suoi compagni.
Il dolore fu insopportabile.
Bourcet tornò nel Delfinato, e incontrate le più alte cariche dell’arma, compreso il generale Belle-Isle fece il suo rapporto.
Consigliò ardentemente di abbandonare quella strategia spiegandone le ragioni ma oramai il dado era tratto.
L’ambizione aveva reso avidi quegli uomini che non erano animati tanto da un sentimento di redenzione della propria terra quanto di fama, potere e gloria.
Uomini distanti da quelle terre, culturalmente e sentimentalmente e che sicuramente non avevano una chiara lettura del territorio montano.
Arrivò così quel fatidico 19 luglio del 1747, e la tragica storia della battaglia dell’Assietta si compì esattamente come previsto dal grande stratega-cartografo.
Fu una carneficina per l’armata francese e per le valli cedute fu il canto del cigno.
Ogni speranza di essere liberate svanì lassù.
Solo il silenzio nel vallone che chiamano “dei morti”. Solo il silenzio, che tuttavia, dalla scomparsa degli uomini della compagnia franca veniva interrotto ogni notte da rulli di tamburo che echeggiavano incessantemente lungo la valle.
Nelle notti d’estate si mescolavano ai campanacci delle mucche in alpeggio e il loro rumore sordo penetrava nelle stalle durante le veglie invernali facendo temere i montanari che la guerra non fosse mai finita e entrando nei sogni dei fanciulli svegliandoli nel cuore della notte.
I compagni del Bourcet lo cercavano. Lo aspettavano per dar ancora battaglia e riprendersi la terra perduta. Quegli uomini non potevano darsi pace, che dopo tante glorie assieme al capitano Daniel-André Bourcet e successivamente seguendo le orme del figlio Pierre-Joseph non fossero riusciti a difendere la loro patria, la loro gente dalle conquiste di un esercito straniero.
Molti anni dopo, ormai vecchio, Pierre-Joseph morì in Francia ma alcuni giurarono di averlo incontrato una notte con mappe alla mano per le vie di Usseaux e dopo essersi fermato un momento davanti alla sua vecchia casa di famiglia, davanti al forno comunitario, con passo lento e solenne, lo videro incamminarsi lungo la strada che sale al Gran Serin, portando con sé solo una mappa, un tamburo logoro e uno stendardo consumato. Quello stesso stendardo che riportava il blasone del Delfinato con il motto cucito sopra” Vive, Vive le Capitaine Pierre Bourcet” donato da Luigi III di Francia a suo nonno per le glorie passate.
I montanari sussurravano: “È tornato a cercare la compagnia franca dell’Escarton di Pragelato”.
Quella notte, una valanga scivolò dalla montagna come un sudario, si levò un tonfo sordo che fu quasi come se i monti si confidassero tra loro qualche antico mistero.
Da allora il rullio di tamburi tacque per sempre.
La marcia era finita.
Gli Escartons erano ancora perduti e smembrati ma i suoi baluardi, riuniti, avevano finalmente trovato la loro pace.

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