Dedicato agli "amici" di Novel Temp.

Il n.16 della rivista "Novel Temp" ha dedicato il suo editoriale al problema della grafia, gratificandoci di valutazioni tanto arroganti quanto inesatte. L'episodio, in sé, meriterebbe il silenzio se non toccasse un problema vitale per l'occitanismo. Teniamo perciò a precisare quanto segue:
-la cosiddetta "grafia Valados Usitanos" è apparsa per la prima volta sul n.7 della rivista (ultimo numero del 1980) e non sul n.8. Su quest'ultimo numero ci siamo limitati a perfezionarla e documentarla. È l'ipotesi di grafia a cui abbiamo fatto costante riferimento nel corso del convegno di Frassino dedicato, appunto, ai problemi della trascrizione grafica.
-siamo andati a Frassino per proporre delle valutazioni e per ascoltare le altrui valutazioni. Non certo per scegliere fra le grafie adottate da "Novel Temp".
-non abbiamo mai pensato di imporre la nostra ipotesi di grafia a chicchessia. Abbiamo pubblicato e saremo ben lieti di pubblicare testi in grafie diverse: localistiche, felibristiche, fonetiche compresa la grafia proposta a suo tempo dall'Escolo dòu Po.
-nell'impiego della grafia "Valados Usitanos" siamo in una fase sperimentale, e intendiamo attuare la sperimentazione a tutti i livelli: nella ricerca ma anche nella scuola, in documenti ufficiali ma anche (perché no?) nella segnaletica stradale. I risultati di questa fase di sperimentazione sono ancora tutti da valutare, ma già fin d'ora si può dire, ad esempio, che i cartelli, indicatori di Macra (in Val Maira) sono stati accolti favorevolmente dalla popolazione.

Fatte queste necessarie precisazioni, va tuttavia detto che nessuno di noi vuole sottovalutare il ruolo svolto nel 1973 dalla proposta di una grafia "per il patouà" (1) (quella che fu poi chiamata "grafia dell'Escolo dòu Po"). A distanza di nove anni va riconosciuto che quella proposta introdusse importanti elementi di novità nel dibattito culturale di quegli anni. Per la prima volta, infatti, si partiva - anziché dal modello mistraliano - dalle singole situazioni dialettali, tentando di dare a ciascuna di esse una risposta grafica coerente. L'ortodossia mistraliana veniva messa in discussione. Per questa ragione, Coumboscuro se ne dissociò. Ma se ne staccò pure chi si attendeva dai lavori della commissione qualcosa di più che una semplice revisione delle regole grafiche mistraliane.
Eravamo in molti, già allora, ad avvertire la necessità di dotare l'operatore culturale di uno strumento grafico capace di documentare qualsiasi lavoro di ricerca, ma soprattutto qualsiasi livello di espressione. Pensavamo perciò ad una grafia che fosse la rappresentazione più fedele e semplice possibile della parola. La grafia dell'Escolo dòu Po soddisfaceva in modo soltanto parziale questa nostra esigenza di fedeltà e di semplicità
perché era una grafia soltanto parzialmente fonematica. Sapevamo infatti che può dirsi tale soltanto una grafia in cui ad ogni fonema (sfumature a parte) corrisponda un segno grafico (o un gruppo di segni) e, naturalmente, ad ogni segno o gruppo di segni corrisponda un unico fonema. La nostra conclusione fu che non poteva dirsi fonematica una grafia che scriva in modo diverso lo stesso fonema (K) a seconda del casi. Ma concludemmo pure che una grafia veramente "fedele" non poteva non annotare le semivocali. Non riuscivamo inoltre a capire perché, una volta adottate le grafie (ë) e (ä), non si volessero invece accettare le grafie (ö) ed (ü) e si proponessero le grafie (œ) - autentico relitto archeologico documentato in rarissime voci del vocabolario francese - e (ou).
Ecco, in poche parole, perché molti di noi non hanno adottato la grafia dell'Escolo dòu Po. L'editoriale di Novel Temp ci conferma oggi che fu una buona scelta. Paradossalmente, ce lo confermano i suoi argomenti, tutti fondati sulla "tradizione", una tradizione intesa come principio di autorità è perciò, da sempre, bandiera di ogni conservatorismo. Ce lo conferma quel richiamo - così antistorico - ai trovatori, a giustificazione o almeno illustrazione della grafia differenziata del fonema (k). Infatti, l'adozione di una grafia latina (qui, que....),da parte dei trovatori, è stata soltanto la logica conseguenza della situazione di marginalità e subalternità in cui la cultura scritta occitana si trovava rispetto alla cultura scritta latina. Nessuno deve infatti dimenticare che, in quei secoli, il testo scritto in occitano era - rispetto al testo latino - la rara eccezione. Questa situazione di marginalità - che i trovatori non ci risulta abbiano contestato in modo molto esplicito - voleva dire esclusione dai veicoli della cultura scritta delle classi non aristocratiche (clero a parte). In che cosa poteva tradursi questa emarginazione, se non in un isolamento obbiettivo delle classi dominanti in Occitania e perciò in una incapacità di elaborare una risposta adeguata all'aggressione francese?
Il richiamo ai trovatori prova perciò il contrario di quel che si voleva provare. Ci dà, anzi, una lezione da non sottovalutare nella prospettiva - prossima o remota - di una lotta di liberazione nazionale. Ma purtroppo, è proprio da questa prospettiva che il Soulestrelh notoriamente si dissocia: non è infatti un caso che alla polemica astiosa contro Fontan corrisponda, sull'editoriale di "Novel Temp", un cauto ammiccamento verso il MAO per il quale il Soulestrelh ci pare sognare una collocazione moderata all'interno dell'area "socialdemocratica". Il che sarebbe possibile dopo la liquidazione, per fortuna poco probabile, dell'insegnamento di Fontan.
E' stato detto tante volte che l'occitanismo deve a Fontan la prospettiva, inimmaginabile trent'anni fa, di una decolonizzazione integrale in Occitania, una decolonizzazione capace di coinvolgere tutti gli aspetti della vita di relazione. Nella situazione di colonizzazione che viviamo, questa prospettiva va difesa contro qualsiasi richiamo alla tradizione perché nella nostra situazione la tradizione ha due facce: quella degli strumenti di autodifesa elaborati dal popolo occitano ai più diversi livelli, della vita di relazione ma, soprattutto, quella dei comportamenti assimilati perché imposti dalle culture dominanti. Anche questi ultimi costituiscono una tradizione, ma non certo una tradizione da difendere o valorizzare.
Per tutte queste ragioni non ci sentiamo vincolati da grafie latine o francesi o italiane e pensiamo che, in campo grafico, la decolonizzazione passa attraverso il rifiuto di qualunque ipotesi di grafia etimologica. Non siamo gli unici a denunciarne il carattere antidemocratico, nè crediamo di farlo in modo particolarmente originale. Soltanto i più retrivi fra i linguisti e i pedagogisti difendono oggi le aberrazioni dell'ortografia francese, un'ortografia il cui apprendimento esige dallo scolaro 700/1000 ore di applicazione distribuite nell'arco di 9 anni di studio (2) . E tutto questo per imparare che (s) va scritto, a seconda dei casi, s, ss, sc, c, ç, che (ö) si può scrivere eu, oeu, oe, oppure che (k) si scrive qu, c, ch, etc. Per le stesse ragioni non ci preoccupa molto il fatto che sulla bilancia della tradizione grafica il piatto penda a favore delle grafie qui e que e che la grafia (k) non abbia forse più di due secoli di vita, a casa nostra. Ci sembra invece molto più significativo il fatto che la grafia (k) appaia proprio in coincidenza con i primi tentativi di documentazione fedele e scientifica dei comportamenti linguistici.(3)
Quando apparvero i primi testi occitani in grafia (k), non si parlava ancora di "grafia fonetica" eppure non ci risulta che l'introduzione del (k) abbia stupito o tanto meno indignato qualcuno. La si accettò per quel che rappresentava: un generoso tentativo di svincolare il problema della trascrizione grafica dai marchingegni di una tradizione sempre più staccata dalla realtà dei comportamenti linguistici. E va, comunque, detto che per uno studioso "francese" dell'ottocento, impiegare la grafia (k) non voleva necessariamente dire compiere un gesto rivoluzionario. Infatti, il medioevo francese è diviso fra le grafie (k) e (q) e quest'ultima trionfa definitivamente soltanto nel sec. XIV.
Il problema delle semivocali è ancora più delicato. Qui, la bilancia della tradizione pende dall'altra parte, almeno per quanto riguarda la grafia (y). Per convincersene basta dare un'occhiata ai numerosi documenti (dei secoli compresi fra il XII e il XVI) pubblicati dal Meyer (4) . Fra i non pochi testi raccolti nel dipartimento delle Hautes Alpes, ad esempio, soltanto alcuni pochi frammenti provenienti da Notre Dame de Bertaud e dalla certosa di Durbon non registrano la grafia (y). E' vero che non è una grafia praticata in modo coerente, ma quale altra grafia è veramente organica e coerente in un'epoca che non riusciva nemmeno a immaginare il rigorismo ortografico dei secoli successivi?
La complessità dei problemi legati alla notazione delle semivocali fu riconosciuta a conclusione dei lavori dell'Escolo dòu Po. Sul documento conclusivo si legge infatti che "non è possibile senza introdurre un segno apposito (che per il momento non si è ancora trovato) stabilire, in un dittongo formato dall'incontro di i e ou, u e i, ecc. (vocali dolci) qual è l'elemento semivocalico.
Il fatto è che le regole dell'italiano stentano ad applicarsi ai dialetti delle nostre valli perché in questi dialetti la caduta di una serie consistente di consonanti intervocaliche induce iato o meno a seconda di fattori che vanno valutati caso per caso. La mancata notazione delle semivocali provoca perciò una serie di situazioni in cui a grafia identica corrispondono pronuncia e significato diversi. Il fenomeno è di non poca gravità anche perché ha un'estensione molto superiore a quella che lascerebbe intendere l'editoriale di "Novel Temp". Ci limiteremo a segnalare alcuni di questi casi riferiti all'alta Varaita:
traliàr (legare insieme) - tralyàr (camminare in neve alta)
fià (fidato) - fya (fiato)
pià (piegato) - pya (preso)
ruà (rivoltato) - rwa (borgata)
devià (scopato) - devyà (dovevate)
kupià (munito di cupiglia) - kupyà (copiato)
fiolo (figlioccia) - fyolo (bottiglietta)
E che dire delle situazioni di iato in posizione protonica? Come fare a capire, in assenza di una precisa notazione, che non c'è dittongo nella prima sillaba dei seguenti verbi: kriassyàr (gridare in modo scomposto), piuràr (pepare), liassyàr (legare malamente), etc.?
La notazione delle semivocali - dice l'editoriale di "Novel Temp" - è difficile e va riservata alla ricerca universitaria. E' anche impopolare, aggiunge lo stesso editoriale. In realtà, la gente delle valli percepisce con naturale immediatezza la differenza fonetica che c'è, ad esempio, fra s'aliàr (unirsi con un vincolo di parentela) e salyàr (dare il sale pastorizio alle pecore), fra es kyar (è chiaro) e eskiàr (scivolare).
Si può risolvere il problema mediante l'adozione di un segno diacritico, dice ancora l'editorialista di "Novel Temp". Ebbene, le pretese difficoltà di notazione non ne sarebbero in alcun modo semplificate. A meno di rendere discrezionale l'adozione di quel segno: ma così facendo si rinuncerebbe a un elementare principio di omogeneità della notazione grafica.
Di fronte alla complessità di questi problemi, le scomuniche di "Novel Temp" fanno sorridere. Libertà di proposta e libertà di sperimentazione sono conquiste troppo consolidate perché qualcuno possa seriamente pensare di poterle rimettere oggi in discussione. Le scomuniche non risolvono i problemi di grafia; la ricerca, la discussione, sì! Ma a condizione di evitare certi errori:
-quello di ostinarsi a difendere scelte maturate (come la proposta del '73) in condizioni di insufficiente documentazione e di insufficiente partecipazione
-quello di tacere che certe scelte sono antitetiche e inconciliabili e, in particolare, che la scelta di una grafia fonematica è contradditoria con quella di una grafia etimologica.
Il fatto che Valados Usitanos abbia detto di no - in modo unanime e senza ripensamenti - a qualsiasi ipotesi di grafia etimologica testimonia di una coerenza che altri non possono vantare. Il fatto che ci sia, in tutti noi, la più ampia disponibilità a discutere sulla scelta dei singoli segni grafici (con la sola condizione che siano univoci e coerenti) è un impegno a far tesoro di ogni critica e a ricercare ogni occasione di confronto. Anche con chi la pensa diversamente da noi.
Le questioni grafiche non devono essere pregiudiziali. L'arroganza sì!

NOTE.
(1)apparsa su "Lou Soulestrelh", anno III, n.I (8 agosto 1973)
(2)vedi, in particolare: François Ters, Orthographe et vérités, Paris, 1973; Nina Catach, L'orthographe, Paris, 1978
(3)vedi, ad esempio, la traduzione di un passo del Vangelo secondo Luca (cap. XV) nel dialetto di Embrun, in: J.C.F.Ladoucette, Histoire, topographie, antiquités, usages, dialectes des Hautes Alpes, Paris, 1834
(4)Paul Meyer, Documents linguistiques du midi de la France, 1909