Ma un altro fronte si stava per aprire, stavolta verso la Jugoslavia. Il nostro battaglione fu ovviamente tra quelli scelti fra i primi.
Partimmo di notte come consuetudine, per non farci notare dal nemico, ma durante le manovre d’avvicinamento, mentre stavamo attraversando alcuni boschi di conifere, scivolai sul terreno reso viscido dalla pioggia riportando una dolorosa contusione ad un ginocchio.
Nei giorni successivi, sempre in marcia di notte e fermi di giorno, il ginocchio mi faceva così male da non riuscire a stare in piedi.
Un mio commilitone, vedendomi sofferente e per paura che mi facessero continuare a marciare in quelle condizioni, mi diede un consiglio: “…prova con il sacchetto delle gallette, le mastichi, le metti sopra la zona dolente e poi dai dei colpi, vedrai come ti gonfierà il ginocchio…”.
Il giorno seguente, non so se per effetto di quel trattamento o semplicemente perché doveva, il mio ginocchio era così gonfio che non potevo più neppure piegarlo.
Feci chiamare il tenente medico che, dopo avermi visitato, preferì non farmi proseguire la marcia.
Fui lasciato ad una batteria di artiglieri e me ne rimasi lì ad attendere il conducente che dopo poco tempo arrivò con il suo mulo e mi trasferì all’ospedale da campo, dove passai la notte.
Il giorno dopo arrivò un’ambulanza che mi trasferì in una cittadina chiamata Berat dove vi era un centro di raccolta feriti.
Si trattava di un’ala mercatale coperta, aperta su tutti i lati, dove erano sistemate alla meglio delle lunghe file di letti a castello costituiti ognuno da tre brande una sopra l’altra con due malati per branda per un totale di sei malati ogni letto a castello.
All’interno della struttura, il furiere, un sergente maggiore, aveva il compito di prendere le generalità dei nuovi arrivi.
Gli comunicai a quale compagnia appartenevo, da dove arrivavo e tutti i miei dati anagrafici utili all’adempimento delle varie pratiche burocratiche, poi passò ad altri malati e per quel giorno non lo vidi più.
Il giorno dopo mi venne a trovare in mezzo a tutti i malati dicendo che voleva assolutamente avere delle informazioni che solo io potevo dargli.
Rimasi di stucco ed una domanda s’insinuò rapidamente nella mia mente, cosa mai avrei potuto sapere da suscitare tutto questo interesse da parte di una persona che non avevo mai visto prima?
Dopo pochi minuti di conversazione fu subito chiaro: voleva avere notizie di alcune giovani ragazze del mio paese.
Mi spiegò che qualche anno prima era stato alcuni mesi con il 34° reggimento fanteria proprio a Vernante. Avevano la caserma davanti al cimitero lungo la strada che porta al santuario dell’Assunta ed era una costruzione piuttosto stretta e lunga.
Durante la sua permanenza probabilmente aveva intrecciato qualche breve storiella con alcune ragazze del posto e voleva a tutti i costi sapere le ultime novità su di loro.
Il problema era che, avendo sempre fatto il pastore a Tenda, conoscevo ben poca gente del mio paese e di ragazze, si poteva dire, quasi nessuna se non di vista o per sentito dire.
Quasi tutti i giorni se n’arrivava da me e l’argomento era sempre lo stesso: le amorevoli ragazze di Vernante.
Cercavo di arrabattarmi al meglio con quelle poche notizie che avevo a disposizione e intanto i giorni passavano e il mio ginocchio migliorava.
Passarono alcuni giorni e, tra me e lui, s’instaurò un buon rapporto.
Ormai quasi guarito, questa volta fui io a fargli una richiesta: “Non si potrebbe andare in Italia?”.
Provai a giocarmi questa carta, dopotutto avevo fornito molte informazioni e non avevo mai chiesto nulla in cambio inoltre, sapevo che una volta guarito mi avrebbero rimandato al corpo a continuare la guerra sul fronte jugoslavo, così nonostante non ci sperassi più di tanto, mi lanciai nella mia umile richiesta.
In quel momento non mi disse nulla, ma una mattina, contro ogni mia attesa, se n’arrivò chiamandomi ad alta voce: “Dramasso, Dramasso…”. Così mi chiamava. Si avvicinò al letto e mi fece cenno di aggrapparmi alle sue spalle. Così feci e mi portò di corsa su un’ambulanza diretta a Valona da dove era in partenza una nave ospedale per l’Italia. Mi aveva reso il favore.
A guerra finita ringraziai a lungo quelle ragazze.
Arrivai a Bari, dove rimasi un paio di giorni. L’ospedale era pieno zeppo di giovani come me che arrivavano dal fronte.
In seguito mi trasferirono all’ospedale di Ravenna e ci rimasi per quasi un mese. Lì mi proposero addirittura di rimanere con loro per prestare servizio come aiutante, ma in quel momento non mi sentii adatto per affrontare quel tipo di mansione e non accettai la proposta.
Quando fui quasi guarito, mi mandarono a casa per la convalescenza concedendomi un mese di riposo.
Che bella sensazione quella di tornare a casa e ritrovare la mia famiglia nella sua quotidianità. Nonostante l’imperversare della guerra, la vita al tetto continuava ad essere scandita dai soliti ritmi contadini.
In quel periodo mio padre stava tagliando la legna ai Nusee e, superati i primi giorni d’euforia per il mio ritorno inaspettato, un giorno, decisi di andare a dargli una mano.
Del resto non ero affatto abituato a starmene fermo a non fare nulla mentre gli altri lavoravano e poi, sebbene fossi in convalescenza, il ginocchio non mi dava più nessun problema, quindi mi sentivo perfettamente in grado di aiutarlo anzi, un po’ di movimento mi avrebbe sicuramente giovato.
Così feci e per qualche giorno aiutai mio padre a tagliare legna nel bosco.
Avevo già acquistato la giusta sicurezza, quando sfortuna volle che, mentre stavo tagliando un tronco dal di sotto, una grossa pietra lì vicino, che sembrava piantata saldamente nel terreno, di punto in bianco rotolò giù urtandomi proprio sulla gamba ormai quasi guarita.
Nulla sarebbe stato se fosse capitato i primi giorni, ma ormai ero a fine convalescenza e nei due o tre giorni successivi avrei avuto la visita di controllo a Savigliano.
Come rimedio approssimativo mia madre mi preparò subito degli impacchi caldi di sistra, un’erba con delle particolari proprietà terapeutiche che a detta della saggezza popolare velocizzava la guarigione delle contusioni, ma non bastò.
Con l’autorità militare non si scherzava e avevo paura di andare sotto processo.
Il giorno del controllo arrivò inesorabilmente. Partii e mi recai a Savigliano. Il medico, dopo aver dato un rapido sguardo al ginocchio e alla mia cartella clinica esclamò: “Come! Da allora ad oggi, non sei ancora guarito?”. Io replicai con un semplice: “ …eh non guarisce!”. Cosa gli avrei dovuto dire? Non potevo certamente raccontargli che mentre facevo legna una pietra mi era rotolata addosso, quindi continuai: “….eh no, non guarisce, è sempre gonfio così!”. Temetti il peggio. Invece no, nonostante avessi perso le speranze il dottore mi diede un altro mese di convalescenza, tirai un bel respiro di sollievo e questa volta feci più attenzione.
Nel frattempo la mia compagnia era già venuta su dalla Jugoslavia ed era impegnata a fare le esercitazioni a Vinadio.
Quando, il mese dopo, fui finalmente guarito, mi aggregarono momentaneamente alla compagnia comando di stanza a Vicoforte Mondovì.
In quel posto, benché fossi alpino indossai la divisa della fanteria.
Avevo addosso tutta roba di recupero lavata e disinfettata, il basco al posto del cappello da alpino, anche le mostrine non erano più quelle degli alpini, ma del resto quando ero partito da Bari mi avevano dato quello che avevano a disposizione, chissà a chi apparteneva.
Rimasi alla compagnia comando per un po’, poi, quando la decima tornò dai campi mi riaggregarono a loro fornendomi una nuova divisa alpina. Fui di nuovo in ballo.

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