I tre re magi oscuri
Procedeva a tentoni nella periferia buia. Le case, sconnesse, si stagliavano contro il cielo. La luna non c’era e il selciato era spaventato per quei passi tardivi. Poi trovò un vecchio steccato. Gli diede un calcio, finché un asse marcio emise un sospiro e si staccò. Il legno aveva un profumo leggero e dolce. Attraverso la periferia buia se ne tornò indietro. Non c’erano stelle.
Quando aprì la porta (e pianse, la porta) incontrò gli occhi azzurro pallido di sua moglie. Venivano da un viso stanco. Il suo fiato nella stanza aleggiava bianco, tanto era freddo. Egli piegò il ginocchio ossuto e spezzò di legno. Il legno sospirò. Allora un odore umido e dolce si diffuse intorno. Portò un pezzo al naso. Profuma quasi di torta, rise piano. No, gli disse la moglie con gli occhi, non ridere. Dorme.
L’uomo mise il pezzo di legno umido e dolce nella piccola stufa di lamiera. Il fuoco si riaccese per un attimo e gettò una manciata di luce calda nella stanza. Che cadde chiara su un visino tondo e vi rimase un istante. Quel viso aveva appena compiuto un’ora, ma aveva già tutto il necessario: orecchie, naso, bocca e occhi. Gli occhi dovevano essere grandi, sebbene fossero chiusi in quel momento. Mentre la bocca era aperta e ne usciva un respiro lieve. Naso e orecchie erano rossi. E’ vivo, pensò la madre. E il visino dormiva.
Ci sono ancora fiocchi d’avena, disse l’uomo. Sì, rispose la donna, per fortuna. Fa freddo. L’uomo prese un altro pezzo di legno umido e dolce. Ora ha avuto il bambino ed è lì che gela, pensò. Ma lui non aveva nessuno a cui tirare un pugno per questo. Quando aprì lo sportello della stufa, cadde di nuovo una manciata di luce sul viso addormentato. La donna disse sottovoce: guarda, sembra un’aureola, vedi? Un’aureola! pensò lui e non aveva nessuno a cui tirare un pugno per questo.
In quel momento qualcuno si presentò alla porta. Abbiamo visto la luce, dissero, dalla finestra. Vogliamo sederci dieci minuti.
Ma abbiamo un bambino, disse loro l’uomo. Non dissero altro, ma entrarono lo stesso nella stanza, dalle narici il fiato usciva come nebbia e camminavano sollevando i piedi. Facciamo molto piano, sussurrarono sollevando ancora i piedi. Poi la luce cadde su di loro.
Erano tre. Con tre vecchie divise. Uno aveva una scatola di cartone, un altro un sacco. E il terzo non aveva più le mani. Congelate, disse sollevando i moncherini. Poi si girò verso l’uomo dal lato della tasca del cappotto. Dentro c’erano tabacco e cartine. Si girarono delle sigarette. Ma la donna disse: no, il bambino.
Allora i quattro uscirono davanti alla porta e le loro sigarette erano quattro punti nella notte. Uno aveva i piedi gonfi, fasciati. Tirò fuori un pezzo di legno dal suo sacco. Un asinello, disse, mi ci sono voluti sette mesi per scolpirlo. Per il bambino. Così dicendo, lo diede all’uomo. Che cos’è successo ai piedi? chiese l’uomo. Acqua, disse l’intagliatore, per la fame. E l’altro, il terzo? chiese l’uomo, toccando nel buio l’asinello. Il terzo tremava nella sua divisa: oh niente, sussurrò, sono solo i nervi. Abbiamo avuto troppa paura. Poi spensero a terra le sigarette e rientrarono.
Sollevarono i piedi e osservarono il visino che dormiva. Quello che tremava prese dalla sua scatola di cartone due caramelle gialle e disse: queste sono per la signora.
La donna spalancò gli occhi azzurro pallido quando vide le tre figure scure chine sul bambino. Ebbe paura. Ma in quel momento il bambino tese le gambe contro il suo petto e gridò così forte che le tre figure scure sollevarono bene i piedi e si diressero silenziosamente verso la porta. Qui fecero ancora un cenno con il capo, poi uscirono nella notte.
L’uomo li seguì con lo sguardo. Strani Magi, disse a sua moglie. Poi chiuse la porta. Questi sono Magi gentili, borbottò controllando se c’erano ancora i fiocchi d’avena. Ma non aveva nessuno a cui spaccare la faccia.
Eppure il bambino ha gridato, bisbigliò la donna, ha gridato proprio forte. Allora se ne sono andati. Guarda un po’ com’è vivace, disse lei orgogliosa. Il viso aprì la bocca e gridò.
Piange? chiese l’uomo.
No, credo che rida, rispose la donna.
Quasi come una torta, disse l’uomo annusando il legno, come una torta. Proprio dolce.
Oggi è anche Natale, disse la donna.
Già, Natale, borbottò lui e dalla stufa una manciata di luce illuminò il visino che dormiva.
(Wolfgang Borchert)¹
XXII
Con il sopravvenire dell’inverno, avevamo iniziato i turni delle licenze. Quindici giorni da passare nelle nostre famiglie ci sembravano una felicità senza eguale. Avellini ed io eravamo fra i piu anziani del battaglione e saremmo dovuto partire con i turni dei primi ufficiali. La l’azione delle scale e dei ponti, sospesa più volte, era ancora in preparazione, eil colonnello ci tratteneva al reggimento. Io inoltre dovevo far coincidere la mia licenza con quella di mio fratello, soldato di un reggimento di fanteria della Carnia, poiché avevamo ottenuto di poter partire insieme. Ma, acosì grandi distanze, era difficile mettersi d’accordo. Per Natale, eravamo ancora in trincea.
Gli austriaci, normalmente, rispettavano le ricorrenze delle feste religiose.per le grandi solennità, essi non sparavano in trincea e anche la loro artiglieria taceva. Mas, questa volta, i nostri posti d’ascoltazione erano riusciti ad intercettare un fonogramma nemico, in cui si parlava di una mina che avrebbe dovutobrillare per natale, a mezzanotte.
(…) Avellini aveva ragione a considerarsi in pericolo e di prevedere che quella notte potesse esser l’ultima della sua vita.. Ma non aveva pensato che anch’io avrei potuto correre seri rischi. In guerra, chi è un metro avanti considera gli altri al sicuro. Neppure io ve avevo pensato, ma quando rimasi solo, compresi che il pacchetto delle lettere non era molto più sicuro nelle mie mani. Dopo lo scoppio della mina, io avrei dovuto contrattaccare, e chi sa che cosa avrei trovato. Decisi di mettere al salvo il pacchetto.
Dietro di me, a un centinaio di metri, a sbarramento della valla, v’era una linea di due ridotte, con un fortino occupato da una batteria da montagna. Io ero buon amico del suo comandante, un capitano d’artiglieria, che conoscevo fin dal suo arrivo. Con lui ero stato continuamente in rapporto, per disegli, rilievi topografici, per i lavori al fortino. Quella notte stessa, dovevo essere continuamente collegato con lui, perché l’azione dei suoi pezzi, dopo lo scoppio della mina, si sarebbe coordinata con l’attacco della mia compagnia. La notte era caduta da poco. La mina non sarebbe scoppiata che a notte inoltrata: a mezzanotte, diceva l’intercettazione. Trovai il capitano solo, nella piccola sala di mensa, che la batteria aveva costruito dietro al fortino. Gli ufficiali di una batteria in posizione, in montagna, avevano le stesse comodità che, in fanteria, può avere un comando di reggimento in linea.. Le pareti di legno erano verniciate e abbellite da illustrazioni di guerra. Il capitano era seduto, alla tavola non accora sparecchiata. Gli ufficiali avevano finito di pranzare e ripresero i posti di servizio. Il capitano aveva, a portata di mano, il telefono e due bottiglie; una di cognac, e una di benedettino. Egli beveva e fumeva. Debbono essere bosniaci musulmani», mi disse, appena mi vide. «Immaginare di far brillare lamina la notte di Natale. Èun bel presepio che ci preparano. Ma io ho i mezzi puntati in tal modo che, se son maomettani, comunicheranno stanotte stessa col Profeta»,
«Spero bene», dissi, «che lei non ci scambi per bosniaci, e non ci tiri alle spalle. Badi che, pochi secondi dopo l’esplosione, noi saremo già partiti all’assalto e avremo occupato le posizioni su cui lei ha i cannoni puntati».
«E per chi ci ha preso? Noi non siamo l’artiglieria d’assalto per permetterci scherzi del genere. Ho disposto un servizio di illuminazione a razzi, e dall’osservatorio, distinguerò i minimi dettagli».
La conversazione si aggirò sull’artiglieria da montagna in contrapposizione all’artiglieria da campagna e dei medi e grossi calibri, particolarmente disposti a sbagliare bersaglio e a tirare sui nostri. Il capitano fece preparare il caffè, che era unaspecialità della batteria. La specialità consisteva in tre bicchieri di cognac finissimo e che si bevevano così: uno prima del caffè, uno nel caffè e uno dopo il caffè. Per le precedenti mie visite, egli sapeva che non bevevo liquori e scherzava su quella mia astensione da arteriosclerotico.
Io mostrai il pacchetto sigillato.
«Se dovesse accadermi qualcosa, stanotte,laprego di consegnare questo pacchetto al tenente avellini, della 9ª compagnia. Se egli non fosse più fortunato di me, lei troverà, nella busta interna, l’indirizzo della persona cui deve essere spedito il pacchetto».
Il capitano aveva già bevuto la prima parte del suo caffè speciale.
«Lettere d’amore?» mi chiese.
Io evitai la risposta ed egli si mise a ridere fragorosamente.
(Emilio Lussu, “Un anno sull’Altipiano”)
Notte d’inverno
Tormenta, tormenta su tutta la terra
fino agli ultimi confini.
Una candela bruciava sul tavolo,
una candela bruciava.
Come d'estate uno sciame di moscerini
vola sopra la fiamma,
così i fiocchi da fuori irrompevano
sul telaio della finestra.
La tormenta imprimeva sul vetro
circoli e frecce.
Una candela bruciava sul tavolo,
una candela bruciava.
Sul soffitto illuminato
si coricavano le ombre.
Incroci di braccia, incroci di gambe,
incroci di destini.
E due scarpette cadevano
con un sol colpo sul pavimento,
e dal lume la cera a lacrime
gocciolava sull'abito.
E tutto in una caligine di neve
canuta e bianca si perdeva.
Una candela bruciava sul tavolo,
una candela bruciava.
Da un angolo sulla candela un alito,
e la febbre della tentazione
come un angelo alzava due ali
a forma di croce.
La tormenta durò tutto febbraio
e, in continuazione,
una candela bruciava sul tavolo,
una candela bruciava.
(B. Pasternak, “Il dottor Zivago”)²
¹(trad. Camilla Pasteris)
²(trad. Mario Socrate)
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