Portal d’Occitània    Letteratura occitana

Felice natale

Aürós Deneal

a cura di Peyre Anghilante

italiano

I tre re magi oscuri

Procedeva a tentoni nella periferia buia. Le case, sconnesse, si stagliavano contro il cielo. La luna non c’era e il selciato era spaventato per quei passi tardivi. Poi trovò un vecchio steccato. Gli diede un calcio, finché un asse marcio emise un sospiro e si staccò. Il legno aveva un profumo leggero e dolce. Attraverso la periferia buia se ne tornò indietro. Non c’erano stelle.
Quando aprì la porta (e pianse, la porta) incontrò gli occhi azzurro pallido di sua moglie. Venivano da un viso stanco. Il suo fiato nella stanza aleggiava bianco, tanto era freddo. Egli piegò il ginocchio ossuto e spezzò di legno. Il legno sospirò. Allora un odore umido e dolce si diffuse intorno. Portò un pezzo al naso. Profuma quasi di torta, rise piano. No, gli disse la moglie con gli occhi, non ridere. Dorme.
L’uomo mise il pezzo di legno umido e dolce nella piccola stufa di lamiera. Il fuoco si riaccese per un attimo e gettò una manciata di luce calda nella stanza. Che cadde chiara su un visino tondo e vi rimase un istante. Quel viso aveva appena compiuto un’ora, ma aveva già tutto il necessario: orecchie, naso, bocca e occhi. Gli occhi dovevano essere grandi, sebbene fossero chiusi in quel momento. Mentre la bocca era aperta e ne usciva un respiro lieve. Naso e orecchie erano rossi. E’ vivo, pensò la madre. E il visino dormiva.
Ci sono ancora fiocchi d’avena, disse l’uomo. Sì, rispose la donna, per fortuna. Fa freddo. L’uomo prese un altro pezzo di legno umido e dolce. Ora ha avuto il bambino ed è lì che gela, pensò. Ma lui non aveva nessuno a cui tirare un pugno per questo. Quando aprì lo sportello della stufa, cadde di nuovo una manciata di luce sul viso addormentato. La donna disse sottovoce: guarda, sembra un’aureola, vedi? Un’aureola! pensò lui e non aveva nessuno a cui tirare un pugno per questo.
In quel momento qualcuno si presentò alla porta. Abbiamo visto la luce, dissero, dalla finestra. Vogliamo sederci dieci minuti.
Ma abbiamo un bambino, disse loro l’uomo. Non dissero altro, ma entrarono lo stesso nella stanza, dalle narici il fiato usciva come nebbia e camminavano sollevando i piedi. Facciamo molto piano, sussurrarono sollevando ancora i piedi. Poi la luce cadde su di loro.
Erano tre. Con tre vecchie divise. Uno aveva una scatola di cartone, un altro un sacco. E il terzo non aveva più le mani. Congelate, disse sollevando i moncherini. Poi si girò verso l’uomo dal lato della tasca del cappotto. Dentro c’erano tabacco e cartine. Si girarono delle sigarette. Ma la donna disse: no, il bambino. 

Allora i quattro uscirono davanti alla porta e le loro sigarette erano quattro punti nella notte. Uno aveva i piedi gonfi, fasciati. Tirò fuori un pezzo di legno dal suo sacco. Un asinello, disse, mi ci sono voluti sette mesi per scolpirlo. Per il bambino. Così dicendo, lo diede all’uomo. Che cos’è successo ai piedi? chiese l’uomo. Acqua, disse l’intagliatore, per la fame. E l’altro, il terzo? chiese l’uomo, toccando nel buio l’asinello. Il terzo tremava nella sua divisa: oh niente, sussurrò, sono solo i nervi. Abbiamo avuto troppa paura. Poi spensero a terra le sigarette e rientrarono.

Sollevarono i piedi e osservarono il visino che dormiva. Quello che tremava prese dalla sua scatola di cartone due caramelle gialle e disse: queste sono per la signora.
La donna spalancò gli occhi azzurro pallido quando vide le tre figure scure chine sul bambino. Ebbe paura. Ma in quel momento il bambino tese le gambe contro il suo petto e gridò così forte che le tre figure scure sollevarono bene i piedi e si diressero silenziosamente verso la porta. Qui fecero ancora un cenno con il capo, poi uscirono nella notte.

L’uomo li seguì con lo sguardo. Strani Magi, disse a sua moglie. Poi chiuse la porta. Questi sono Magi gentili, borbottò controllando se c’erano ancora i fiocchi d’avena. Ma non aveva nessuno a cui spaccare la faccia.
Eppure il bambino ha gridato, bisbigliò la donna, ha gridato proprio forte. Allora se ne sono andati. Guarda un po’ com’è vivace, disse lei orgogliosa. Il viso aprì la bocca e gridò. 

Piange? chiese l’uomo.
No, credo che rida, rispose la donna.
Quasi come una torta, disse l’uomo annusando il legno, come una torta. Proprio dolce.
Oggi è anche Natale, disse la donna.
Già, Natale, borbottò lui e dalla stufa una manciata di luce illuminò il visino che dormiva.

(Wolfgang Borchert)¹



XXII

Con il sopravvenire dell’inverno, avevamo iniziato i turni delle licenze. Quindici giorni da passare nelle nostre famiglie ci sembravano una felicità senza eguale. Avellini ed io eravamo fra i piu anziani del battaglione e saremmo dovuto partire con i turni dei primi ufficiali. La l’azione delle scale e dei ponti, sospesa più volte, era ancora in preparazione, eil colonnello ci tratteneva al reggimento. Io inoltre dovevo far coincidere la mia licenza con quella di mio fratello, soldato di un reggimento di fanteria della Carnia, poiché avevamo ottenuto di poter partire insieme. Ma, acosì grandi distanze, era difficile mettersi d’accordo. Per Natale, eravamo ancora in trincea.

Gli austriaci, normalmente, rispettavano le ricorrenze delle feste religiose.per le grandi solennità, essi non sparavano in trincea e anche la loro artiglieria taceva. Mas, questa volta, i nostri posti d’ascoltazione erano riusciti ad intercettare un fonogramma nemico, in cui si parlava di una mina che avrebbe dovutobrillare per natale, a mezzanotte. 

(…) Avellini aveva ragione a considerarsi in pericolo e di prevedere che quella notte potesse esser l’ultima della sua vita.. Ma non aveva pensato che anch’io avrei potuto correre seri rischi. In guerra, chi è un metro avanti considera gli altri al sicuro. Neppure io ve avevo pensato, ma quando rimasi solo, compresi che il pacchetto delle lettere non era molto più sicuro nelle mie mani. Dopo lo scoppio della mina, io avrei dovuto contrattaccare, e chi sa che cosa avrei trovato. Decisi di mettere al salvo il pacchetto.

 Dietro di me, a un centinaio di metri, a sbarramento della valla, v’era una linea di due ridotte, con un fortino occupato da una batteria da montagna. Io ero buon amico del suo comandante, un capitano d’artiglieria, che conoscevo fin dal suo arrivo. Con lui ero stato continuamente in rapporto, per disegli, rilievi topografici, per i lavori al fortino. Quella notte stessa, dovevo essere continuamente collegato con lui, perché l’azione dei suoi pezzi, dopo lo scoppio della mina, si sarebbe coordinata con l’attacco della mia compagnia. La notte era caduta da poco. La mina non sarebbe scoppiata che a notte inoltrata: a mezzanotte, diceva l’intercettazione. Trovai il capitano solo, nella piccola sala di mensa, che la batteria aveva costruito dietro al fortino. Gli ufficiali di una batteria in posizione, in montagna, avevano le stesse comodità che, in fanteria, può avere un comando di reggimento in linea.. Le pareti di legno erano verniciate e abbellite da illustrazioni di guerra. Il capitano era seduto, alla tavola non accora sparecchiata. Gli ufficiali avevano finito di pranzare e ripresero i posti di servizio. Il capitano aveva, a portata di mano, il telefono e due bottiglie; una di cognac, e una di benedettino. Egli beveva e fumeva. Debbono essere bosniaci musulmani», mi disse, appena mi vide. «Immaginare di far brillare lamina la notte di Natale. Èun bel presepio che ci preparano. Ma io ho i mezzi puntati in tal modo che, se son maomettani, comunicheranno stanotte stessa col Profeta»,

«Spero bene», dissi, «che lei non ci scambi per bosniaci, e non ci tiri alle spalle. Badi che, pochi secondi dopo l’esplosione, noi saremo già partiti all’assalto e avremo occupato le posizioni su cui lei ha i cannoni puntati».

«E per chi ci ha preso? Noi non siamo l’artiglieria d’assalto per permetterci scherzi del genere. Ho disposto un servizio di illuminazione a razzi, e dall’osservatorio, distinguerò i minimi dettagli».

La conversazione si aggirò sull’artiglieria da montagna in contrapposizione all’artiglieria da campagna e dei medi e grossi calibri, particolarmente disposti a sbagliare bersaglio e a tirare sui nostri. Il capitano fece preparare il caffè, che era unaspecialità della batteria. La specialità consisteva in tre bicchieri di cognac finissimo e che si bevevano così: uno prima del caffè, uno nel caffè e uno dopo il caffè. Per le precedenti mie visite, egli sapeva che non bevevo liquori e scherzava su quella mia astensione da arteriosclerotico.

Io mostrai il pacchetto sigillato.

«Se dovesse accadermi qualcosa, stanotte,laprego di consegnare questo pacchetto al tenente avellini, della 9ª compagnia. Se egli non fosse più fortunato di me, lei troverà, nella busta interna, l’indirizzo della persona cui deve essere spedito il pacchetto».

Il capitano aveva già bevuto la prima parte del suo caffè speciale.

«Lettere d’amore?» mi chiese.

Io evitai la risposta ed egli si mise a ridere fragorosamente.

(Emilio Lussu, “Un anno sull’Altipiano”)



Notte d’inverno

Tormenta, tormenta su tutta la terra
fino agli ultimi confini.
Una candela bruciava sul tavolo,
una candela bruciava.

Come d'estate uno sciame di moscerini
vola sopra la fiamma,
così i fiocchi da fuori irrompevano
sul telaio della finestra.

La tormenta imprimeva sul vetro
circoli e frecce.
Una candela bruciava sul tavolo,
una candela bruciava.

Sul soffitto illuminato
si coricavano le ombre.
Incroci di braccia, incroci di gambe,
incroci di destini.

E due scarpette cadevano
con un sol colpo sul pavimento,
e dal lume la cera a lacrime
gocciolava sull'abito.

E tutto in una caligine di neve
canuta e bianca si perdeva.
Una candela bruciava sul tavolo,
una candela bruciava.

Da un angolo sulla candela un alito,
e la febbre della tentazione
come un angelo alzava due ali
a forma di croce.

La tormenta durò tutto febbraio
e, in continuazione,
una candela bruciava sul tavolo,
una candela bruciava.

(B. Pasternak, “Il dottor Zivago”)²

¹(trad. Camilla Pasteris)

²(trad. Mario Socrate)

occitan

Lhi tres reis mages ombrenchs

Avançava a tastons dins la periferia sombra. Las maisons, destracaas, se destachavon còntra lo cèl. La luna mancava e la calataa era esbuïa per aquilhi pas tardius. Puei trobet una vielha cléia. Lhi donet un cauç, fins que una pòst marça posset un sospir e se destachet. Lo bòsc avia un profum legier e dòuç. A travèrs la periferia sombra tornet enreire. Lhi avia pas d’estèlas.

Quora durbet l’uis (e ploret, l’uis), encontret lhi uelhs bloiets de sa frema. Venion da un morre fatigat. Son flat floteava dins l’estància, tant era freid. Pleet lo janolh ossut e trocet lo bòsc. Lo bòsc sospiret. Alora un odor ume e dòuç s’espanteet a l’entorn. Portet un tòc al nas. Profuma esquasi de torta, riet plan. No, lhi diset la frema abo lhi uelhs, ri pas. Duerm.

L’òme butet lo tòc de bòsc ume e dòuç dins la pichòta estua de tòla. Lo fuec se reviscolet per un moment e lancet una grafaa de lutz chauda dins l’estància. Que cheiet clara sus un morret reond e lhi restet un instant. Aquel morre avia a pena un’ora, mas avia já tot çò que chal: las aurelhas, lo nas, la gola e lhi uelhs. Lhi uelhs devion èsser grands, un lo veïa, bèla se eron sarrats. Mas la gola era dubèrta e ne’n salhia un legier respir. Lo nas e las aurelhas eron ros. Es viu, penset la maire. E lo pichòt morre durmia.

Lhi a encara de flòcs d’avena. Bò, respondet la frema, bonaür. La fai freid. L’òme prenet encara un tòc de bòsc còti e dòuç. Aüra a agut la mainaa e es aquí que jala, penset. Mas avia pas degun da patelar per aquò. Quora durbet l’esportèl de l’estua, una grafaa de lutz cheiet mai sal morre endurmit. La frema diset sotavòutz: beica, semelha un’aurèola, vees? Un’aurèola! Penset el e avia pas degun da patelar per aquò. Dins aquel moment qualqu’un se presentet sus l’uis. Avem vist lo clar, diseron, da la fenèstra. Volem setar-nos dètz minutas. 

Mas avem una mainaa, lhi diset l’òme. Diseron pas d’alre, mas totun intreron dins l’estància, da las nàrrias lo flat salhia coma de nèbla e chaminavon en dreiçant lhi pè. Fasem pro plan, besodeeron, e dreiceron mai lhi pè. Puei la lutz cheiet sus ilhs.

Eron en tres, dins tres vielhas divisas. Un avia una boata de carton, un autre un sac. E lo tresen avia pas las mans. Congelaas, diset, en auçant lhi monhons. Puei se viret vèrs l’òme dal cant de la sacòcha dal paletò. Dedins lhi avia lo tabac e las cartinas. Se vireron de cigarretas. Mas la frema diset: no, lhi a la mainaa.

Alora lhi quatre salheron derant a l’uis e lors cigarretas eron quatre ponchs dins la nuech. Un avia lhi pè confles, faissats. Prenet un tòc de bòsc da son sac. Un asenet, diset, m’a chalgut sèt mes per lo gravar. Per la mainaa. En disent aquò, lo donet a l’òme. Çò que s’es passat ai pè? demandet l’òme. Aiga, diset lo gravaire, per la fam. E l’autre, lo tresen? demandet l’òme, en truchant l’asenet dins l’escur. Lo tresen tramolava dins sa divisa. Oh, es pas ren», besodeet, «son masque lhi nièrvis, avem agut tròp paor. Puei tuperon a tèrra las cigarretas e intreron mai.

Dreiceron lhi pè e agacheron lo pichòt morre endurmit. Aquel que tramolava prenet da sa boata de carton doas caramèlas jaunas e diset: aquestas son per la senhora. 

La frema esbalaset lhi uelhs bloiets quora veiet las tres figuras ombrenchas clinaas sus la mainaa. Auguet paor. Mas ente aquel moment la mainaa ponchet las chambas còntra son pitre e criet tan fòrt que las tres figuras dreiceron ben lhi pè e silenciosament s’enandieron vèrs l’uis. Aquí faseron encara un senh abo la tèsta, puei davaleron dins la nuech. 

L’òme lhi seguet abo l’esgard. De dròlles mages, diset a sa frema. Puei sarret l’uis. De bòns mages, barboteet, en beicant se lhi avia encara de flòcs d’avena. Mas avia pas degun da esclapar-lhi lo morre.

E pura la mainaa a criat, besodeet la frema, a criat pròpi fòrt. Boquò se ne’n son anats. Beica un pauc coma es revelhós, diset ilhe orgulhosa. Lo morre durbet la gola e criet.

Plora? demandet l’òme.

No, creo que rie, respondet la frema.

Esquasi coma una torta, diset l’òme en nuflant lo bòsc, coma una torta, dòuça dòuça. Encuei es bèla Deneal, diset la frema. 

Ja, Deneal, ramonhet el e da l’estua una grafaa de lutz esclarzet lo pichòt morre endurmit.

(Wolfgang Borchert)



XXII

Abo l’arribaa de l’uvèrn, avíem tacat lhi torns de licenças. Quinze jorns da passar dins nòstras familhas nos semelhavon una felicitat sensa eigal. Avellini e mi érem entre lhi pus ancians dal batalhon e auríem degut partir abo lhi torns di premiers oficials. Mas l’accion d’las eschalas e di pònts, suspendua mai d’un bòt, era encara en preparacion, e lo colonèl nos retenia al regiment. Mi en mai d’aquò deviu far coïncíder ma licença abo aquela de mon fraire, soldat de un regiment de fanteria dins la Carnia, daus que avíem obtengut de poler partir ensem. Mas, da una distança tan granda, fasia mal far butar-se d’acòrdi. Per Deneal, érem encara en trincea.

Lhi austriacs, normalament, respectavon las recorrenças d’las fèstas religiosas. Per las grandas solemnitats, tiravon pas en trincea e decò lor artilheria tasia. Mas aqueste bòt, nòstri pòsts d’escòut eron arribats a interceptar un fonograma nemís, ente se parlava de una mina que auria degut esclopar per Deneal, a mesanuech.

(…) Avellini avia rason de se considerar en perilh e de preveire que aquela nuech polguesse èsser la darriera de sa vita. Mas avia pas pensat que decò mi auriu polgut córrer de seríos riscs. En guèrra, qui es un mètre anant consídera lhi autri al segur. Nianca mi lhi aviu pensat, mas quora restero solet, comprenero que lo paquet d’las letras era pas tant pus segur dins mas mans. Après l’esclòp de la mina, mi auriu degut contratacar, e vai sauber çò que auriu trobat. Decidero de salvar lo paquet.

Darreire mi, a una centena de mètres, per barrar la valada, lhi avia una linha de doas ridòctas, abo un fortin ocupat da una bateria da montanha. Mi ero bòn amís de son comandant, un capitan d’artilheria, que conoissiu despuei son arribaa. Abo el ero istat totdia en rapòrt, per de dessenhs, de relevaments topogràfics, per lhi trabalhs al fortin. Aquela nuech mesma, deviu èsser d’un contun en contact abo el, perqué l’accion de si tòcs, après l’esclòp de la mina, se seria coordinaa abo l’atac de ma companhia. La nuech era chaüta da gaire. La mina seria pas esclopaa que en plena nuech: a mesanuech, disia l’interceptacion.

Trobero lo capitan solet, dins lo pichòt refectòri, que la bateria avia bastit darreire lo fortin. Lhi oficials de una bateria en posicion, en montanha, avion las mesmas comoditats que, en fanteria, pòl aver un comand de regiment en linha. Las parets de bòscs eron vernisaas e abelias da d’illustracions de guèrra. Lo capitan era setat, a la taula pas encà desbarrassaa. Lhi oficials avion finit de disnar e pilheron mai lhi pòsts de servici. Lo capitan avia, a portaa de man, lo teléfon e doas botelhas: una de cognac, e una de benedettino. Bevia e fumava. 

«Devon èsser de bosniacs musulmans», me diset, a pena me veiet. «Imaginar de far esclopar la mina la nuech de Deneal. Un bèl presepi nos adòbon. Mas mi ai lhi tòcs ponchats en maniera que, se son maometans, comunicarèn estanuech mesma abo lo Profeta».

«Espero ben», disero, «que nos eschambiatz pas per de bosniacs, e nos tiratz pas a l’eschina. Beicatz que, gaire de secondas après l’explosion, nosautri seríem já partits a l’assaut e auríem ocupat las posicions sus las qualas vos avetz lhi canons ponchats».  «E per qui nos avetz pilhats? Nosautri siem pas l’artilheria d’assaut per nos perméter un colp parelh. Ai dispausat un servici d’illuminacion a fusetas, e da l’observatòri, distinguirei lhi mínims detalhs».

Lo devís viret a l’entorn de l’artilheria da montanha en contraposicion abo l’artilheria da campanha e di mesan e gròs calibres, particularament dispausats a mancar la mira e a tirar sus lhi nòstri. Lo capitan faset preparar lo cafè, que era una especialitat de la bateria. L’especialitat consistia en tres bichèls de cognac finíssim e que se bevion coma aquò: un, derant dal cafè, un ental cafè e un après lo cafè. Per mas vísitas precedentas, ele saubia que beviu pas de liquors, e ariava sus aquela mia abstencion da arterioscleròtic.

Mostrero lo paquet sagelat.

«Se devéssetz arribar-me qualquaren, estanuech, vos prego de liurar aqueste paquet al tenent Avellini, de la 9ª companhia. Se el foguesse pas pus fortunat de mi, trobarètz, dins la busta dedins, l’adreça de la persona a la quala deu èsser expedit lo paquet».

Lo capitan avia já begut la premiera part de son cafè especial.

«Letras d’amor?», me demandet. 

Mi evitero la responsa e el se butet a rire a gola dubèrta.

(Emilio Lussu, “Un an sal planòl”)



Nuech d’uvèrn

La celha, la celha sus tota la tèrra
fins a sas bòinas.
Una chandèla brusava sus la taula,
una chandèla brusava.

Coma d’istat a eissam lhi moschins
vòlon sus la flama,
cheïon lhi flòcs da la cort
sal quadre de la fenèstra.

La tormenta estachava al vedre
de cerclets e de flèchas.
Una chandèla brusava sus la taula,
una chandèla brusava.

Sal plafon esclarzit
se cojavon las ombras,
croseaments de braç,
de chambas, de destins.

E abo un crep dui chaucierets
tombavon per sòl.
E a larmas la cira da la mecha
esticeava sus la vièsta.

E tot se perdia dins una nèbla de neu
canua e blancha.
Una chandèla brusava sus la taula,
una chandèla brusava.

Sus la chandèla un sofle da un cant,
e la feure dal desir
coma un àngel auçava doas alas

en forma de crotz.

La celha tot lo mes de febrier,
e boquò totdia
una chandèla brusava sus la taula,
una chandèla brusava.

(B. Pasternak, “Lo doctor Živago”)