Una vedova - Guy de Maupassant
Una veva - Guy de Maupassant
di Peyre Anghilante

«Mi avete spesso sentito parlare della famiglia Santèze, oggi estinta. Ho conosciuto gli ultimi tre maschi della casata. Sono morti tutti e tre nello stesso modo. Ecco i capelli dell'ultimo: aveva tredici anni quando si è ucciso per me. Vi sembra strano, vero? Era una razza curiosa, di gente matta, magari, ma simpatica, e matta per amore. Tutti, di padre in figlio, avevano violente passioni, grandi impulsi di tutto il loro essere che li spingevano alle azioni più esaltate, ad affetti fanatici, addirittura al delitto. In loro questo equivaleva alla fede ardente di certe anime. Chi si fa trappista non ha la stessa indole di chi frequenta i salotti. I parenti dicevano: "Innamorato come un Santèze". Si capiva soltanto a guardarli. Avevano tutti i capelli ondulati che scendevano sulla fronte, la barba riccia e occhi grandissimi, con uno sguardo penetrante che turbava senza che se ne capisse il motivo. Il nonno di colui che mi lasciò quest'unico ricordo, dopo molte avventure, duelli e rapimenti di donne, verso i sessantacinque anni s'innamorò pazzamente della figlia del suo fattore. Li ho conosciuti tutti e due. Lei era bionda, pallida, fine, parlava adagio con una vocina dolce e aveva uno sguardo cosi languido che pareva una madonna. Il vecchio signore la prese in casa e presto ne fu tanto conquistato da non poter restare un minuto senza di lei. Per la sua figliola e la sua nuora, le quali abitavano nel castello, era tutto naturale, perché l'amore era una tradizione della casa. Quando si trattava di passione non si stupivano di nulla e se, davanti a loro, si parlava di amori contrastati, di amanti divisi o anche di vendette per tradimenti, tutte e due dicevano con lo stesso tono afflitto: "Oh! quanto lui (o lei) ha dovuto soffrire per arrivare a quel punto!". Nient'altro. S'impietosivano sui drammi passionali, senza mai indignarsi, anche se c'erano di mezzo delitti. Accadde che un certo autunno un giovanotto, il signor de Gradelle, invitato per la caccia, rapì la ragazza. Il signor Santèze rimase calmo, come se non fosse successo nulla; ma una mattina lo trovarono impiccato nel canile, in mezzo ai cani. Suo figlio morì nello stesso modo, in un albergo di Parigi, durante un viaggio che fece nel 1841, per essere stato tradito da una cantante dell'Opéra. Lasciò un figlio di dodici anni e una vedova, la sorella di mia madre. Lei e il bambino vennero ad abitare in casa di mio padre, nella nostra tenuta di Bertillon. Io allora avevo diciassette anni. Non potete immaginarvi che bambino precoce e straordinario fosse quel piccolo Santèze. Si sarebbe detto che in lui, l'ultimo, si fossero riunite tutte le facoltà di affetto, tutte le esaltazioni della sua razza. Non faceva che fantasticare e passeggiava da solo, per ore e ore, in un gran viale di olmi che andava dal castello fino al bosco. Dalla finestra guardavo quel ragazzetto sentimentale che camminava a passi lenti, con le mani dietro la schiena, la fronte china, fermandosi talvolta a levar lo sguardo, come se vedesse, e capisse, e sentisse cose che non erano della sua età. Spesso, dopo cena, nelle notti serene, mi diceva: "Andiamo a sognare, cugina..." E ci incamminavamo insieme nel parco. Si fermava di colpo davanti alla radura dove ondeggiava un bianco vapore, quella specie di ovatta con cui la luna decora gli spazi vuoti dei boschi e mi diceva, stringendomi la mano: "Guarda, guarda... Ma tu non mi capisci, lo sento. Se tu mi capissi saremmo felici. Si deve amare per sapere...". Ridevo e lo abbracciavo, quel ragazzo che mi voleva un bene da morire. Spesso anche, dopo cena, andava a sedersi sulle ginocchia di mia madre: "Via, zietta", le diceva, "raccontaci qualche storia d'amore". E mia madre, per scherzare, gli narrava le leggende della sua famiglia, le appassionate avventure dei suoi padri; poiché se ne riferivano a migliaia, tra vere e false. Quegli uomini sono stati tutti rovinati dalla loro rinomanza: si montavano la testa e dopo si facevano un punto d'onore di non smentire la nomea della casata. Il ragazzo si esaltava a quei racconti teneri o terribili e talvolta batteva le mani dicendo: "Anch'io, anch'io so amare meglio di tutti loro!". Cominciò a corteggiarmi, in modo timido e profondamente affettuoso, che faceva ridere tanto era buffo. Ogni mattina ricevevo i fiori colti da lui e ogni sera, prima di salire in camera, mi baciava la mano mormorando: "Ti voglio bene!". Sono stata colpevole, molto colpevole e ancora ne piango di continuo, e ne ho fatto penitenza per tutta la vita perché sono restata zitella, o meglio fidanzata-vedova, vedova di lui. Mi divertivo a quell'affetto puerile, anzi lo provocavo: sono stata civetta, seducente, come con un uomo, carezzevole e perfida. Ho fatto perdere la testa a quel bambino. Per me era un gioco e per sua madre e la mia un piacevole divertimento. Aveva dodici anni! Pensate! Chi avrebbe preso sul serio quella passione in miniatura! Lo baciavo finché voleva; gli scrivevo perfino dei bigliettini amorosi che le nostre madri leggevano; e lui rispondeva con lettere infuocate, che ancora conservo. Credeva che la nostra intimità amorosa fosse un segreto, perché si considerava un uomo. Avevamo dimenticato che era un Santèze! Andò avanti per quasi un anno. Una sera, nel parco, mi si gettò ai piedi e, baciandomi l'orlo della gonna con slancio furioso, disse: "Ti voglio bene, ti voglio bene da morire. Se tu dovessi mai tradirmi, attenta, se tu mi abbandonassi per qualcun altro, farei come mio padre...". E aggiunse, con una voce così profonda da far rabbrividire: "E tu sai che cosa ha fatto...". Fui sbalordita, e lui, rialzandosi, si rizzò in punta di piedi per arrivarmi all'orecchio, perché ero più alta di lui, modulò il mio nome: «Geneviève!» con un tono tanto dolce, grazioso e affettuoso che rabbrividii da capo a piedi. Balbettai: "Torniamo, torniamo!". Lui non disse altro e mi seguì; ma, mentre stavamo per salire i gradini della scalinata, mi fermò: "Bada che se mi lasci mi ammazzo". Questa volta capii d'essere andata troppo oltre, e mi feci più riservata. Poiché un giorno me lo rimproverava, gli risposi: "Ormai sei troppo grande per scherzare, e troppo giovane per un amore serio. Aspettiamo". Credevo di essermi liberata. In autunno lo misero in collegio. Quando tornò, l'estate seguente, ero fidanzata. Capì subito, e per otto giorni fu così serio che me ne preoccupai molto. La mattina del nono giorno, appena alzata, vidi un bigliettino che era stato infilato sotto la mia porta. Lo presi, lo apersi, lessi: "Mi hai abbandonato, e sai quel che ti ho detto. Hai voluto la mia morte. Poiché non voglio esser trovato da nessun altro che non sia tu, vieni nel parco, nel punto preciso in cui l'anno scorso ti dissi che ti amavo, e guarda per aria". Mi parve d'impazzire. Mi vestii più in fretta che potei e corsi, corsi a perdifiato fino al luogo indicato. Il suo berrettino da collegiale era per terra, nel fango. Aveva piovuto tutta la notte. Alzai gli occhi e scorsi qualcosa dondolarsi tra le foglie, perché tirava vento, un gran vento. Non so più che cosa ho fatto, dopo. Credo d'avere urlato, poi di essere svenuta, caduta, e poi corsa al castello. Mi parve d'avere sognato tutto, in uno spaventoso delirio. Balbettai: «Dov'è Gontran, dov'è?». Non mi risposero. Era vero. Non ebbi il coraggio di rivederlo; ma chiesi una ciocca dei suoi lunghi capelli biondi. Eccola... qui»..
E la vecchia signorina tendeva la mano tremante in un gesto disperato. Poi si soffiò il naso parecchie volte, si asciugò gli occhi e aggiunse: "Ruppi il fidanzamento... senza dare spiegazioni... E sono... sono sempre rimasta... la... vedova di quel bambino di tredici anni". Il capo le ricadde sul petto e pianse a lungo, assorta. Mentre salivamo per andare a dormire, un grosso cacciatore che era stato turbato dal racconto disse in un orecchio al suo vicino: "Non è una disgrazia essere tanto sentimentali?".
Era la sason de la chaça, al Chastèl de Banneville. L’auton era pluvós e trist. Las fuelhas rosseaas, non pas crúisser dessot lhi pè, marçavon dins las reas laissaas da las roas, dessot lhi violents eslavàs.
La forèsta, esquasi despulhaa, era uma coma un’estància da banh. Quora s’intrava dedins, dessot lhi àrbols auts batuts da las ramaas, s’era envòusats da un’odor de mofa, da una pols d’aiga, d’èrbas banhaas, de tèrra trempa, e lhi tiraires, corbats dessot aquela contínua inondacion, lhi chans moquets, embe la coa al metz des chambas e lo pel empegat a las còstas, e las joves chaçairas, dins lor vèstas de drap aderent trempas de plueia, tuchi lhi seras tornavon las de còrp e d’esperit.
Après cina dins la granda sala se juava al lòt, sensa s’amusar, entant que l’aura fasia esbatassear violentemet lhi escurs e virar coma de sòtolas las vielhas giroletas di cubèrts. Avion provat a contiar d’estòrias, coma se les dins lhi libres; mas degun saubia inventar pas ren d’amusant. Lhi chaçaors contiavon d’aventuras a basa de fusiladas, de masèls de conilhs; e las fremas s’espremion lo cervèl, sensa jamai demostrar la fantasia de Sheherazade.
Eron aquí per renonciar an aquel passatemp, quora una jove dama, en juant distrachament embe la man d’una sia vielha danda, restaa filha, a notat un pichòt anèl fach de pels blonds, qu’avia já vist d’autri bòts sensa lhi far atencion.
Alora, en lo fasent virar plan planet d’entorn lo det, a demandat: «Ditz-me, danda, çò qu’es aqueste anèl? Semelhon de pels de filhet...». La vielha filha a rosseat e es vengua pàllia; puei, embe una vòutz tramolanta: «Es un’estòria tan trista, tan trista, que vuelh pas jamai ne’n parlar. D’aquò ven tot lo malaür de ma vita. Enlora ero ben jove, mas m’es restat un recòrd tan dolorós que me buto a plorar chasque bòt que lhi penso».
Tuchi an volgut d’abòrd conéisser l’estòria; mas la danda se refusava; tant l’an pregaa que a la fin s’es decidaa.
«M’avetz sovent auvit parlar de la familha Santèze, encuei estencha. Ai coneissut lhi darriers tres òmes de la familha. Son mòrts tuchi tres dal mesme biais. Vaicí lhi pels de lo darrier: avia tretze ans quora s’es tuat per mi. Vos semelha dròlle, ver?»
Era una raça curiosa, de gent mata, benlèu, mas simpàtica, e fòla d’amor. Tuchi, de paire en filh, avion de violentas passions, de grandas impulsions de tot lor èsser que lhi possavon a las accions pus exaltaas, a d’afeccions fanàticas, fins a mai al delicte. Dedins lor aquò equivalia a la fè ardenta de cèrtas anmas. Qui se fai trapista a pas la mesma trempa de qui frequenta lhi salòts. Lhi parents dision: “enamorat coma un Santèze”. Se capia masque a lhi gachar. Avion tuchi lhi pels ondulats que calavon sus lo frònt, la barba riçolina e lhi uelhs grands, embe un esgard penetrant que conturbava sensa qu’én ne’n comprenesse la rason.
Lo peté d’aquel que m’a laissar aqueste solet recòrd, après un baron d’aventuras, duèls e rapiments de fremas, vèrs lhi seissanta-cinc ans s’era enamorat folament de la filha de son factor. Lhi ai coneissuts tuchi dui. Ilhe era blonda, pàllia, fina, parlava a d’aise embe una vouseta dòuça e un esgard tan langorós que semelhava una madòna. Lo vielh senhor l’a pilhaa en cò siu e fito ne’s restat tan conquistat da ren poler restar una minuta sensa ilhe. Per sa filha e sa nòra, que vivion dins lo chastèl, era tot natural, perque l’amor era una tradicion de la maison. Quora era en juec la passion pas ren las esmaravilhava e se, derant ilhs, se devisava d’amors contrastants, d’amants desunits o mesme de venjanças per de tradiments, totas doas dision embe lo mesme tòn adolentit: “Òh! Qué tant el (o ilhe) deu aver sufèrt per arribar an aquela mira!”. Ren d’autre. S’apietosion sus lhi dramas passionals, sens jamai s’indignar, bèla se lhi avia ental metz de delictes.
S’es passat que un auton, un jove, lo senhor de Gradelle, convidat per la chaça, a rapit la filha. Lo senhor Santèze es restat calm, coma se ren foguesse estat; mas un matin l’an trobat pendut dins lo chanil, al metz di chans.
Son filh es mòrt dal mesme biais, dins un auberge de París, durant un viatge qu’a fach ental 1841, après èsser estat tradit da una chantaira de l’Opéra.
A laissat un filh de dotze ans e una veva, la sòrre de ma maire. Ilhe e lo pichòt son venguts istar en cò de mon paire, dins nòstra tengua de Bertillon. Mi alora aviu dètz-e-sèt ans.
Poletz pas vos imaginar que filh precòç e extraordinari foguesse aquel pichòt Santèze. Én auria dich que dins el, lo darrier, se foguesson reünias totas las facultats d’affeccion, totas las exaltacions de sa raça. Fasia pas que fantasticar e se promenava solet, per d’oras e d’oras, dins una granda alea d’olmes qu’anava dal chastèl fins al bòsc. Da la fenèstra gachavo aquel filhet sentimental que chaminava lentament, embe las mans darreire l’eschina, lo frònt clinat, en se’arrestant de temp en temp a auçar l’esgard, coma se veiesse, e comprenesse, e sentesse de causas qu’eron pas de son atge.
Sovent, après cina, dins las nuechs claras, me disia: “Anem sumiar, cosina...” E s’enchaminàvem ensem dedins lo parc. Se fermava de colp derant l’esclarzaa ente ondejava un vapor blanc, aquela sòrta d’oata embe la quala la luna decòra lhi espacis vueits di bòscs e me disia, m’estrenhent la man: “Gacha, gacha... Mas tu me comprenes pas, lo sento. Se tu me comprenesses seríem aürós. Chal amar per sauber...”. Riiu e l’embraçavo, aquel filh que me volia un ben da murir.
Sovent decò, après cina, anava s’assetar sus lhi janolhs de ma maire: «Dai, danda», lhi disia» Còntie-nos qualqua estòria d’amor». E ma maire, per rire, lhi contiava las legendas de sa familha, las aventuras apassionaas de si reires; já que se’n contiavon a miliers, de veras e de faussas. Aquilhi òmes son estats tuchi roïnats da lor renomança: se montavon la tèsta e après se fasion un ponch d’onor de pas desmentir la renomaa de la familha.
Lo filh s’exaltava an aquilhi racònts tenres o terribles e de bòts picava las mans en disent: “Decò mi, decò mi sai amar mielh de tuchi lor!”.
A començat a me calinhar, d’un biais tímid e profondament grinós, que fasia rire tant era dròlle. Tuchi lhi matins m’arribavon las flors qu’el avia culhit e chasque sera, derant d’anar durmir, me baisava la man en mormorant: “Te amo!”.
Siu estaa colpabla, ben colpabla, e encara ne’n ploro de contun, e n’ai fach penitença per tota la vita perque siu restaa filha, o mielh fiançaa-veva, veva d’el. M’amusavo an aquela afeccion puerila, e mai la provocavo: siu estaa coqueta, sedusenta, coma embe un òme, calinhanta e pèrfida. Ai fach pèrder la tèsta an aquel filhet. Per mi era un juec e per sa maire e la mia un divertiment agradable. Avia dotze ans! Pensatz! Qui auria pilhat al seriós aquela passion en miniatura! Lo baisavo fins que volia; lhi escriviu fins de bilhetins amorós que nòstras maires lesion; e el respondia embe de letras enflamaas, que gardo encara. Creïa que nòstra intimitat amorosa foguesse un secret, perque se considerava un òme. Aviem desmentiat qu’era un Santèze...!
Es anaa anant esquasi un an. Un sera, dins lo parc, s’es campat ai miei pè e, me baisant l’òrle de la còta embe un eslanç furiós, a dich: “Te vuelh ben, te amo da murir. Se un jorn tu me devesses tradir, pilhe-te garda, se tu m’abandonesses per qualqu’un autre, fariu coma mon paire...”. E puei, embe una vòutz tan fonza da restar sesits: “E tu sas çò que a fach...”.
Siu estaa estaburnia, e el, en se reauçant, s’es dreiçat en poncha de pè per m’arribar a l’aurelha, já qu’ero pus auta d’el, a prononciat mon nom: “Geneviève!” embe un ton tan dòuç, graciós e tenre qu’un freiçon m’a traversaa da la tèsta ai pè.
Ai barboteat: “Tornem, tornem...!”. El m’a seguia en silenci; mas, mentre istavon per montar l’eschalinada, m’a arrestaa: “Gacha que se me laisses me maço”.
Aquel bòt ai capit d’aver passat la mesura, e d’aquel bòt siu estaa mai reservaa. Dal moment qu’un jorn m’o reprochava, lhi ai respondut: “Aüra sies tròp grand per badinar, e tròp jove per un amor seriós. Atendem”.
Creïu de m’èsser liberaa.
En auton l’an butat en collègi. Quora es tornat, l’istat d’après, ero fiançaa. A capit súbit, e per uechs jorns es restat tan seriós que ne’n siu estaa ben sagrinaa.
Lo matin dal noven jorn, just auçaa, ai vist un bilhetin qu’era estat enfiloneat dessot ma pòrta. L’ai pilhat, l’ai dubèrt, ai lesut: “M’as abandonat, e sas çò que t’ai dich. As volgut ma mòrt. Dal moment que vuelh pas èsser trobat da degun autre que tu, ven dins lo parc, a la mira ente l’an passat t’ai dich que t’amavo, e gacha dins l’aire”.
Ai cregut de venir mata. Me siu vestia pus fito que poliu e ai corrut a pèrda de flat fins al luec indicat. Sa caloteta da collegial era per tèrra, dins la pauta. Avia plogut tota la nuech. Ai auçat lhi uelhs e ai vist qualquaren se balançar al metz des fuelhas, perque fasia aura, una granda aura.
Sai pas pus çò qu’ai fach après. Creo d’aver bramat, puei d’èsser esvengua, d’èsser chaüta, e puei d’èsser corrua al chastèl. Me siu desvelhaa dins mon liech, lhi avia ma maire a mon cabeç.
M’a pareissut d’aver tot sumiat, dins un deliri espaventós. Ai farfolhat: “Ente es, Gontran, ente es?”. M’an pas respondut pas. Era ver.
Ai pas agut lo coratge de lo reveire; mas ai demandat una vèla di siei lòngs pels blonds. Es... aquesta... aicí...»
E la filha tendia la man tramolanta dins un gèst desperat.
Puei s’es mochaa lo nas mai d’un bòt, s’es eissuaa lhi uelhs e a dich: «Ai romput lo fiançament... sensa donar d’explicacions... E siu... siu totjorn restaa... la... veva d’aquel filhet de dotze ans». La tèsta lhi es tombaa sus lo sen e a plorat a lòng, pensosa.
Dal mentre que montavon per anar durmir, un gròs chaçaor qu’era estat tochat dal racònt a dich dins l’aurelha a son vesin:
«Es pas una malaür èsser tan sentimentals?».
commenta