Portal d’Occitània    Letteratura occitana

LE NOTTI BIANCHE, notte seconda - Fëdor Michajlovič Dostoevskij

LAS NUECHS BLANCHAS, nuech seconda - Fëdor Michajlovič Dostoevskij

di Peyre Anghilante

LE NOTTI BIANCHE, notte seconda - Fëdor Michajlovič Dostoevskij
italiano «Be', allora siete sopravvissuto!», mi disse ridendo e stringendomi ambedue le mani.
«Sono qui già da due ore; non sapete come mi sono sentito tutto il giorno!»
«Lo so, lo so... ma arriviamo al punto. Sapete perché sono venuta? Non per dire sciocchezze come ieri. Ecco: dobbiamo comportarci più sensatamente in avvenire. Ci ho pensato molto a lungo ieri.»
«E in cosa, in cosa essere più sensati? Dal canto mio sono pronto; ma in effetti non mi è mai successo in vita mia niente di più sensato di ora.»
«Veramente? In primo luogo vi chiedo di non stringermi tanto le mani; in secondo luogo vi faccio sapere che oggi ho riflettuto a lungo su di voi.»
«Ebbene, come è andata a finire?»
«Come è andata a finire? E' andata a finire che bisogna ricominciare tutto daccapo, perché in definitiva oggi ho deciso che non mi siete ancora del tutto noto, che ieri mi sono comportata come una bambina, come una ragazzina, e, s'intende, è risultato che colpa di tutto è il mio buon cuore, cioè mi sono dotata da sola, come va sempre a finire quando ci mettiamo ad analizzare le nostre cose. E perciò, per rimediare all'errore, ho deciso di informarmi sul vostro conto nel modo più dettagliato. Ma siccome non ho nessuno da cui informarmi sul vostro conto, allora dovere essere voi stesso a raccontarmi tutto, vita morte e miracoli. Allora, che tipo di persona siete? Su, cominciate dunque, raccontatemi la vostra storia.»
«La mia storia!», gridai io spaventato, «la mia storia! Ma chi vi ha detto che ho una storia? non ho una storia...»
«E come avete vissuto se non avete una storia?», interruppe lei ridendo.
«Assolutamente senza alcuna storia! così, ho vissuto, come si dice da noi, per conto mio, cioè assolutamente da solo, - da solo, del tutto da solo, - capite cosa significa da solo?»
«Ma come da solo? cioè non avete visto mai nessuno?»
«Oh no, per vedere vedo, - ma comunque sono solo.»
«Insomma, davvero non parlate con nessuno?»
«In senso stretto, con nessuno.»
«Ma allora chi siete? spiegatemi! Fermo, indovino: dovete avere una nonna come l'ho io. E' cieca ed è ormai tutta la vita che non mi lascia andare da nessuna parte, cosicché ho quasi disimparato a parlare. E quando ho fatto una stupidaggine, un paio di anni fa, si è accorta che non poteva tenermi, mi ha chiamata e ha attaccato con una spilla il mio vestito al suo - e così da allora resto seduta intere giornate; le fa la calza, anche se è cieca; io invece sto seduta accanto a lei, cucio o le leggo un libro ad alta voce - un'abitudine tanto strana essere attaccata ormai già da due anni...»
«Ah, Dio mio, che sfortuna! Ma no, io non ho una nonna del genere.»
«E allora come potete starvene a casa?...»
«Ascoltate, voi volete sapere chi sono?»
«Ma certo, sì»
«Nel senso stretto della parola?»
«Nel senso più stretto della parola!»
«Lasciatevelo dire, sono un tipo.»
«Un tipo, un tipo! che tipo?, si mise a gridare la ragazza, ridendo così forte come se non avesse avuto occasione di ridere per un intero anno. «Con voi ci si diverte un mondo! Guardate: ecco una panchina; sediamoci! Qui non ci passa nessuno, nessuno ci sentirà, e - cominciate dunque la vostra storia! perché non ci casco, avete una storia, ma non fate che nascondervi. In primo luogo, che cos'è un tipo?»
«Un tipo? un tipo è un originale, è una persona talmente ridicola!», risposi, io stesso ridendo forte sul suo riso infantile. «E' un carattere così. Sentite: sapete che cos'è un sognatore?»
«Un sognatore? S'intende che lo so, io stessa sono una sognatrice! A volte stai seduta accanto alla nonna e ti entrano in testa un sacco di cose. Insomma, inizi a sognare e ti vengono in mente tante di quelle cose - insomma, va a finire che sposo un principe cinese... Eppure questo in altre occasioni è un bene - sognare! No, del resto, lo sa Dio! In particolare se c'è di che pensare anche senza questo», aggiunse la ragazza stavolta piuttosto seria.
«Eccellente! Se già qualche volta avete sposato un imperatore cinese, allora dovete comprendermi perfettamente. Ebbene, ascoltate... Ma permettete: ancora non so come vi chiamate.»
«Finalmente! ve ne siete ricordato in fretta!»
«Ah, Dio mio! non mi è nemmeno venuto in mente, mi sentivo bene anche così...»
«Mi chiamo Nasten'ka(1)».
«Nasten'ka! e basta?»
«Basta! e vi pare poco? siete un vero incontentabile!»
«Poco? E' molto, molto, al contrario, davvero molto, Nasten'ka, mia cara ragazza, se dalla prima volta per me siete stata Nasten'ka!»
«Volevo ben dire! su!»
«Allora ecco, Nasten'ka, ascoltate un po' come si fa divertente qui la storia.»
Mi sedetti accanto a lei, presi una posa pedantemente seriosa e iniziai proprio come un libro stampato:
«Ci sono, Nasten'ka, se non lo sapete, ci sono a Pietroburgo degli angoletti piuttosto strani. In quei posti è come se non facesse capolino lo stesso sole che brilla per tutti i pietroburghesi, ma ne facesse capolino un altro, nuovo, come fosse stato richiesto apposta per quegli angoli, e brilla su tutto con un'altra luce, particolare. In quegli angoli, cara Nasten'ka, è come se si vivesse una vita completamente diversa, per nulla simile a quella che ferve intorno a noi, una vita come potrebbe essere in un regno sconosciuto ai confini del mondo, e non da noi, nel nostro tempo serio-straserio. E proprio questa vita è un'autentica mescolanza di qualcosa di puramente fantastico, di ardentemente ideale e insieme (ahimè, Nasten'ka) di vuotamente prosaico e banale, per non dire: triviale fino all'inverosimile!»
«Uh! Signore Iddio! che prologo! Cosa mai sentirò ancora?»
«Sentirete, Nasten'ka (mi sembra che non finirò mai di chiamarvi Nasten'ka), sentirete che in quegli angoli vivono strane persone - sognatori. Un sognatore - se è necessaria una sua definizione precisa - non è una persona,ma, sapete, un essere di genere neutro. Si stabilisce il più delle volte in qualche angolo inaccessibile, come se ci si nascondesse perfino dalla luce del giorno, e quando poi si rifugia a casa, allora si radica al suo angolo come una lumaca, o, almeno, è molto simile in questo atteggiamento a quell'interessante animale che è animale e casa insieme, che si chiama tartaruga. Cosa ne pensate, perché ama tanto le sue quattro pareti, pitturate immancabilmente di colore verde, annerite, tristi e intollerabilmente affumicate? Per quale motivo questo buffo signore, quando viene a trovarlo qualcuno dei suoi rari conoscenti (e finisce che tutti i suoi conoscenti spariscono), per quale motivo questa buffa persona lo accoglie così confuso, così cambiato in volto e con un tale turbamento come se avesse appena commesso un delitto tra le sue quattro mura, come se avesse fabbricato banconote false o poesie da mandare a una rivista con una lettera anonima nella quale si dichiara che il vero poeta è già morto e che un suo amico ritiene sacro dovere pubblicare i suoi versi? Perché Nasten'ka, ditemi, la conversazione di quei due interlocutori procede tanto a fatica? perché non esce né una risata, né una qualche paroletta vivace dalla bocca dell'interdetto amico giunto all'improvviso che in altre occasioni ama molto e la risata, e la paroletta vivace, e i discorsi sul gentil sesso, e altri argomenti ameni? Perchè mai, infine, questo amico, verosimilmente conoscenza recente, e alla prima visita, - perchè in questo caso non ce ne sarà una seconda e l'amico non tornerà, - perché anche l'amico è tanto confuso, tanto irrigidito, nonostante tutta la sua sagacia (ammesso che ne abbia), guardando il viso sconvolto del padrone di casa, il quale a sua volta ha già fatto in tempo a perdersi e a smarrirsi dopo i titanici ma vani sforzi di distendere e vivacizzare la conversazione, di mostrare anche da parte sua una conoscenza del vivere mondano, di intavolare lui pure un discorso sul gentil sesso e almeno per una simile docilità di piacere al malcapitato che per errore è venuto a trovarlo? Perchè, infine, l'ospite improvvisamente afferra il cappello e se ne va alla svelta, dopo essersi subitamente ricordato di un affare urgentissimo che non è mai esistito, e libera a stento la propria mano dalle calorose strette del padrone di casa, il quale tanta in ogni modo di mostrare il proprio pentimento e di riconquistare il terreno perduto? Perchè l'amico che se ne sta andando ride forte uscendo dalla porta, e giura subito a se stesso che non tornerà mai più da quello stravagante, sebbene lo stravagante a dire il vero sia un eccellente ragazzo; e al tempo stesso non può in nessun modo rifiutare alla propria immaginazione un piccolo capriccio: paragonare, sebbene alla lontana, il viso del suo recente interlocutore, durante tutta la durata dell'incontro, all'aspetto di quell'infelice gattino, che dei bambini abbiano strapazzato, spaventato e molestato in ogni modo, dopo averlo slealmente preso prigioniero, abbiano annientato, che finalmente sia loro sfuggito per nascondersi sotto una sedia, nell'oscurità, e lì sia stato costretto per un'intera ora di tempo a rizzare il pelo, sbuffare e lavare il proprio musetto molestato con ambedue le zampe e a guardare ostilmente ancora a lungo dopo ciò la natura e la vita e perfino l'elemosina dal pranzo dei signori, conservata per lui da una compassionevole governante?»
«Ascoltate», interruppe Nasten'ka che per tutto il tempo mi aveva ascoltato sbalordita, con gli occhi e la boccuccia spalancati, «ascoltate: io davvero non so per quale motivo tutto ciò sia accaduto e perché mai mi facciate domande tanto ridicole; ma quel che so per certo è che tutte queste avventure devono essere senz'altro capitate a voi, parola per parola.» 
«Senza dubbio»; risposi io con l'espressione più seria.
«Insomma, se non ci sono dubbi, allora continuate», rispose Nasten'ka, «perché ho una gran voglia di sapere come va a finire.»
«Voi, Nasten'ka, volete sapere cosa mai faceva nel suo angolo il nostro eroe, o, per meglio dire, io, perché l'eroe di tutta la questione sono, io, in tutta la mia modesta persona; voi volete sapere perché fossi rimasto tanto sconvolto e smarrito per un'intera giornata a causa dell'inaspettata visita del mio amico? Voi volete sapere perché avessi fatto un salto e fossi tanto arrossito quando avevano aperto la porta della mia camera, perché non avessi saputo ricevere l'ospite e fossi tanto vergognosamente crollato sotto il peso della mia ospitalità?
«Ma certo, sì!» rispose Nasten'kà, «è questo il punto. Ascoltate: voi raccontate in modo meraviglioso, ma non potete raccontare in modo un po' meno meraviglioso? Giacché parlate come se leggeste un libro.»
«Nasten'ka !», risposi io con voce, grave e severa, trattenendomi a stento dal ridere, «cara Nasten'ka, so che racconto in modo meraviglioso, ma - mi dichiaro colpevole, non so raccontare diversamente. Ora, cara Nasten'ka, ora mi sento simile allo spirito del re Salomone che restò per mille anni in una giara chiusa da sette sigilli, e al quale alla fine tolsero quei sette sigilli. Ora, cara Nasten'ka, quando ci siamo ritrovati dopo una separazione tanto lunga, - perché io vi conoscevo già da molto tempo, Nasten'ka, perché già da molto tempo stavo cercando qualcuno, e questo è il segno che stavo cercando proprio voi e che era destino che ci incontrassimo ora, - ora nella mia testa si sono aperte migliaia di valvole, e devo riversare un fiume di parole, altrimenti soffoco. Cosicché vi chiedo di non interrompermi, Nasten'ka, ma di ascoltare docile e ubbidiente; altrimenti - tacerò.»
«No e poi no! assolutamente! parlate! Ora non dirò più una parola.»
(1) La ragazza non dice che si chiama Anastasija, ma utilizza qui un vezzeggiativo del diminutivo Nastja, segno di grande confidenza (ndt).
occitan

«Bè, alora setz sobreviscut!», a dich ilhe en rient e en me sarrant las doas mans.

«Siu já aicí depuei doas oras; saubetz pas en qual estat ai passat tot lo jorn…»

«Lo sai pro... mas venem al pact. Saubetz perqué siu vengua? Pas per devisar de sotisas coma ier. Vaicí, d’aüra en anant chal nos comportar pus saviament. Ai pensat a lòng an aquò».

«E en çò que, en çò que nos chal èsser pus savis? De mon cant, siu prèst; mas en veritat jamai dins ma vita m’es capitat ren de pus savi».

«Da bòn? Derant de tot, vos prego, sarratz-me pas tant las mans; puei me chal vos confessar qu’encuei ai pensat lòngtemp a vos».

«Embe aquò, coma es anaa a finir?»

«Coma es anaa a finir? Que nos chal tot recomençar, perque me siu apercebua que vos conoisso pas encà pro, que ier me siu comportaa coma una mineita e, s’entend, n’es resultat que tota la colpa es de mon còr bòn, e me siu laudaa, coma én fai sempre quora én comença a s’analizar. E pr’aquò, per remediar a ma fauta, ai decidat de m’informar ben a fons sus vòstre còmpte. Mas coma puei pas m’informar se ren de da vos, serètz vos a me dever contiar tuchi vòstri secrets. E ben, qui setz vos? Començatz donc, contiatz-me vòstra estòria».

«Mon estòria!», ai criat espaventat, «mon estòria! Qui vos a dich qu’ai un’estòria? mi ai pas un’estòria…»

«E coma avetz viscut s’avetz pas un’estòria?», a interromput en rient.

«Sensa gis d’estòria! Ai viscut coma aquò, coma se ditz, per mon còmpte, totalament solet… Comprenetz çò que vòl dir?»

«Mas coma solet? Avetz pas jamai vist degun?»

«Òh no, per veire, veo pro, malgrat aquò siu solet».

«Enfin, da bòn parlatz embe degun?»

«Regde, embe degun».

«Mas donc qui setz? Explicatz-me! Atendetz, vau endevinar: devetz aver una ieia coma l’ai mi. Es bòrnha e d’aüra enlai es tota la vita que me laissa pas anar de degun cant, parelh qu’ai esquasi desemprés a parlar. E quora, fai un parelh d’ans, ai fach una bestisa e s’es avisaa que polia pas me retenir, m’a sonat e a estachat embe una espinòla ma vèsta a la sia. D’alora restem ensem d’entieras jornaas; ilhe fai la chauça, bèla que sie bòrnha; mi, isto setaa a son cant, coso o leso un libre a vòutz auta. Que causa dròlla lhi èsser estachaa já depuei dui ans…»

«Ah, Bon Diu, que malaür! No, mi ai pas una ieia pariera».

«E donc coma poletz restar sempre dins casa?»

«Escotatz, voletz sauber qui siu?»

«Mas sí, segur!»

«Dins lo sens estrech de la paraula?»

«Dins lo sens mai estrech de la paraula.»

«Allora laissatz-me dir, siu un tipe.»

«Un tipe! Qual tipe? A esbrofat la filha, en rient coma se auguesse pas riüt per un an entier. «Lhi a de s’amusar embe vos! Gachatz, una bancha; setem-nos! Aquí passa pas degun, degun nos auvirè, e… Començatz vòstre cònte! perqué me la donatz pas a creire, vos avetz un’estòria, mas fasetz pas que vos estremar. D’en premier, çò qu’es un tipe?»

«Un tipe? Es un original, un ridícul!» ai respondut, en fasent resson a son rire enfantil. «Es un caràcter parelh. Sentetz: saubetz çò qu’es un sumiaire?»

«Un sumiaire? Segur que lo sai, decò mi siu una sumiaira! De bòts siu setaa arramba a ma ieia, e qué de causas me viron dins la tèsta. Començo a sumiar, e lhi pensiers s’enauron talament que… sus la fin, vai a finir que mario un prince cinés… De bòts, totun, es un ben de sumiar! Totun, Diu lo sa! Sobretot se lhi a de qué pensar sensa aquilhi sumis», a jontat pus seriosa la filha.

«Aquò vai! Se qualque bòt avetz já mariat un emperaire cinés, me comprenerètz perfectament. E ben, escotatz…Mas escusatz: sai pas encara vòstre nom... coma vos sonatz?».

«A la bon’ora! Vos ne’n setz recordat fito!»

«Ah, pechaire! Me sentiu já talament aürós que m‘es nimanc passat per la tèsta...»

«Me sòno Nasten’ka1».

«Nasten’ka! E pro?»

«Jà! Vos semelha gaire? Setz pas content?»

«Gaire? Es tant, al contrari, tant da bòn, Nasten’ka, ma chara filha, se fins dal premier bòt per mi setz estaa Nasten’ka!»

«Bonaür!»

«Auvetz donc, Nasten’ka, que dròlla estòria vos vau contiar».

Me siu assetat da cant, ai pilhat una pòsa pedantement seriosa e ai tacat a la maniera d’un libre:

«Lhi a, Nasten’ka (benlèu lo saubetz pas), lhi a dins Peireborg de cantonets putòst estranges. Pareis dins aquilhi caires que se mostre pas lo mesme solelh que lui per tuchi lhi abitants d’aquesta vila, mas un autre, novèl, coma fach just per aquilhi caires, e qu’espantea sus tot una lutz diferenta, particulara. Dins aquilhi cantons, chara Nasten’ka, es coma s’én vivesse una vita completament diferenta, dal tot despariera d’aquela que fermisea a nòstre entorn, coma poleria èsser dins un renh desconoissut ai confins dal mond, luenh de nos e de nòstra època tan seriosa. Aquela vita es un ensem de qualquaren de purament fantàstic, d’ardentement ideal e al mesme temp (ah pechaire, Nasten’ka!) de fadament prosaic e banal, per pas dir d’absurdament trivial.»

«Misèria! Que pròlog! Çò qu’aurei encara d’auvir?»

«Auvirètz, Nasten’ka (me semelha que finirèi pas jamai de vos sonar coma aquò), auvirètz qu’en aquilhi caires viu de gent estranja, lhi sumiaires. Lo sumiaire, se vos chal una definicion, es pas una persona, mas, saubetz, un èsser neutre. Lo mai di bòts s’establís dins qualque canton escondut, coma s’escapesse mesme al clar dal jorn, e tuchi lhi bòts que se rentana, s’enraïsa dins son caire coma una lumaça, dal tot parier an aquela jòlia bèstiòla qu’es bèstia e maison ensem, la tartaruga. Qué ne pensatz, perqué ama tant aquilhi siei quatre murs, pintrats immancablament de vèrd, nerits, tristes e indecorosament estubats? Coma vai qu’aquel dròlle senhor, quora qualqu’un de si raires conoissent ven lo veire (e finís que tuchi lo quiton), tan genat, chambiat dins lo morre e agitat, coma se auguesse just maçat qualqu’un entre aquilhi quatre murs, coma se auguesse fabricat monea faussa o mandat si vèrs a una revista, acompanhats da na letra anònima, ente declare que lo vèr poèta es mòrt, mas que un amís retén sacre far conóisser son òbra? Disetz-me, Nasten’ka, perqué lor devís es tant trebulat? Perqué pas una risaa, una parauleta audaciosa salh da la gola de l’amís arribat tot d’un crèp, qu’en d’autras ocasions ama ben lo rire, lo parlar desgordit, e lhi devís sus las fremas, e d’autri discors plasent? Perqué aquel amís, benlèu conoissut de recent e a la premiera vísita - perqué d’aquela passa n’i aurè pas una seconda, e l’amís tornarè pus - perqué decò el es tan genat, tant enregdit, malgrat tota sa vuelha (butat que n’aie), en gachant lo morre esvirat dal patron de maison, qu’entrementier s’es já tot perdut après lhi esfòrç magonats mas vans d’avivar la conversacion, de mostrar que decò el conois la mondanitat, de devisar de fremas e d’agradar, benlèu per complasença, al malcapitat que malgrat el es vengut lo trobar? Perqué, enfin, l’òste a un moment pren lo chapèl e se’n vai a la lèsta, après s’èsser enavisat un empenh urgent qu’es pas jamai existut, e desliura a fòrça la man da las chalorosas estrechas dal patron, qu’en totas manieras cèrcha de mostrar son pentiment e de parar al dan? Perqué, just fòra de la pòrta, l’amís se buta a rire, e se promet que pus jamai tornarè da aquel extravagant, ben que aquel extravagant sie a bòn veire un filh excellent; e al mesme temp pòl pas negar a son imaginacion un pichòt caprici: comparar, ben se a la luenha, lo visatge de son recent interlocutor, per tot lo temp de l’encòntre, a l’aire d’aquel chatonet malaürós que de mainaas aien estrapaçat, espaurit e molestat en totas manieras, après l’aver fach presonier, e anequelit, que finalament se sie desliurat e s’estremat sot na carea, a l’escur, e ailai per un’ora entiera sie estat constrech a dreiçar lo pel, esbrofar e se netear embe las piòtas lo pichòt morre molestat e puei, per encà ben de temp, a gachar asirós la natura e la vita e mai las avanças dal dinar di senhors, gardaas per el da una governanta compassionosa?»

«Escotatz,» m’a interromput la filha, que per tot lo temp m’avia escotat esbabuchia, embe lhi uelhs e la gola dubèrta: «sai pas perqué tot aquò sie capitat, e perqué me fasetz de demandas tan ridículas; mas aquò que sai de segur es que totas aquelas aventuras devon èsser capitaas a vos, mot per mot».

«Certament», ai respondut pus que mai seriós.

«Enfin, se es coma aquò, continuatz,» faset Nasten’ka, «perque ai una granda vuelha de sauber coma vai a finir».

«Voletz sauber, Nasten’ka, çò qu’a fach dins son cantonet nòstre eròi, o ben mi, que siu l’eròi de l’estòria, en tota ma modesta persona? Voletz sauber perqué sie restat tan perdut e tresvirat per tota la jornada, après la visita inatendua de mon amís? Voletz sauber perqué sie tan ressautat e rosseat quora an dubèrt l’uis de ma chambra, perqué aie pas saubut recéber mon l’òste coma chal e sie escrasat ontosament dessot lo pès de ma mesma ospitalitat?»

«Mas segur!», a respondut, «es aquí lo ponch. Mas escotatz: vos contiatz d’un biais meravilhós, mas poletz pas contiar d’un biais menc meravilhós? Parlatz coma se leséssetz un libre».

«Nasten’ka!», lhi ai dich embe vòutz fonza e seriosa, me tenent a fatiga dal rire, «chara Nasten’ka, sai que còntio d’un biais meravilhós, mas… me chal prene la colpa, sai pas contiar diferent. Aüra, chara Nasten’ka, me sento parier a l’esperit dal rei Salomon, que restet per mila ans dins un’onça fermaa da sèt sagèls e enfin ne’n foguet desliurat. Aüra, chara Nasten’ka, que nos sem retrobats après una separacion tan lònja - perque fai já longtemp que vos conoisso, Nasten’ka, perque já depuei longtemp cerchavo qualqu’un, e aquò es lo senh que cerchavo pròpi vos, e qu’es lo destin a nos aver fachs encontrar - de mila sarralhs se son dubèrts dins ma tèsta e me chal vueidar un flum de paraulas, senon estofo. Donc vos demando de pas m’interromper, mas d’escotar pàsia e tranquilla; senon istarei quiet».

«No, vos prego! Parlatz! Direi pas mot».

1 La filha ditz pas que se sòna Anastasija, mas adòbra aquí l’amistós dal diminutiu Nastja, signe de granda confiança (ndt).