"[…] sull’imbrunire esse entrarono in una delle stalle ove s’adunava pressoché il paese intiero. Da uno staggio pende un lumicino d’ottone la cui fiammella non riesce a diradar le tenebre: diresti un tuorlo d’uovo perduto in un tegame affumicato. Lì attorno stanno colla padrona di casa, quante s’occupano di cucito, di tombolo e di treccia; sui quattro lati corrono panche su cui seggono le filatrici; s’ode il sussurro dei rocchetti in moto; più in là sono gli uomini intenti a cavar ceppi di zoccoli, cucchiai d’acero e dietro su d’uno stesso paglione stanno a sdraio gli oziosi, ragionando traffici, derrate, politica, di tutto un po’, tanto per ammazzare il tempo, dicono essi.
Ogni tanto qualche tabacchiera va in giro, ne consegue un incalzarsi di poderosi starnuti: qualche pipa s’accende: si parla di tutto, tantoché; a conti fatti, ed a stagion finita, ad ognuno si son rivedute le buccie. Talvolta è un vecchietto che narra le sue avventure di Francia, tal altra uno capita con un giornale venutogli da chissà dove e chissà quando, ch’egli legge religiosamente dal titolo fino alla firma del gerente, dando spiegazioni e facendo commenti. Non manca il novellatore a base di laidezze e di scurrilità, non quegli che annaspa colle mani, si torce e s’aiuta per accrescere pregio a qualche fiaba senza fine, restando lì aitante ogni tratto, diluendo questa sua broda in un diluvio di parole, soffocando dalle risa prima di sciorinare qualche banalità che tuo malgrado, ti cava un sonoro sbadiglio.
E i bimbi accosciati, inginocchiati lì tutt’intorno, a bocca aperta, ad orecchi tesi a chiedere: E poi? a pregare che s’abbia a narrar dell’altro, ad assediar di domande: non oseranno andare a letto da soli; che dico! manco metter il naso fuori, tanto sono esterrefatti, dalle apparizioni dei morti, dei tiri delle fate che sciorinano il bucato tra quelle caverne lassù, che, se quando t’hanno aiutato, non sei pronto a ringraziarle, ti buttano giù il carico e fan le grasse risa! capaci financo di prender la culla con entro il bambino e d’andargli a cantar la ninna nanna su d’un dirupo ove nessuno riuscirà mai a salire!
E gli spiriti folletti che, a porte chiuse t’entrano in casa, se ti voglion bene, capacissimi d’ordinarti la casa, di strigliarti il cavallo, di trecciargli la coda; ma guai se li disgusti, te ne fanno d’ogni colore! Seguono le gesta di Pantagruel e Gargantua, di Patit-Poucet che suscitano ovunque risa sbardellate; oppure la storia di S. Genoeffa di Brabante, il miracolo di S. Bernardo che fanciullo si presenta al Re di Francia invitandolo a fare un ponte sul Rodano, dietro ordine ricevuto da Dio. E che a dargliene una prova, t’entra in Avignone con in capo un macigno che dieci buoi non avrebbero smosso e te lo mette a fondamento dell’opera che il diavolo tenta invano di distruggere.
Tutti questi argomenti non paiono avere tra loro gran nesso; tuttavia possono benissimo trattarsi in una sera sola con altri parecchi, specie se entrano in ballo l’orso, il lupo e le loro gesta. Ora viene la volta del cantare: fattesi sollecitare così un poco, per non aver l’aria di non chieder di meglio, le donne danno negli acuti ed eccoti le canzoni dell’Assietta colle tirate contro quei gradassi di Francesi cui il tondo (l’assiette) troppo caldo ha scottato il naso; poi la canzone di Napoleone; poi una compianta d’ingordi genitori che, credendo svaligiare un viandante, uccidono il figlio e muoiono sul patibolo, lasciando una decina di strofe d’ammonimento!
Segue la romanza di S. Oldrado, il quale, uscito a diporto in sul meriggio, s’invaghisce del canto d’un uccellino e gli tien dietro e l’ode trecent’anni che gli parvero poche ore e quando fa per rincasare, nessuno nel convento più lo riconosce. E la leggenda di S. Giusto che fugge dal monastero dell’Abbadia per non cader, come i compagni suoi, vittima dei Saraceni e s’arrampica su d’un larice su nei boschi in quel del Castello e di là vede legioni d’angeli librarsi al cielo, e pentito della sua viltà, spontaneo torna offrirsi al martirio. E la mala finita di quegli che osò portar la scure sacrilega sulla pianta venerata; e tant’altre che cavano le lacrime addirittura.
Non mancano neppure le canzoni goliardiche, quelle scollacciate anzichenò; le maligne che passano in rassegna i nomignoli d’ogni paese ed i difetti dei loro abitanti e qualche nenia in dialetto che prova quanto l’Elicona disti da queste vette!
Così nelle veglie ordinarie, ma il colmo dello spasso si è quando Barnaba reca il libro di ragione, il che vuol dire il manoscritto dei suoi antenati sul quale si contengono i principali avvenimenti di queste valli.
Mentre ne scioglie accuratamente il legaccio della copertina in pelle, la padrona netta il nasello al lume, lo cresce; gli uomini si rizzano, le donne sospendono il filare e s’accostano, i ragazzi si serrano addosso al lettore.1"
Questo è un racconto, come tanti, di una veglia invernale tra i nostri monti, tratto da Arcadia Alpina di Enrico Faure di Sauze d’Oulx2, premiato con la medaglia di bronzo all’esposizione di Rivoli del 1906 e ambientato a metà Ottocento in Alta Valle di Susa. Si tratta di un romanzo scritto su base autobiografica e quindi di una preziosa testimonianza di quell’epoca in cui si stava realizzando l’Unità d’Italia. Unità che ha contribuito a recidere i legami con il territorio transalpino e ad accelerare l’emarginazione delle lingue minoritarie, recisione ed emarginazione già avviate con il Trattato di Utrecht del 1713 che ha segnato il passaggio di una parte del Delfinato, tra cui la Valle della Dora, al Regno di Sicilia poi Regno di Sardegna.
Con la cessione ai Savoia la Valle della Dora, le cui comunità formavano l’Escarton di Oulx, era divenuta parte della Provincia di Susa, mutando nome in Alta Valle di Susa; ne era divenuta periferia, cultura minore, terra di conquista, una terra dove si parlava un’altra lingua rispetto a quella del centro principale, rispetto a quella della capitale, rispetto al resto del Regno. Una lingua, quella occitana, legata alla cultura orale secolare degli abitanti e utilizzata per i rapporti con i fratelli naturali d’Oltralpe, ma che diveniva disutile per i rapporti con i fratelli germani della bassa Valle e del Piemonte. Lo spazio della lingua occitana si restringeva sempre più, rifugiandosi nei confini delle comunità e in ambito famigliare.
La presenza di contingenti di truppe piemontesi al Forte di Exilles, l’arrivo di mercanti dalla pianura e i matrimoni misti accelerano il passaggio dall’occitano al piemontese nel capoluogo del Comune di Exilles. La costruzione della ferrovia e del Traforo del Frejus, e il conseguente sfruttamento delle foreste, porta in valle squadre di operai piemontesi e lombarde favorendo l’uso di quella lingua italiana che ancora non era insegnata nelle scuole, dove il francese continuava a essere la lingua veicolare della cultura “alta” e dove, ancora intorno al 1880, era la lingua in cui si scrivevano le deliberazioni comunali e si compilavano i registri amministrativi.
Lo sviluppo della villeggiatura a fine Ottocento porta in Valle la borghesia cittadina che parla il torinese; Bardonnèche e Cezanne italianizzano i loro nomi in Bardonecchia e Cesana, quest’ultima aggiunge l’aggettivo Torinese per marcarne l’appartenenza. Albergatori e commercianti accolgono subito quella parlata come lingua veicolare dei loro affari e il torinese diviene lingua elegante utile a raffrontarsi con il forestiero. La nascita del turismo invernale agli albori del Novecento e poi il turismo di massa contribuiscono al rapido sviluppo della lingua italiana, ormai appresa a scuola e utilizzata in ogni campo sociale.
Gli anni del Fascismo con il divieto di parlare in “dialetto” a scuola lasciano un profondo segno nella popolazione che inizia a percepire la propria parlata come inferiore, ignorando le avvertenze agli Esercizi di traduzione dai dialetti del Piemonte Torinese, dove Benvenuto Aronne Terracini scrive: «Il maestro tenga sempre ben presente che questi manualetti devono servire non ad insegnare il dialetto che gli scolari conoscono già perfettamente, ma ad insegnare la lingua attraverso di esso»3. La lingua occitana si arrocca sempre più a resistere nelle borgate, insieme a quella cultura contadina ancora trasmessa oralmente, in attesa di una generazione di scrittori consapevoli del pericolo della perdita.
Il racconto di Arcadia Alpina ci fornisce il contesto imprescindibile per la trasmissione orale di quel patrimonio linguistico occitano, di cui l’autore ci elenca l’intero repertorio della produzione popolare: dalle battute salaci, ai racconti favolosi, dalle cronache di viaggio al racconto storico, dalla canzone alla compianta, dalle filastrocche alle ninne nanne. Il romanzo del Faure non è in lingua occitana, in patois4, ma è interessante notare come, secondo questo testo, la produzione in versi intorno alla metà del XIX secolo (canzoni, ballate e complaintes) sia per lo più in lingua francese, mentre i racconti fantastici e le canzoni scollacciate siano in patois, quindi in lingua occitana.
Non dobbiamo però dimenticare che Arcadia Alpina è opera di un contadino erudito che, in seguito alla sua elevazione sociale, vede con altri occhi le tradizioni del proprio paese e che, pur continuando a decantare quel mondo agreste da cui proviene e di cui già sente la nostalgia, considera spesso volgari e primitive le sue abitudini e i suoi riti e ritiene che la composizione in patois provi «quanto l’Elicona disti da queste vette!».
Le Muse che sul Monte Elicona ispirarono Esiodo per la composizione della Teogonia sarebbero dunque, per il Faure, lontane dai nostri monti dove l’espressione in patois non è considerata degna della cultura “alta” che, per l’appunto, attinge al francese o all’italiano.
I misérables che il Faure ci presenta nel suo racconto sono destinati alla sventura, a meno di un riscatto sociale tramite l’istruzione superiore, la carriera militare nelle schiere sabaude o l’emigrazione, prima in Francia e poi verso il Piemonte; tutte cose che egli stesso farà e che implicano la conoscenza o l’apprendimento di nuovi codici e di una lingua diversa da quella materna, un’altra lingua: l’italiano o il francese.
Così il mondo di quell’Arcadia Alpina, il cui veicolo è la parola orale in lingua occitana, ci è descritto in lingua italiana. Per farsi memoria, dunque, quel mondo è condannato alla traduzione, quindi al tradimento5, e alla scrittura da chi, avendo saputo riscattare la propria condizione sociale, prova quella malinconia così tipica dell’uomo che ha perso l’innocenza, di quell’uomo che ha peccato mangiando la mela e che ha avuto la disgrazia di accedere alla conoscenza, a una conoscenza altra.
commenta