Certamente non basteranno né questo numero de R NI D'AIGURA né molti altri per rispondere esaurientemente alle stimolanti idee del Prof.Werner Forner, il quale - nel precedente numero della nostra rivista - ha dedicato un articolo al problema della classificazione della lingua brigasca. Forner mette il dito nella piaga, nel senso che affronta per la prima volta di petto il problema centrale della ricerca nell'area brigasca, che è appunto la collocazione della lingua.
Ritengo arduo rispondere già adesso in modo globale e risolutivo, per prima ragione perchè se egli ha prospettato determinate ipotesi sicuramente esse sono basate su una seria preparazione e su un altrettanto serio ripensamento; per seconda ragione perché riteniamo che la nostra ricerca debba ancora essere completata da ulteriori raccolte di dati. Pertanto, mi limito ad alcune osservazioni analitiche delle sue proposte.
Ricordiamo che l'ipotesi di Forner è di considerare il Brigasco come il dialetto più significativo di una supposta lingua roiasca, formazione autonoma nell'ambito delle lingue neolatine, apparentata alle sue origini col ligure.
1)La caccia alle parole -come dice Forner- non è così lontana dalla sua realizzazione: la nostra conoscenza attuale del lessico degli otto punti brigaschi è assai avanzata; più avanzata per esempio di quella fornita dai due volumi finora usciti dell'ALP(Atlas linguistique et ethnographique de Provence) e ciò perché i ricercatori della VASTERA si sono dedicati a tutti i punti dell'area, il che dà la possibilità di conoscere un lessico che è già comparativo entro l'area brigasca: tale lessico forzatamente non è stato considerato nell'articolo sotto esame, perché non abbiamo ancora avuto la possibilità di pubblicarlo.
Come dice Forner, che le parole siano poco stabili e "viaggino" molto è cosa indubitabile: questo è soprattutto il caso di parole singole: più difficile che un'intera categoria di parole, riguardanti un medesimo argomento non passi da una lingua all'altra se vi passano tutta una serie di tratti culturali. Non si tratta solo della intrusione di parole, come nell'esempio del gias (= strame) ma di un fenomeno anche etnologico che presuppone la diffusione o lo spostamento di popolazioni: nel caso in parola, l'esistenza di linguaggi tecnologici così importanti come quello della pastorizia ovina, comuni all'area occitana e a quella brigasca, non può essere pensata come un semplice "viaggio" di parole ma deve necessariamente sottintendere un valore maggiore, cioè la transculturazione o la comunanza di tutto un complesso culturale. Mi accorgo di aver dato una risposta più etnologica che linguistica, o meglio non solo linguistica, ma i due aspetti sono inscindibili anche se possono essere studiati separatamente.
Gli esempi fatti dal Forner dell'inglese del turco (e aggiungerei del romeno) sono pertinenti, ma si deve osservare che, ad onta della rispettiva collocazione di tali lingue nell'area germanica, in quella uralo-altaica e in quella neolatina, esse vi sono estremamente marginali, non abbastanza significative dell'area stesse; comunque largamente influenzate -non solo nel lessico - ma nel valore semantico del lessico dal franco-normanno e dal latino, dall'arabo e dalle lingue slave, e quindi con un forte dubbio, non sulla loro collocazione, ma sul valore della stessa. In ogni caso, l'esempio dei Romeni serve per osservare che essi, pur catalogati come Neolatini nonostante la determinante componente slava del lessico non sono etnologicamente certo simili ai Francesi, agli Italiani, agli Spagnoli, ma appartengono certamente alla cultura danubiano-balcanica insieme con gli Jugoslavi, i Magiari, i Bulgari, i Greci. Se il lessico brigasco risulta prevalentemente occitano - dice Forner - ciò non basta per acquisirlo all'area occitana, mentre molti fenomeni lo riavvicinano al Ligure. A maggior ragione, i Brigaschi possono essere culturalmente occitani, poiché possiedono oltre agli elementi etnologici, anche quell'importante elemento linguistico che è il lessico, anche se non lo debba considerare determinante.
Il Prof.Forner accenna giustamente a un altro fatto: l'ampia estensione delle isoglosse (parole appartenenti a lingue diverse ma con le stesse radici) disturba il lavoro di comparazione del Brigasco con le lingue vicine: nel nostro lavoro cerchiamo soprattutto quelle parole che non appaiono nè liguri nè occitane né piemontesi, e di riservare la nostra attenzione specialmente ad esse. Lavoro oltremodo difficile e che
richiederebbe la possibilità di consultare dizionari di tutto l'arco delle Alpi Occidentali, sia sul versante ligure che su quello piemontese o su quello francese: i punti totalmente noti sono invece limitati.
Per intanto, abbiamo il Vocabolario delle Parlate Liguri (V.P.L.), il cui primo volume (dalla lettera A alla C) è uscito recentemente, ci consente di verificare i lemmi che non appaiono nel volume, cioè che, con
buona approssimazione non sono liguri: il VPL riporta le parole di 51 punti sparsi in tutta la Liguria: è possibile, ma non probabile, che taluni lemmi siano sfuggiti: la distribuzione dei 51 punti é tale che si può sperare che ciò sia avvenuto molto limitatamente.
Ciò premesso, elenchiamo a titolo di campione alcune parole brigasche importanti che non hanno corrispondente lessicale nel V.P.L.:
asciübiàa: dimenticare;
abuàa: spingere;
abeuragi: abbeveratoio;
andruglie: vestiti vecchi;
avërāğ: proprietà, potere;
apanuì: assopirsi;
apaìi: sopportare;
antréne, ëntréne: trecce;
arpatàa: selezionare, suddividere;
aždarsé: accorgersi (UP);
babi: rospo;
badè: fagotto;
baešcàa: fare del "bricolage";
bagiàina: poiana (zool.);
bardascia: gruppo di ragazze (UP);
bŕüšch: arnia;
cabulàa: riflettere, pensare (CG);
canàura: collare del bestiame;
caragnàa: essere in rapporti amorosi;
ciàuca: zampa;
cuciàa: spingere;
créciura: castagna malcotta;
cüchèla: gruppo di covoni di cereali;
cŕüsi: cruccio;
2)La fonetica e la fonologia sono molto vicine al Ligure in diversi fenomeni e giustamente lo rileva Forner; ma
esistono fenomeni di altrettanto rilevante importanza che liguri non sono: valga per tutti la metafonèsi o cambiamento dell'ultima vocale delle parole maschili, nel passaggio dal singolare al plurale.
Il cambiamento avviene secondo il seguente schema rigido:
-
-è larga diventa é stretta, e si inserisce generalmente una l eufonica:
vièe (vitello) fa viéli
cutèe (coltello) fa cutéli
ganavèe (barbagianni) fa ganavéli
-
-é stretta diventa i:
fantét (bambino) diventa fantiti
védr (vetro) diventa vidri
cumplimént (complimento) fa cumpliminti
vée (vero) fa al plurale viri:
ŕ vér om (il vero uomo), i viri omu (i veri uomini)
Ci sono eccezioni importanti, che fanno sì che il plurale maschile
venga trattato in brigasco secondo dodici o tredici modi diversi.
-o diventa ö (eu francese o piemont.)
aŕmòul (Salix incana): diventa: armöuli
tros (pezzo) diventa trösi
acòŕd (accordo) diventa acöŕdi
-u diventa ü (u francese):
rëcampùm (raccogliticcio): rëcampümi
giuc (trespolo): giüchi
tuv (varietà di lavanda): tüvi
Ritorneremo ampiamente sul plurale dei nomi maschili, con una trattazione generale.
3)Ancora alcune considerazioni sul valore del lessico. Che oggi a Briga si senta sovente dire e vagh ën rëtréta, per dire "vado in pensione" non significa nulla poiché è chiara le recente intrusione francese, così come ënvëlòpa per busta. Quello che trovo significativo sono le parole relative a fatti culturali fondamentali: terreno, famiglia, tempo, pastorizia, agricoltura. Ad esempio, nell'area brigasca è comune a tutti il nome di nonno inteso come corrispondente a "padre vecchio" (paivégl a Realdo, peivéy a Briga, piivéy a Viozène...): ebbene, tutta la grande area liguro-piemontese occitana preferisce il concetto di "padre grande". Finora abbiamo trovato solo nell'Alta Val Varaita, a Blins, il concetto di "padre vecchio". E sappiamo che Blins ha un popolamento relativamente recente proveniente dall'area provenzale o franco-provenzale. Le convergenze tra Bellino e la Terra Brigasca non si fermano qui e dovranno essere oggetto di uno studio comparativo più ampio.
4)Una recente scoperta bibliografica aggiunge un piccolo tassello al mosaico dell'ipotesi occitanica: nel volume "SAGGIO DI TOPONOMASTICA ORMEESE" del p. Ignazio G.Pelazza, reso pubblico il 5 aprile 1986, e di cui diremo in altra parte della rivista, si cita un passo dell'autore D.Bassi. Questi, nella sua "Guida di Ormea" (1896) scriveva a pag.56 che:"il dialetto viozenese è spiccatamente un provenzale guasto".
Al Bassi non sembra si debba attribuire troppo valore scientifico; peraltro le sue parole sono una sicura testimonianza dell'opinione esistente al suo tempo (in loco o in ambienti culturali) che il dialetto di Viozène - il più marginale e ligurizzato rispetto all'asse conservativo Realdo-Upega- fosse di pertinenza provenzale. Questa testimonianza arriva due anni prima del dizionario del Garnier (1898).
A ciò va aggiunta un'importante notazione rilevata da tutti i nostri ricercatori: è opinione comune degli anziani che il dialetto "sia cambiato" a un certo momento. Il processo di cambiamento è da collocarsi, risalendo secondo i ricordi degli informatori, tra il 1860 -anno dell'Unità d'Italia, del passaggio della Contea di Nizza alla Francia- e la fine del XIX sec. Il periodo è quello dell'espansione delle comunicazioni, dell'inizio dell'istruzione scolastica obbligatoria in Italia, e quindi il cambiamento non può essere avvenuto che in direzione della lingua italiana. Se dunque alla fine del secolo vi era già nozione che il Brigasco fosse un "provenzale guasto" risalendo nel tempo, questa concezione dovrebbe risultare rafforzata.
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