Durante la primavera 2017 la professoressa Monica Longobardi inseriva nel suo corso di Filologia Romanza un convegno dedicato alla letteratura contemporanea in lingua occitana. Era il mio secondo anno di studi a Ferrara e in quei giorni non immaginavo che ne avrei fatto il mio lavoro di tesi triennale; eppure avrei potuto sospettare che il mio interesse per le parole vive di quella lingua longeva non si sarebbe arrestato lì.
Esattamente un anno dopo, infatti, scoprivo Çò-ditz la Pès-Nuts (Così dice la Piedi-Nudi) di Joan Ganhaire (1941-) e stabilivo che quelle parole le avrei viste proprio da vicino, come solo si può fare quando si traduce. L’opera racchiudeva qualche frammento del meraviglioso universo dei racconti popolari, totem di culture locali recondite, quasi ignote al di fuori dei loro territori. Un mondo che forse proprio per questo sposa meglio di qualsiasi altra materia la causa di una lingua minoritaria come l’occitano; e che in tal modo ha affascinato una studentessa di Lettere con la passione per le lingue, cresciuta in una campagna densa di aneddoti che le rendeva in qualche modo familiare il panorama di quei racconti limosini.
Il lavoro di tesi si è aperto, quindi, tratteggiando figura e opere dello scrittore, variamente attivo nel promuovere l’uso della lingua occitana. Nella sua produzione, ed in special modo in Çò-ditz la Pès-Nuts, l’autore mostra di collocarsi in linea con la valorizzazione della cultura pagana e animista comune anche ad altri scrittori e poeti dell’area limosina.
Nello specifico di quest’opera, della quale ho avuto modo di analizzare il sapiente intreccio, Ganhaire ha raccolto cinque favole nere del suo Périgord vert: tratte da vicende realmente accadute, si legano a tradizioni e credenze locali acquisendo così un’aura di misticismo. Le cinque storie toccano la condanna sociale e personale della licantropia (Lo conte dau sartre e dau lop), il mistero di gravidanze senza padre e con il dubbio perfino della madre (Lo Pestor e lo Nenet), la mistica ambiguità di uno stufato di lepre (Lo darrier cebier), la macabra scomparsa di una nonna ad opera dei suoi nipoti (La Mamet despareguda), il dramma dell’incesto e di una madre suicida (L’encrosat viu).
Tutto attorno ai racconti, narrati dalla Lepre Piedi-Nudi, si srotolano le vicende del personaggio principale, un uomo tacciato di qualcosa di sinistro, che conduce un’esistenza solitaria e ignora i motivi di questa maledizione. Sarà proprio la Lepre a condurlo passo dopo passo alla risoluzione del mistero sulla sua identità, disseminando la sua narrazione di indizi significativi. L’opera si contraddistingue pertanto per essere un viaggio interiore dalle sfumature fantastiche, ma anche giallistiche. La brillante penna di Joan Ganhaire attraversa humour nero e macabro, nel tracciare il suo peculiare sentiero verso l’affermazione delle potenzialità della lingua occitana.
È proprio per mettere in luce le qualità di quest’ultima che una parte della tesi è dedicata alla traduzione di uno dei racconti dell’opera, Lo darrier cebier (L’ultimo stufato), e al confronto tra occitano e francese. La storia ci porta tra gli odori e i sapori invitanti della cucina di una signora di nome Gianna. Instancabile cuoca di un delizioso stufato di lepre, riesce a prepararne un ultimo proprio mentre sta morendo di infarto. La venerazione che circonda sempre i suoi stufati ora incontra il lutto, enfatizzando i parallelismi tra sacro e profano: il pasto, lenta comunion, si fa simile all’Ultima Cena, e la straordinaria pietanza si presta più che mai ai rimandi al Santo Graal medievale.
La variante limosina dell’occitano utilizzata da Ganhaire rivela tutta la sua vitalità nella produzione dell’autore, ed in quest’opera nello specifico si mostra al lettore come vero veicolo di cultura; un veicolo che ne è anche, naturalmente, parte essenziale e imprescindibile, e che in quanto tale va tutelato dal suo graduale scivolamento in disuso. Questo l’intento, fin finala, anche di un modesto lavoro come la presente tesi triennale.
Il mio sentito e dovuto ringraziamento va ad Ines Cavalcanti per aver permesso la pubblicazione del mio lavoro su una piattaforma tanto importante come quella della Chambra d’òc, e nuovamente alla professoressa Longobardi per averla proposta, nonché allo scrittore Joan Ganhaire stesso per le cortesi precisazioni in merito all’opera.
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