Se non fosse poeta, romanziere e autore teatrale, si potrebbe definire Robert Lafont (Nîmes 1923-Firenze 2009) la testa pensante del movimento occitanico (di cui è per anni il perno: segretario generale dell’I.E.O. dal 1950 al 1958, presidente dal 1958 al 1962, fondatore delle riviste ‘Viure’, ‘Dire’, ‘Lengas’, ‘Amiras’, ‘Revista Occitana’), e lo studioso più importante della cultura d’oc. Nella sua bibliografia (un centinaio di volumi e forse un migliaio di articoli), spartita fra creazione letteraria, riflessione storico-politica, ricerca scientifica (linguistica e letteratura, che ha insegnato all’Università di Montpellier), i libri nascono gli uni dagli altri, intersecando i confini dei generi, tanto che la figura dello studioso obnubila talvolta quella dello scrittore, uno dei maggiori del XX secolo. Allevato dai nonni che conoscevano il francese ma fra loro parlavano unicamente in provenzale, Lafont esordisce nel 1946 con Paraulas au vièlh silenci (Parole al vecchio silenzio), cui segue nel 1957 Dire (poesie redatte dal 1945 al 1953, più tardi musicate da Jean-Marie Carlotti): la raccolta, scandita in tre momenti (Dire l’amore le cose, Flauto cupo innamorato, Dire l’uomo il secolo), dov’è ancora evidente l’euforia sensuale di marca surrealista, testimonia l’evoluzione del poeta, fra la nostalgia di una patria non tanto geografica quanto interiore e la proiezione in un futuro dove il più oggettivo lavoro di costruzione per la causa d’oc raggiunga la più irrazionale passione umana. Dopo Aire liure (Aria libera,1974), che riprende in parte Dire incorporando altri testi, la poesia di Lafont si fa gesta, mentre la costrizione tecnica, formale e strutturale, apre nuove vie alla tematica. Il poema Lausa per un soleu mòrt e reviudat (Lauda per un sole morto e resuscitato, 1984) affresca in tre tempi – la battaglia di Poitiers (732), l’incoronazione di Federico I ad Arles (1176), la presa di Granada (1492) – e in metri diversi, in gran parte rimati, l’epopea speculare di un Medioevo dove si fronteggiano Cristiani e Mori. Tre sono anche le sezioni (Dèi, Uomini, Spazi) del largo poema pure in rima La gacha a la cisterna (La scolta alla cisterna, 1998; trad. ingl. The Watcher at the Cistern, 2014), sorta di ‘leggenda dei secoli’ d’ispirazione cosmica. L’attività poetica di Lafont si chiude con le liriche di Cosmographia monspellunanensis (Cosmografia di Montpellier, 2000) e con Lo viatge grand de l’Ulisses d’Itaca, 2004, traduzione in versi dei libri dell’Odissea relativi alle peregrinazioni di Ulisse (il volume postumo Poèmas,1943-1984, 2011, raccoglie la sua produzione fino alla Lausa). Il suo teatro comprende una dozzina di pièces fra cui si segnalano Dòm Esquichòte (1973), Lei cascaveus (I sonagli, 1977), La croisade (rievocazione della crociata albigese,1983), più volte rappresentate. Fondamentale la sua opera narrativa: venticinque titoli, fra romanzi, racconti e scritti di testimonianza. L’esordio, con Vida de Joan Larsinhac (1951), segna una tappa imprescindibile nella prosa d’oc, narrando in una lingua sobria le inquietudini di un giovane studente nel clima incerto dell’ultima guerra, e pertanto opponendosi alla narrativa folclorica di tradizione felibristica. Via via maturando (Lei camins de la saba, I sentieri della linfa, 1965; Lei maires d’anguilas, I ditischi, 1966; L’icòna dins l’iscla, L’icona nell’isola, 1971), la scrittura di Lafont in certo modo esplode, sperimentando nuove forme narrative e linguistiche, nel grande romanzo La fèsta che attraversa i secoli e l’Europa (1983, due volumi: Lo cavalier de Març [Il cavaliere di Mars], Lo libre de Joan [Il libro di Jean], a cui un terzo, Finisègle [Finesecolo], si aggiunge nel 1996). I temi dell’eroismo (problematico, ambiguo), delle rivoluzioni tradite, della morte (dell’uomo, delle civiltà, della lingua) ricorrono ancora in Bertomieu (1986, monologo dell’apostolo Bartolomeo), Insularas (1996, Insulari), L’eròi talhat (2001, L’eroe tagliato, che si duplica nell’eretico Vanini e in Enrico II di Montmorency, ribelle al potere del re). Ma Lafont possiede anche una vena filosofico-umoristica alla Voltaire, da cui nascono, ad esempio, Contes libertins e faulas amorosas (Racconti libertini e favole amorose, 2000), Lo fieu de l’uòu (Il figlio dell’uovo, 2001) e i deliziosi Miraus infidèus (Specchi infedeli, 2002).
COSMOGONIA INGENUA
IV
Proverbio
Sul sentiero dei desideri
vanno i nostri giorni scalzi
tizzi di fuoco nelle impronte
le mani vuote di speranza.
Ma se il tuo sogno si è posato
su una tenera sera di donna
il cielo s’indora del ricordo
vanno i tuoi giorni con le mani piene.
Un albero sorveglia sopra il monte
la ronda spenta delle ore
che di tanto in tanto ritorna
e accende una brace nella notte.
LA LINGUA D’OC
I
Dire è il solo potere.
Dire dolce: un ragno
pettina il sole
sul ponte dell’alba.
Dire duro: la montagna
è un frutto amaro
che allega le sorgenti.
Dire largo: il mare
ha posato le mani
sulle spalle del mondo.
Dire amico: il vetrice.
La mia lingua mi sta davanti
nuda come una fanciulla.
UOMINI DI OGNI RAZZA
III
La luna vestita di pioggia
posa i piedi sulla strada.
Passano uomini di fuoco magro
fuggiti dal vuoto del porto.
Passa la notte passa l’annata
passano uomini di pietra liscia
che leggono sui muri
storie di sesso e di guerra.
Ho visto gente di ogni razza
quel marinaio era egiziano...
Hanno strade nelle vene
il loro paese è morto per assalto.
Un arcangelo in cielo divide
la luna in scaglie di dolore.
Dio rendici la poesia.
(Dire, I.E.O. 1957, poi in Poèmas 1943-1984, Jorn 2011)
FANTASMA SENZA CASA
Mica è vita quella d’un fantasma. Non so se mi capite. Quando dico vita potrei dire eternità. Passato il passo della morte, noialtri abbiamo l’eternità da vivere. Figuratevi che tirata! Ma non ve la figurate l’eternità, non potete immaginarvi... E poi non mi capite perché non mi sentite. Con i fantasmi, avete solo alcuni mezzi di comunicazione grossolani che voialtri avete stabilito, non noi: i colpi d’un tavolo, l’ululato del vento nei corridoi, le luci lattiginose degli ectoplasmi, un rumore di catene. Se vogliamo segnalare la nostra presenza ci tocca strascinar catene: grottesco. Se non ci vestiamo di lenzuoli, per dar consistenza a quel che chiamate un fantasma, restiamo trasparenti e voi ci attraversate, su e giù, come fossimo aria.
Come potreste comprendere la nostra eternità esistenziale? Adopero le vostre parole più sottili: proprio così, esistenziale. Non è l’eternità immobile di Dio, ma un’illimitazione della durata. Non siamo il buon Dio. Del resto non l’abbiamo mai incontrato il buon Dio, in quello che chiamate l’aldilà. Devono esserci molte stanze nella casa del Signore, e probabilmente ci ha alloggiati nell’ala dove non mette mai il naso. A volte ci domandiamo se non l’avete inventato voi, appunto per riempire l’aldilà. L’uomo riempie sempre tutto. L’uomo ha orrore del vuoto. Per questo si è fabbricata un’immagine piena e rotonda dell’essere infinito.
La nostra esperienza dell’universo non corrisponde alla vostra. Non ho bisogno di molte parole per comunicarvela. Per esempio, non avete un’idea della visuale obliqua. Un fantasma, quando guarda dritto davanti a sé, vede come voi, e non vede niente che voi non vediate [...] Ma in più un fantasma ha il potere di voltar la testa e guardare sia a destra che a sinistra. Facendo questo movimento, fino ad avere il mento sull’una o sull’altra spalla, vediamo aprirsi, come direste voi, delle grandi fenditure una dopo l’altra, e in ognuna un’infinità di mondi aboliti o ancor da venire con tutti i loro abitanti. È questa la nostra eternità esistenziale: il tempo che fende lo spazio, appena il nostro sguardo non è più fisso dritto davanti a noi [...] La testa d’un fantasma... gli prende il capogiro come a un vivo, soltanto non è una vertigine di spazio, ma una vertigine del tempo che gli pesa addosso. Per questo dico che la nostra vita ha un bell’essere eterna, ma non è vita. Siamo presi fra la paura degli umani che ci attraversano e ci bucano, e i buchi del tempo che ci assediano da ogni parte. Non potete sapere. Bisogna esser morti per sapere cos’è l’insicurezza.
La sicurezza, la troviamo un po’ nelle case, quelle case dove ci si sente, come dite voi. Mi hanno raccontato che alcuni vostri sapientoni hanno fatto molti studi su questi fenomeni [...] L’essenziale è che gli umani, nella loro paura verde dell’aldilà, non hanno mai potuto indovinare questa verità semplicissima: se i fantasmi si affezionano a una casa è perché ci si sentono meglio che fuori, ci si sentono al coperto. Come voi vi sentite al coperto dalla pioggia.
Le case dove vanno i fantasmi sono quelle che hanno mura opache. Cercherò di spiegarmi. È successo molte volte che la mescolanza di cemento e di pietra con cui costruite i muri, come per miracolo si rivelasse intraversabile dal tempo. Voi parlate di solidità, d’indistruttibilità. Noi sappiamo...Sappiamo che la parete ferma il tempo. Dunque se siamo fra delle pareti possiamo voltarci a destra e a sinistra senza che ci prenda la paura del vuoto. La fenditura (a pensarci bene è normale) si produce solo nel momento in cui attraversiamo il muro, in cui siamo fra una superficie e l’altra.
Allora quando un fantasma ha trovato un edificio fatto in modo da bloccare il tempo, potete star sicuri che ne approfitta, e se è un bravo fantasma, ne fa approfittare i compagni. È la vita in comune che comincia... Ridere, ballare, amare..., insomma fantaridere, fantaballare, fantamare, quel che può fare un fantasma, si può sapere. Cerchiamo soltanto di proteggere la nostra tranquillità nei confronti dei vivi. Con qualche sibilo e qualche sferragliar di catene quando scocca mezzanotte, per lo più siamo a posto. Baubau! e l’uomo se la fa addosso. Così siamo a casa nostra, lì dove dite che siamo a casa nostra: avete fatto disegni e mappe dei castelli, dei palazzi, delle case dove succedono fenomeni soprannaturali.
E noi, i fenomeni, viviamo in pace. Ma non viviamo comodi. Di case opache non ce ne sono poi tante. Certo, abbiamo i monumenti romani. Il famoso cemento romano, di cui nessuno ha più trovato il segreto, era una meraviglia di opacità, specie nell’opus minutum. Ci si sente avviluppati di sicurezza, come un feto nel ventre della madre. Ma i romani, dopo morti, se ne accorsero subito, e i vari Caio e Marco si rifugiano qui, rannicchiati insieme a tutti i Cesari accoltellati e alle Agrippine avvelenate. Loro, i loro clienti, i liberti, gli schiavi, tutti quanti stipati in quel che resta dei monumenti della grandezza romana; e non avanza molto posto per i più giovani.
Il modo di costruire del Medioevo segnò, dal nostro punto di vista, una decadenza, ma succedeva ancora spesso che la torre d’un castello, una cantina a volta, una sala d’armi o una scala a chiocciola fossero fatte d’una materia non troppo trasparente. E qui, ve ne siete accorti, c’è una sovrapopolazione di fantasmi. Per entrarci, è un pigia-pigia.
Dopo il Medioevo, la catastrofe: finestre sempre più grandi dove l’eternità irrompe e sprizza con ogni raggio di sole, muri sempre meno spessi, sale alte dove il cielo trabocca. Per noi sono luoghi di dolore sempiterno. Dobbiamo camminare in linea retta, dritto davanti al naso, come una prua, o come chi avesse il torcicollo, altrimenti lo sguardo e il pensiero precipitano nelle fenditure. Perdiamo la bussola. E un fantasma scombussolato non è più buono a niente. Non è un vantaggio per nessuno.
Ma qualche volta... qualche volta c’è un muratore che non sa quel che fa, una calce venuta non si sa da dove, delle pietre prese da una buona cava, e ti costruiscono una casa... gemütlich, come dicono i fantasmi tedeschi sempre più numerosi da quando l’Europa facoltosa si ritira a passar la vecchiaia sulla costa provenzale. Gemütlich, se capisco bene, è proprio il contrario di quelle case che van di moda adesso, costruite di vetro e d’acciaio [...]
Gemütlich, così mi disse quel fantasma che incontrai circa un mese fa, una bella notte di luna, sulla strada fra La Seyne e Six-Fours. Aveva trovato un alloggio coi fiocchi, una casa di quattro stanze, due a terreno, due al primo piano. La porta e le quattro finestre incorniciate di stucchi, fiori, rami, cavolfiori; arabeschi e volute su tutta la facciata. Qualcosa di deliziosamente rococò. Ai fantasmi piace l’arte barocca, soprattutto le sue inflessioni decadenti. E anche dentro, una festa di stuccature. Probabilmente era tutto quello stucco, dentro e fuori, che formava una protezione [...]
Con Gemütlich (era il nome che avevo dato al mio compagno) preparammo nella casa degli stucchi e degli arabeschi la notte che ora dirò. E poiché siamo sempre bonaccioni e cordiali, noi fantasmi, invitammo gli amici [...]
I nostri gusti erano per la festa. O la fantafesta. Facevamo finta di ballare. Ridevamo a crepapelle, la fantapelle che abbiamo. La gioia arrivò al colmo quando Gemütlich si accorse che in quella casa disabitata non avevano tolto la luce. Girò l’interruttore e la stanza fu inondata da una luce brillante, zampillata come un getto d’acqua da un lampadario di cristallo falso.
Quello scoppio di gioia fu la nostra rovina. Dalla strada dovettero vedere le finestre illuminate. Una macchina si fermò. Un uomo venne a origliare alla porta, puntò l’occhio a una fessura fra due tavole sconnesse. La paura lo prese. Sentimmo il suo urlo di spavento e poi il rombo del motore, una fuga precipitosa. Da quel momento ci sapemmo perduti: sarebbero venuti degli studiosi, i ‘nostri’ specialisti. Avrebbero messo dei fili di seta attraverso le stanze, per scoprire il nostro passaggio, e forse delle cellule fotoelettriche per captare le nostre forme di ectoplasmi evanescenti. I più coraggiosi sarebbero venuti a passar qui la notte, protetti da scudi contro le famose proiezioni di oggetti.
Ma no, quel che è successo è qualcosa di più. Non molto scientifico. Un bulldozer ci ha distrutto la casa [...] Per noi, ora, è un luogo di deserto e di vertigine.
Nella vertigine, sul deserto, arrivò un altro uomo. Aveva in mano carte e progetti. Guardai al di sopra della sua spalla, confondendomi al turbinìo della polvere. Vidi il disegno d’una casa tutta finestre. Solo finestre fra linee metalliche. Ma dietro di me c’era qualcun’altro che guardava. Un uomo e una donna, lui con un cappelluccio in cima alla cocuzza, lei tutta tonda e popputa. Sapete cosa dissero insieme guardando il progetto? Sehr gemütlich! Da non credere... Di questo passo, presto il mondo sarà pieno di fantasmi senza casa. Per l’eternità. Dicevo che la nostra non è vita. Però finora non era un inferno. Ora comincia l’inferno. Il gorgo del tempo che ci risucchia a ogni secondo che passa. A destra, a sinistra. Le fenditure una dopo l’altra come quando si sfoglia un libro. Ogni fenditura senza fine. Non c’è un posto abitabile.
(La primiera persona, Fédérop 1978; ragioni di spazio ci hanno costretto ad alcuni tagli)
PREGHIERA NEL NITRIRE DEI CAVALLI
Dio. Chi è Dio all’alba?
Dio d’Abramo Dio di Maometto Dio nostro
è vero che il tuo feudo è nelle nostre tende
quando la luce al mattino scolpisce salmodie
e che ti avremo assoggettato tante terre
solo per piantarvi il profumo dei datteri
fino a questo suolo dove battiamo il tuo grano
e sull’orlo il terreno si solleva
prima d’inabissarsi nel mistero?
Dio hai forse il tuo nord dietro le sierre
sempre oltre la nostra avanzata?
Dio filo di spada a tagliamondo
hai forse il tuo settentrione
un Dio inverso annunciato dal dubbio e dal gelo?
Nel barbaglio del sole vedo il mio Dio in nero.
O forse sei Dio come un asse
che piomba scritto nel cuore attento del Profeta?
Legge verticale sul fronte d’Oriente
portata in processione di saccheggi e di stragi
fino al mare occidentale dei mostri verdi.
Dio decifrato come raggio fra nuvole
in lontananze squassate da tempeste
Dio sigillato di parola missiva
sulle difformità dei popoli
Dio di Qurait senza dialetti né dialoghi
Allah l’alba spunta Allah
i nostri stalloni libici nitriscono alla luce
del volto sorgente dell’Uno.
Bisogna credere credere che non hai altro volto
mio Dio, che non ti salutano altri cavalli
su un versante sconosciuto.
Dio che sei solo in te accoglimi nella tua solitudine
straziami lo spirito e la carne
abbagliami di conoscenza
disperdi la cenere delle ombre
Dio fulminante occhio terribile del giorno.
(Lausa per un soleu mòrt e reviudat, Jorn 1984, poi in Poèmas 1943-1984, ivi 2011)
BARTOLOMEO
Tutta la notte il vento fece battere la pelle gelata contro il tronco del rovere. Ogni raffica scatenava il tambureggiare, che rallentava e si attutiva appena prima di riprendere forza con una folata. Quel batti-batti mi rammentava altre notti nelle montagne del più lontano Oriente: laggiù si attaccano al collo dei montoni e dei becchi dei grandi sonagli intagliati, sicché d’estate i pastori non possono dormire se non misurando all’ascolto la profondità di valli e le distese di pascoli. Ma ora non siamo d’estate, e l’Aracosia è lontana tutta una vita di erranza. Se penso all’Asia è per immaginare il vento che viene dai confini dell’India e galoppa senza riprender fiato su altipiani e tavolieri sassosi, passa città e satrapìe, scala serre e salta creste, sale alto sopra Susa e Babilonia, infila un corridoio d’Assiria per venire proprio qui a battere il tempo alla porta della tana dove mi rannicchiavo. Tutta la notte mi sono acquattato, incollato al mio cantuccio come un ricino magro nella crepa d’un muro. L’Asia soffiava la sua immensità rasente il povero vecchio che mi sentivo diventato, un briccico di carne tremolante, tre gocce di sangue dimenticate dal cielo e dalla terra. Dimenticato, Maestro, certo che lo sono. E non è la prima volta. Saranno ormai quarant’anni che per servirti fui spinto sulle strade e i sentieri di questo gran mondo che ora mi rimbomba nella schiena. La solitudine, l’ho conosciuta così amara e disperata come non l’avevo prevista. Senza frontiere, limiti o termini d’orizzonte. La solitudine grande come l’Asia, e io piccolo, una bestiola sudicia, vile e sofferente: questo il confronto a cui mi condannò il servirti su tutta la terra dei Parti e più lontano, ché delle province che ho visto, la mia memoria bucata ne ha smarrito i nomi nelle avventure del viaggio. Non posso testimoniare più nulla nel tuo nome, Maestro. Il freddo e la stanchezza mi hanno intirizzito la cognizione degli uomini e dei luoghi. Il vento mi ha asciugato lo spirito come si secca un torrente e mi ha congelato il comprendonio. So soltanto che ho ripercorso tanti paesi quanti ne avevo passati, e ora mi trovo nel freddo terribile dell’alba nascente, sulla soglia d’una capanna, con l’aria che mi taglia la faccia, mentre questa pelle di pecora continua a sbattere contro l’albero a cui è appesa, rigida, impietrata.
Quella gran montagna lassù che da grigia diventa gelo e cristallo, dicono che Noé ci arenò l’Arca. Qui siamo dunque nel luogo del perdono. Come crederci? L’Asia è investita da un’ondata di galaverna, ma là in alto c’è ancora più neve e ghiaccio. Il monte della salvezza è più feroce del diluvio. Oggi né bestia né uomo passerebbe il limite di quell’altitudine.
La bestia era ancora viva. Una pecora che ha una gamba rotta dalla frana di un masso non muore per questo. Ma d’inverno, su questa grande pianura, un essere che barcolla e zoppica ti dà l’idea della morte già presente. Guardavo contro il tramonto rosso la povera pecorella che vacillava e si fermava allungando il collo per belare il dolore e l’angoscia. Il gregge, lo avevano chiuso nell’ovile a scaldarsi pigiato. Quella l’avevano lasciata fuori, il pastore e il pastorello. E ora tornavano. L’uomo aveva preso il coltellaccio. Una bestia ferita è sempre buona a dare carne e pelle.
Vidi da lontano il ragazzo agguantare una zampa, quella rotta o un’altra, non lo distinsi. La pecora cadde. Il pastore in ginocchio con una mano premeva il muso contro le pietre, con l’altra tagliava la gola. Potevo indovinare il rosso che spicciava. Mi feci avanti per una curiosità irragionevole. Abbastanza per vedere lo sgozzamento, il taglio del coltellaccio che separava la pelle dalla ventraia con abili colpi di punta. Forse avevo in mente di prenderne un po’ di calore. La sacca bianca delle budella fumava. Metteva un tepore di vita nell’aria cruda. Di tepore ce ne fu ancora di più, con il fetore, quando la lama incise l’involucro delle interiora.
Ma il pastore con destrezza aveva già rovesciato la bestia. Il più difficile è levare la pelle della schiena lungo la spina dorsale senza bucarla da nessuna parte. Quante volte l’aveva fatto, il pastore? Aiutato dal ragazzino se la cavò alla svelta. Non era ancora buio e aveva già appeso quella grande cosa lanosa e chiara ai rami del rovere, facendo due fori nella pelle delle gambe. Tirate, le gambe. Si stavano congelando immediatamente. La pelle intera oscillava scricchiolando già come fosse un’asse. Credo che il pastore mi guardasse abbozzando un sorriso. Che altro potevamo fare ? Non ci capiamo, ognuno la sua parlata. E non penso che lui sapesse meglio di me la lingua di questo paese di Haik. Lo stesso il ragazzo. Gli schiavi, qui come altrove, sono bestie migranti da un mercato all’altro, da un padrone all’altro. Mi pareva che questo avesse la pelle scura e gli occhi lucenti degli Indiani che avevo visto. Deve conoscere l’Asia come me.
Al mattino, né lui né il ragazzo sono ancora usciti dall’ovile. Hanno dormito sul letame, fra le pecore. Per questo non mi hanno invitato. Mi hanno lasciato nella tana, protetto da una porta sfondata. Ma almeno con un vello per coprirmi. Per tutta la durata della notte, mi facevo agnello nella lana mentre la pelle grande della bestia spogliata batteva al soffio del deserto.
(Bertomieu, Fédérop 1986, incipit)
JANET
Più Janet si avvicinava ai sei anni, più pensava che era un destino crudele avere come solo desiderio la nostalgia di un padre.
Era cresciuto, orfano di madre alla nascita, nelle gonne sudice e sbrindellate di una balia, con tre discoli e una bimbetta che la donna aveva avuto da questo o quell’uomo del paese. Dal fabbro, si sapeva di uno, dal cappellano, si diceva dell’ultimo della nidiata. Quando ruppe l’uovo e entrò nel mondo sul fiotto di sangue che portò via la povera partoriente, l’autore, oltre che di tutti i suoi giorni, di questo primo disastroso, era già partito per la guerra in capo al mondo: nell’isola di Candia o alle foci del Nilo. Il bambino era eccezionalmente grosso, si presentava di sederino, il cordone ombelicale attorcigliato al collo, che già stava per soffocare. La balia lo sbobinò, lo smammò, gli appioppò lo schiaffo salutare sul culetto. Strillò che lo sentirono da Reus.
Quindici anni dopo, di Reus conosceva solo i quartieri lontani, immersi d’estate nel blu delle piante di noccioli. Più in fondo, scorgeva dalla serra una pianura argentata chiamata mare, senza confini salvo la luce delle albe. Di sopra aveva la Massara, una montagna di lecci, sugheri e roveri, e forse nulla dietro. Lassù, d’inverno, urlava il lupo, ma lui viveva nel mondo della luna, che non cura gli urli dei lupi, e non l’aveva mai sentito.
Il suo universo era fatto di un maniero senza porta, con feritoie sbreccate per finestre, il cui rovinìo accompagnò la sua crescita, del fico sul pozzo che lo allettava con i brogiotti neri striati di rosso, della fucina, l’odore di ferro che brucia, i discorsi che si fanno a veglia, e la frescura a stucchi della chiesetta dove si ritrovavano la domenica, i cinque uomini, sei donne, quindici bambini e un cappellano che formavano quel centro del mondo non molto radioso. Poiché gli si era aperto il cervello, ma non tanto da venirgli l’idea di scavalcare gli steccati dell’abitudine, trovava quell’esistenza del tutto normale e non ne immaginava un’altra. Non si chiedeva chi gli desse da vivere. Un po’ più tardi sarebbe venuto a sapere che il padre, partendo, gli aveva lasciato alcune rendite nei dintorni, amministrate da un certo notaio Penhafort, a Reus. Di certo se ne teneva la maggior parte in perfetta cognizione del diritto, ma ne faceva recapitare dal curato qualche spicciolo trimestrale alla balia. A quel rivolo non solo Janet ma tutta la famigliola si levava la sete e la fame. Non ebbe mai scarpe, ma non morì di freddo negli inverni più duri. Non aveva mai mangiato carne se non di maiale e di selvaggina, e non spesso, ma con rape e farinate soddisfaceva ogni giorno la sua ingordigia di bestia giovane. Così diventò grosso come un cinghiale e forte come un toro. Figlio di un Joan, lo chiamavano Janet e, per scherzo, Messer Janetàs.
Per espresso incarico del padre, il cappellano Don Ramon gli aveva insegnato le lettere maiuscole e dieci parole di latino da messa. Questo bastava come informazioni su Roma. Non ne sapeva di più sull’Impero né sul regno d’Aragona di cui era suddito quel Joan del Pino a cui doveva la vita, una vita tutto sommato felice. A quattordici anni una peluria sotto il naso e anche sul mento e qualche schizzo di sperma nelle brache non gli avevano ancora rivelato nulla dell’amore. Con le ragazzine, nei pomeriggi estivi, all’ombra del fico e accanto al pozzo, si toccavano, ma non spingevano oltre l’impudenza. Dai compagni, al pascolo, aveva imparato come si fotte una pecora, ma non aveva ancora stabilito il rapporto logico dall’ovino al femminino. Insomma, viveva in innocenza edenica in un piccolo paradiso che non sapeva fosse catalano. Picchiare i compagni di gioco non gli aveva insegnato a fare la guerra, e se qualche volta sentiva parlare di quel malanno mangiacristiani se ne faceva l’idea d’una tempesta, di quel rovescio che porta via i terrazzamenti senza che le preghiere della balia né il Cristo del cappellano lo possa fermare.
Perse un bel po’ d’innocenza, prese un pizzico di gnegnero quando tornò suo padre, aveva giusto fra quattordici e quindici anni. Dall’altro mondo arrivava una metà di soldato, senza una gamba e una mano, la gran crepa bianca di una sciabolata attraverso il petto peloso. Finì la libertà, cominciò il tempo delle lamentazioni. Bisognò vivere notte e giorno appiccicato a quella carcassa sofferente lunga distesa. La vita si ridusse alla camera al piano di sopra nel castelletto gelido. Ormai le scorribande nei sughereti erano proibite, e così i giochi sull’aiata. Un confine invalicabile si stabilì da una parte e dall’altra della scala di venti gradini, fra il pianterreno o l’esterno rumoroso di schiamazzi di galline, di risate di bambini, di richiami di tordi, di colpi sull’incudine, e la camera dove la luce delle feritoie scandiva le ore sul pavimento, mentre il padre parlava tra i gemiti.
(Lo terç morir, cap. I, incipit, da Insularas, I.E.O. 1996)
DÈI
Sulla terrazza accanto alla cisterna
dove del sole la quadriga eterna
conduce il giorno dall’alba al tramonto
la scolta che dell’ombra segue il tratto
narra allo spazio un arcano racconto
misura alle stagioni il corso esatto
salmodiando le regole del patto
che lega l’astro alla ronda dell’anno
perché proceda la danza dei mesi
che stanno al passo e dietro al tempo vanno
e se di notte sulla pietra steso
tutta la vista e la vita sospese
al fedele orologio delle stelle
lo punge acuto il mal della memoria
gli mette pace l’etere tranquillo
la volta che girando transitoria
culla l’eternità dentro la storia.
Può somigliare allora ad un divino
essere cui diletta il duolo astrale
del cielo vagabondo pellegrino
ma dove il mare bagna il litorale
quando l’alba vermiglia si fa opale
la sua statua di bronzo controluce
si erige per vegliare la giornata
della città ridesta alla sua voce.
Si sa per tradizione rapsodiata
che di lassù la scolta abbandonata
su quell’altana contro il cielo e i venti
da complotti ed agguati ci protegge
col suo grido svegliando i continenti.
(La gacha a la cisterna, Jorn 1998, incipit)
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