italiano

Marsigliese, nato nel 1957, Jean-Yves Casanova non ha ereditato la lingua d’oc dalla sua famiglia di origine corsa: l’occitanico e il catalano sono per lui conquiste intellettuali nel segno di un’apertura mediterranea alla molteplicità culturale. Un accanito impegno di studioso ne ha fatto uno specialista della cultura occitanica del Cinquecento (Historiographie et littérature au XVIe siècle en Provence: L’oeuvre de Jean de Nostredame, 2012), l’autore di un importante lavoro su Mistral (Frédéric Mistral. L’enfant, la mort et les rêves, 2004) e di varie analisi su altri temi della letteratura d’oc (ma non solo: La porte des anges: Guillaume Apollinaire, 2012) che, appoggiate a vaste letture, spesso insistono su questioni di intertestualità. Professore all’Università di Pau, Casanova è uno degli scrittori più esigenti della stagione contemporanea. Il cammino percorso è evidente dalla giovanile Espèra veneciana (1982) alle raccolte più tarde che privilegiano una forma strofica ampia e densa per seguire il ritmo della ricerca interiore: in Elegias vengudas de negre e de mar (Elegie venute dal nero e dal mare, 1995), ognuna delle quaranta elegie è composta d’una strofa di dieci versi irregolari di venti o venticinque sillabe, come se ogni elegia cogliesse, instabilmente, dieci onde nell’infrangersi continuo del mare; in Cap de Creus (nome di un promontorio sulla costa catalana, 1999) ognuna delle tre parti consta di quindici testi di identica struttura: tre quartine di versi irregolari, da quindici a venti sillabe, seguite ognuna da un verso in catalano. Il titolo enigmatico del successivo ... enfra lei trèus... (... fra le brume..., 2009, ventisei e ventiquattro strofe di dieci versi, la prima serie dedicata alla memoria del padre e la seconda alla memoria della madre)copre un continuum fluido e indistinto, di cui il sottotitolo, limbs (limbi), dà la chiave: tentativo di esprimere la condizione dei defunti, i cui sforzi per prendere corpo sono gli sforzi dei vivi che cercano di dar loro materia o presenza con il ricordo. Meditazione sulla reminiscenza, sulla frustrazione dell’assenza, sulla nostra condizione tragica di viventi appena più solidi e tangibili dei morti si ritrovano nelle sue opere narrative, percorsi di privazione e di sofferenza a cui solo la scrittura offre salvezza, da Jonàs (1987) a L’òrle dei matins - L’ambre (L’orlo dei mattini - L’ambra, 1996), Lo remembre dins lo jardin (Il ricordo nel giardino, 2001), Lux Veneris (2003), Lo libre escafat (Il libro cancellato, 2008), fino a L’enfugida (La fuggita, 2014), dove nei gorghi della memoria s’intrecciano esistenze legate alla guerra, alla Resistenza, alla collaborazione, fra verità impossibili e menzogne indecifrabili. Uno dei suoi libri più riusciti è probabilmente Trèns per d’aubres mòrts (Canto funebre per alberi morti, 2007) dov’è evocata la vita dei due nonni e del padre. Come nell’Enfugida, le frasi smisuratamente lunghe,’frasi universo’, trascinano il lettore nel loro flusso, quasi a fargli attraversare l’indicibile o a dematerializzare il mondo. Di fatto l’universo di Casanova, prosastico e poetico, è labile, liquido e volatile, come le onde del mare delle sue Elegie o come le brume dei suoi limbi. Nessuna certezza, soltanto un armonioso fluire e un sentimento di disperazione assoluta.



ELEGIA 27

E spesso l’onda vorrebbe fermarsi, piegarsi ai confini di quella terra sfinita poiché lei sola potrebbe dirci le vaste profondità umane, ma ci lascia, dritti come si lasciano in riva a una spiaggia gli orli d’un vento di sale, morente eppure definitivamente presente; sapere se morire diventasse normale e irreale e ci destinasse ai patemi consueti, ai destini banali sfuggiti dalle gabbie di seta, se fossimo poveri e spogliati dei misteri dell’onda; verrebbe qui, solitaria,

ad adagiarsi sulla rena fredda delle notti chimeriche per sbriciolare le orme disordinate, senza potere né lingua, a lasciarci la sua vita al ritmo dei polmoni e dell’aria chiusa, ma nel vespro stellato ci sfugge e vediamo rilucere lontano fanali di tempesta che ci rammentano i volti dolenti dei bambini sepolti.

(Elegias vengudas de negre e de mar, Jorn 1995)



CAP DE CREUS

a Joan-Luc Sauvaigo

portatemi fino al mare perché mi serva di tomba provvisoria

non allontanatemene e ogni giorno mi avvicinerò al suo sangue

come se penetrassi gli uomini per spiarvi gli specchi nascosti

che s’offuscano s’insabbiano si seppelliscono via via che sono rimirati

ci troverò la pazienza di adagiarmi su un letto di tempo e di spazio

di disegnare sul sale dell’acqua quieta che vive affamata di burrasche

il viso dei negri addormentati che è viso della povertà e dell’oppio

di mormorare parole fuggite come il richiamo che erra sulle rive

perché credere al vento delle bare allineate l’immagine racchiusa nelle mani

solo la nudità di parole che dissecca le ore e passano gli anni

che bene o male ci fecero di carne e d’ossa e d’anima in questo teatro

per addii millenari e sospiri incendiari sulla rena imbrattata

el xaloc del vespre ofega els camins dobtosos cap al mar1

(Cap de Creus, I, 13, Jorn 1999) 1 Quest’ultimo verso, in catalano, suona: lo scirocco del vespro soffoca i sentieri dubitosi che portano al mare


... fra le brume...

tutto sembra ricominciare e non più fermarsi allo stridìo agro dei grilli

quando il tempo bianchiccio si scarica della cappa stellata di pioggia d’erba

l’uomo dal petto di scorza affastella l’ombra per sparire senza dir nulla

e accompagna le api stremate alla fonte raggiante di pietre nel sole

nella loro danza folle le prende per le aquile marine che gli occuparono le notti

spaccato a colpi d’ascia l’uomo alla riva dei fiumi gelati

gira va e viene si crede saldo mentre non è più che festuca inutile alla sizza

vuole tagliuzzare il cielo mentre è nient’altro che il rovescio del colore

l’adocchio l’accolgo e lo cullo fra le braccia per scioglierlo dai confini

perché lasci lo struggimento sterile accostandosi all’albero smarrito del dolore

silenziosa più di sempre silenziosa al chiarore del tempo all’acqua

al sapore avvelenato del giorno quando si addensano le ombre

va viene avanza barcolla ancora insetto sulla foglia al vento

incoronata d’ansie e di disperazione sapendosi infiacchita dalla durata

abbandonata dal respiro corto ai parati delle rimembranze ormai mute

quando ci diceva stupita e non la sentivamo ubriachi di spazi

ché tutta la terra si rovescerebbe in un sogno corteo d’immagini

povere immagini dell’infanzia intraviste in ombre sul muro

sembrano attraversare il fogliame l’erba e la materia pastosa

farsi i suoi occhi il suo silenzio e il mare nero che ora la culla

(... enfra lei trèus..., Jorn 2009)


LA FUGGITA

Avessi avuto il tempo, l’opportunità o la voglia di restare più a lungo al crocicchio di quei tre sentieri, là dove il Cristo in croce seguitava ad arrugginire – e si dice che sia finito interamente coperto di rovi, il ferro sminuzzato in scaglie brune che imbrattano le mani lasciandovi una polvere simile a sangue secco –, le lacrime, le piaghe e le goccioline di miseria snaturate dai ruscelletti di sporcizia di un dio lambito dalla pioggia, dal gelo e dall’acquerugiola nebbiosa, là dove i pioppi e i carpini disegnavano un viottolo addolcito dal sole invernale; lo si riconoscerebbe ancora se i segatori non avessero affilato le seghe per abbattere l’albereta che le folate di vento fustigavano senza sosta, vite conservate a fatica, fragili e candide, foglie vellutate e scanalate sul rovescio, alberi minacciati per le scommesse inutili dell’ olmo morto che di sicuro aveva dato il suo nome al paese; mi fosse accordato un momento di pausa per guardare con calma il turbinìo polveroso dello spettacolo d’un mondo disteso a perdita d’occhio fra montagne e vallate, immaginandosi duraturo e quasi immortale, l’avrei trovata seduta, già vecchia e appassita, come se la sua giovinezza fosse fuggita troppo presto, quasi sparita all’uscir dell’infanzia, verso i dieci o dodici anni, quando gli anni pesano per la prima volta; l’avrei trovata con una faccia che poteva sembrare assonnata al parapetto del ponte sopra il torrente, un po’ d’erbe in mano, qualche fiore già vizzo d’esser stato colto, ma per darsi la consistenza di un compito ben preciso che l’avesse spinta per gli orti, per dire che andava a fare qualcosa, a far erba, a raccogliere raperonzoli o pisciacani per l’insalata, ciuffetti rosei o giallini da posare, ridicoli, nel bel mezzo del tavolo di noce – sapeva naturalmente che non avrebbero durato, un giorno o due, non di più, quei fiorellini magri non potevano durare tagliati, tolti alla terra e all’aria, alla brezza smaniosa dei prati – o da mettere fra le pagine di un libro, fra due fogli di giornale per farli seccare, l’avrei vista a tutte le ore del giorno quando ci passavo, inamidata nella gonna bianca, azzurrata da quei disegni floreali discreti, se ce li ricordiamo ancora, come si sarebbe potuto vederla da qualche altra parte, a Levens o a Ferrassières, leggera e sottile, la gonna bianca e blu fluttuante intorno alle anche, di quelle gonne senza moda che si compravano al camion che veniva una volta al mese, e dove si poteva trovare di tutto: dalla terraglia al vestito, fino ai bulloni, ai tappi, ai manici e ai pali mentre le stegole s’impolveravano sotto la tettoia, trascurate, invecchiate, ma sempre accoppiate agli aratri ormai dormienti; l’avrei intravista passando, e forse l’avrei avvicinata, ferito dal suo silenzio, per dirle qualcosa, tre o quattro parole, quelle bagattelle che parlano del tempo, della vita che viene e che va, dei dolori del corpo che bisogna esibirli per potersene lamentare, quelle parole che non dicono nient’altro, annegano nell’oblio e tuttavia danno la misura di un uomo, dal suo pudore, dalla sua discrezione e dalla dignità del suo mutismo necessario.

(L’enfugida, Trabucaire 2014, incipit)