Il bar-ristorante Fubina è conosciuto da tutti nelle Valli di Lanzo, così come è conosciuta e apprezzata Lina con la sua cucina e la sua ospitalità. Lina è una persona energica, generosa e sempre pronta e disponibile con una buona parola per chiunque. Lina lavora e gestisce questo locale, inizialmente con sua madre poi continuando da sola, da quando è stato costruito, a fatica, dai suoi genitori. Un luogo di ristoro contraddistinto da una cucina inimitabile, noto anche per le caratteristiche, grandi e numerose portate. Un ristoro che sa di abbondanza e benessere e che è, per il costo molto contenuto, per tutti. Un luogo probabilmente di altri tempi o che ha mantenuto sacro il compito dell'ospitalità e che dal tempo, con il suo inesorabile movimento, è stato divorato. Chiude all'inizio del 2019. A chiudere non è solo l'ennesimo locale in queste Valli di montagna ma finisce anche un mondo sociale e sonoro, di voci e di suoni, pensieri, confronti e ritrovi. Si chiude un'altra possibilità esistenziale come se si seguisse, o meglio subisse, un apparente disegno storico e politico che vuole livellare e conformare, cancellare modi altri di vita, modi antichi di fare ed essere società.
Traduzione della registrazione:
Stavano qui in quella casa lì. Mia madre andava a fare le pulizie [custodi e domestici di una casa signorile]... e dopo si sono sposati e quel Cavaliere lì gli aveva imprestato due piatti, due scodelle, gli aveva imprestato un po' di roba perché loro non avevano niente.
Noi eravamo ancora giovani e i villeggianti dicevano tutti a mio padre e a mia madre: «Fate qualcosa, fate qualcosa che avete due figli». Io mi ricordo d'inverno che andavamo là a Toglie a prendere fieno e tornavamo indietro da Combanera e guardavamo in qua quel pezzo di terra e dicevamo:«Chissà quando vedremo il bar fatto!». E guardavamo sempre in qua, era dura andare là a prendere il fieno.
Quando abbiamo visto iniziare questo [la costruzione dell'edificio] non dormivamo più, e fare di qua e fare di là...Tanti lavori e al bar in qualche giorno hanno fatto le mura. Pioveva dentro e dovevano giocare a carte con l'ombrello aperto. E dopo da lì è già stato bello. Hanno poi fatto alla buona il tetto e non pioveva più dentro. Eravamo poi già contente. Dopo papà e mamma hanno fatto fare il terrazzo fuori così era coperto e la gente poteva stare fuori a giocare a carte.
Sessantatre [1963] quando mio padre e mia madre sono riusciti ad aprire questo bar. Certo che non eravamo proprio niente esperti, arrivava la gente e quasi che noi scappavamo. E poi ci siamo abituati perché eravamo pieni di debiti. Però è stato bello quando abbiamo capito come funzionava. Quando venivano a suonare che meraviglia, e a San Michele... [intende la festa patronale della frazione] e Gnasi Lingèra con il suo clarino [Ignazio Regge, 1921-2007, suonatore tradizionale] Pinotou [Giuseppe Viberti, 1933-2016, suonatore tradizionale di fisarmonica] che belle serate che abbiamo fatto. Una volta era bello, tutto semplice senza tante storie poi la gente era tanto più socievole, secondo me. Ma no, era una meraviglia, sempre con i calli sulle mani a forza di aprire bottiglie di bibite e di bicchieri non ne avevamo più! E' stato meraviglioso, ho conosciuto tante persone simpatiche, brave, socievoli. Alle due di mattina arrivavano da sotto e facevamo i toast con il pepe. Alla mattina mi svegliavo alle cinque e mezza e trovavo già i cacciatori che dormivano fuori in macchina che aspettavano che io arrivassi sotto. E mamma anche aveva tanta voglia, sarebbe andata in mezzo alla strada a prenderla la gente, e mio padre anche, tanta voglia, tanta voglia di gente, lui era soddisfatto. E tanti matrimoni abbiamo combinato qua. Tanti dicevano: «Oh che bello quando sono venuto qua ho trovato la mia futura moglie». E tanti dicevano: «Maledizione la volta che sono venuto qua!». Sì, sì, è stato troppo bello.
E dopo cinquantasette anni che ti trovi lì senza più vedere la gente, senza più avere qualcuno che ti dica... E' come quando è sera che viene la notte e spegni la lampadina, io vedo proprio lo scuro intorno. Va bene, certo, puoi invitare gente a fare una festa, una suonata ma sembra che non sia più così perché allora la gente sentiva suonare, arrivava, era proprio bello, bello. E invece adesso mi sembra proprio di essere senza braccia, vedi: non ho più voglia di uscire. Infatti la malattia più grossa è quando non hai più gente intorno e penso che chiunque si affezioni a questo lavoro qua, chiunque.
Testimonianza di: Lina Giacchero (1942), Viù, Fubina 01/2020
La storia di una vita narrata con la potenza dell'oralità, della lingua madre, un racconto che si fa lirico, poetico. Potrebbe trattarsi di una ballata cantata a più voci in qualche osteria o proprio in quell'osteria. Voci che sanno di felicità e di dolore allo stesso tempo. Una storia di vita che usa il tempo per sciogliere ricordi, come la musica che ha bisogno del tempo per dispiegarsi e nel tempo svanisce con il suo dispiegamento. Una storia che è musica e che racconta di musica che quel tempo esistenziale ha accompagnato, riempiendo il vuoto. Una storia che come un canto porta con sé tante storie, episodi che hanno il fascino del mito e al mito rispondono come un'eco. Il testo di un canto a ballo occitano di tradizione orale dice: “Non ho che cinque soldi, la mia ragazza non ne ha che quattro, come faremo quando ci sposeremo? Ci compreremo un cucchiaio, una scodella, una pentola e mangeremo tutti e due” [originale: Ieu n'ai cinc sòus / ma mia n'a que quatre / coma farèm quand nos maridarèm? /Nos cromparèm / un cuier, n'escudèla, / un topinon, mangiarèm totes dos]. In questa storia nemmeno ci sono i soldi e le posate e le stoviglie vengono prestate. Anche in questa storia, come nel canto, non manca l'umorismo: quell'intelligenza, quella forza che ha la capacità di leggere in altro modo il reale e reinventarlo. Immaginare luoghi possibili, trasformare un pezzo di terra in uno spazio che risuoni di voci e di musica, desiderare un futuro migliore e sentirsi attori e artefici di un proprio destino. Avere voglia di gente è straordinario, è come se fosse metafora della società, del vivere stesso. Simpatia umana, quell'inclinazione all'apertura, quella concordanza nel sentire, quell'insieme di sentimenti, quell'empatia che attrae le persone, rompe solitudini, avvicina e riempie. Avere voglia di gente è volontà. Avere un pezzo di terra e farne luogo sociale, come in un mito fondante. Un luogo che è rifugio, speranza, un ambiente che accoglie e nel quale avviene sempre uno scambio in cui l'ospite e l'ospitante non sono che categorie di una stessa figura. Come i due versanti di una valle che si rispecchiano nello stesso fiume e partecipano allo scorrere dell'acqua unendosi in un momento comunicativo che è sempre creativo.
Ristorante, trattoria, osteria, tutti termini che hanno a che fare con l'accoglienza, la convivialità, la condivisione. Tutti termini di origine neolatina. Dal latino restaurāre, per ristorante, nel senso di riparare, rinnovare e quindi luogo in cui si da ristoro, si riposa, si rifocilla e si restituisce energia. Al francese traiteur per trattòre, gestore di trattoria, nell'accezione dell'atto di ricevere qualcuno a tavola, traitement. E ancora il latino hŏspite per l'etimologia di oste e quindi osteria. Di senso opposto è invece il più recente inglese bar che più che accogliere, etimologicamente, separa. Deriva infatti dalla sbarra che separava i consumatori dal banco di mescita e ha origine a sua volta dalla sbarra divisoria delle corti di giustizia.
Ci sono luoghi che risuonano d'intensa vitalità e sono sempre luoghi in cui avvengono incontri e quindi scambi. Le persone si spostano, i tempi cambiano ma i luoghi rimangono. E' la voglia di gente che può continuare a fare ed essere società.
Didascalia della foto:
Fotografia: Flavio Giacchero.
et son double (1994)
commenta