La guerra in casa. I bosniaci del Villar
LA GUERRA DINS MAISON.
Lhi bosníacs dal Vilar
di Maurizio Dematteis

A Villar, come nei limitrofi comuni di Dronero, Roccabruna, Caraglio, Bernezzo, Valgrana, San Damiano e molti altri, gli amministratori e la popolazione, a partire dal 1993, hanno dato accoglienza a decine di famiglie bosniache in fuga da una guerra feroce che imperversava sull'altra sponda del "mare nostrum", a pochi chilometri dal confine nazionale. Molte di queste famiglie sono poi emigrate in altri paesi europei, oltre oceano, o tornate in Bosnia. Oltre una settantina, tra cui quella di Sead Mujanovic, sua moglie Zilhada e i figli Asmir e Damir che vivono ormai da più di 15 anni a Villar San Costanzo, si sono integrate nel tessuto socio economico alpino del Piemonte.
Visto dall'esterno... «Era il 1992, imperversava la guerra in Jugoslavia, e nel corso di una cena a casa d'amici abbiamo visto un annuncio sul quotidiano "Il Manifesto" - racconta Luca Rastello, giornalista e autore dell'illuminante libro in materia dal titolo "La guerra in casa", edito da Einaudi -. Alessandra Morelli, una suora francescana impegnata nell'accoglienza dei bosniaci fuggiti dalle proprie case, chiedeva aiuto per ricoverare parte delle 4000 persone ammassate nel suo campo profughi Onu di Karlovac, in Croazia, al confine con la Bosnia». L'inverno era alle porte e nel campo profughi, nato per ospitare 400 persone e senza alcun tipo di riscaldamento, la situazione diventava ogni giorno più esplosiva: freddo, fame, malattie e una media di suicidi che in certi periodi arrivava quasi a uno al giorno. «La ex religiosa chiedeva a chi avesse un letto o una seconda casa a disposizione di ospitare una famiglia per l'inverno. E noi torinesi, relativamente borghesi e benestanti, con la seconda casa in montagna o al mare non abbiamo potuto tirarci indietro». Nasce così il Comitato accoglienza profughi ex Jugoslavia (Capej), che poco a poco raccoglie la solidarietà di centinaia di famiglie in tutto il Piemonte, raggiungendo l'obiettivo di accogliere e ospitare 497 profughi bosniaci in fuga dalla guerra in meno di due anni, tra il 1992 e il 1993. «E' stata un'operazione che si è costruita poco per volta - ricorda Luca Rastello -. Se da una parte lo Stato italiano si vantava di aver effettuato oltre 22 mila respingimenti presso le sue frontiere, accogliendo appena 1100 profughi a fronte degli oltre 400 mila della Germania, dall'altra il Comitato, senza alcun tipo di sostegno o finanziamento pubblico, otteneva solidarietà in tutto il Piemonte». Chi metteva a disposizione una casa, chi il proprio furgone per il trasporto dei profughi, chi le competenze professionali per supportare il lavoro del Capej. «E un ruolo determinante nell'accoglienza delle persone in fuga dalla guerra l'hanno avuto sicuramente i comuni montani - continua Luca Rastello -, dove io mi recavo saltuariamente a tenere incontri con la popolazione per cercare sostenitori: comuni come Trivero in Val di Mosso, Pont in Val Soana, Pinerolo e i comuni della Val Pellice o Dronero in Val Maira». E proprio a Dronero nel 1993 nacque un Comitato locale di accoglienza profughi ex Jugoslavia. Con famiglie aderenti dai comuni limitrofi. «Anche da noi l'iniziativa è cominciata da un gruppo di famiglie, che avevano i figli nella stessa scuola - ricorda Gianna Bianco, insegnante e tra i fondatori del Comitato di Dronero -. Volevamo fare qualcosa per la situazione venutasi a creare in ex Jugoslavia. Abbiamo conosciuto Luca Rastello ed è nata l'idea di creare un comitato locale in appoggio a quello di Torino. Il Comune di Dronero ha messo a disposizione una casa, le parrocchie hanno provveduto ad arredarla e la Questura ci ha dato la sua disponibilità ad appoggiare l'operazione. Così nel febbraio del 1993 siamo andati a Torino a prendere la prima famiglia, i Mujanovic». Nel frattempo il Comitato di Dronero si ingrandisce, altre famiglie, altri enti locali del circondario. I Mujanovic chiedono immediatamente di andare a prendere altre famiglie di parenti e amici, e nel giro di due anni il Comitato accoglie 6 famiglie, per un totale di una quarantina di persone. Comuni, aziende e privati mettono a disposizione le case. Il Comitato crea una rete di solidarietà intorno alle famiglie accolte. «L'integrazione di queste persone non è mai stata un problema - continua Gianna Bianco -, erano bianchi, simili a noi e soprattutto venivano da zone di guerra. Per cui non erano visti come persone che venivano a "rubarci il lavoro". Persino i bambini, a scuola, apprendevano molto in fretta, e non hanno mai avuto problemi linguistici o di inserimento». Il Comitato agiva in maniera preventiva, cercando un lavoro alle famiglie prima del loro arrivo. «Nei comuni oggi non ci sono segni evidenti della cultura delle famiglie ospitate - continua Gianna Bianco -, anche se bisogna riconoscere che i bosniaci hanno aperto la strada all'arrivo dei migranti. Sono stati i primi musulmani ad arrivare nel cuneese, perché prima del 1994 non c'erano stranieri nelle valli. Forse l'unico cambiamento agli usi e costumi locali è stato l'incremento del consumo di agnelli. Ricordo che ogni volta che le famiglie bosniache si riunivano compravano un agnello vivo, lo macellavano e cucinavano secondo i loro costumi. Questo ha fatto si che siano aumentati gli allevatori di pecore. E oggi, con l'arrivo dei marocchini e degli altri stranieri di cultura musulmana, è nato un vero e proprio mercato che prima non esisteva». Alcune delle famiglie bosniache sono emigrate in paesi esteri, altre sono tornate in Bosnia. Quelle rimaste in Piemonte si sono ormai completamente integrate e vivono in case di proprietà. Nelle immediate vicinanze, tra Dronero e Villar, oggi sono tre i nuclei familiari presenti. Più uno che si è spostato a pochi chilometri, in Val Grana.
Visto dall'interno... «Siamo bosniaci, originari del piccolo paese di Kozarac, vicino a Priedor, nel nord della Bosnia, e siamo arrivati a Dronero nell'inverno del 1993». Sead Mujanovic, accanto alla moglie Zilhada, ricorda con rassegnazione l'evento che 15 anni fa ha cambiato per sempre la sua vita e quella della sua famiglia. Era il 26 maggio del 1992, quando l'esercito serbo cominciò a bombardare il piccolo paese bosniaco. «Al termine dei bombardamenti, insieme ad alcuni miei compaesani, siamo usciti dalle case con un lenzuolo bianco e le mani alzate - ricorda - perché non avevamo intenzione di combattere contro i nostri vicini di casa. Un conto è se ci avessero invaso i tedeschi o i francesi. In quel caso sarei andato a difendere la mia patria. Ma non volevo combattere contro i miei "fratelli"». I soldati serbi arrestano Sead e gli altri uomini come disertori e li spediscono in campo di concentramento. Poi caricano donne e bambini su un treno e li spediscono nei campi profughi. «Casa nostra è stata bruciata - ricorda Zilhada Mujanovic - ed io con i miei due figli Asmir di 8 e Damir di 3 anni, sono finita prima in un campo profughi bosniaco, poi ci hanno trasferito nel campo di Karlovac, in Croazia. Di mio marito nessuna notizia. E' rimasto 93 giorni in campo di concentramento, poi è riuscito a scappare e a raggiungerci. L'ho lasciato che pesava 90 chili, è arrivato che ne pesava solo più 50». A Karlovac la responsabile del campo, una ex suora francescana di nome Alessandra Morelli, era in contatto con il Comitato di accoglienza profughi della ex Jugoslavia di Torino. Il quale, a sua volta, era in contatto con il Comitato di Dronero. «Giunti a Torino ci sono venuti a prendere in automobile - continua Zilhada Mujanovic - e ricordo che vedevo avvicinarsi sempre più le montagne ed aumentava dentro di me il timore per il nostro futuro. Non sapevamo la lingua e dovevamo comunicare a gesti». Sead, Zilhada e i due bambini arrivano finalmente a Dronero: «arrivati in paese ci hanno subito accolto e aiutato in tutti i modi - ricorda Sead Mujanovic -; per cinque mesi ci hanno ospitato in un alloggio, e da subito mi hanno trovato un lavoro. Ho cominciato come muratore, oggi lavoro in fabbrica e vivo in una casa di proprietà a Villar San Costanzo. In Bosnia ero diplomato nell'utilizzo della pala meccanica e vivevamo bene. Non avrei mai pensato di andare via dal mio paese. Oggi faccio l'operaio alla Bitron di Dronero, da 10 anni, costruisco parti per elettrodomestici e mi trovo bene». Anche la moglie Zilhada, che in Bosnia era casalinga, lavora come operaia, per una cooperativa che assembla parti elettriche, sempre per la Bitron. «Qui non posso dire di non trovarmi bene - spiega Zilhada Mujanovic - anche se patisco un po' i ritmi frenetici dell'Italia: hai tutti i giorni programmati e non ti puoi mai fermare. Da noi c'era il comunismo, e i ritmi erano molto più tranquilli. Da quando sono in Italia soffro di mal di testa cronico. Che quando torno in Bosnia sparisce immediatamente». Ma nonostante le difficoltà ad abituarsi a nuovi ritmi di vita, i coniugi Mujanovic, insieme ai loro figli, sono ormai completamente integrati nel tessuto locale: «Quando ho cominciato a lavorare da muratore il mio capo parlava solo piemontese - ricorda Sead Mujanovic -. Così, oltre ad aver imparato l'italiano, capisco anche qualche parola di dialetto». Anche Zilhada ha imparato l'italiano lavorando: «e se non capisco la lingua occitana - spiega - mi piacciono molto i loro balli, anche se sono molto diversi dai nostri. E spesso andiamo alle feste occitane di Caraglio o Dronero». C'è poi l'aspetto culinario, uno dei motivi per cui Sead, che è una buona forchetta, è felice di essere venuto a vivere in Italia. «Da quando abitiamo qui a Villar San Costanzo cucino molto italiano - spiega Zilhada Mujanovic -. Tra colleghe donne, al lavoro, ci passiamo le ricette. Di bosniaco continuo a fare la pasta sfoglia, ogni tre mesi. E la farcisco con carne, formaggio o mele. Inoltre noi continuiamo a mangiare molta carne, come quella di agnello che cuciniamo in giardino ogni volta che facciamo festa con gli amici». E le feste in casa Mujanovic sono frequenti, non solo con le famiglie bosniache. E questo è un sintomo di una buona integrazione. Ormai la loro idea è quella di rimanere a vivere in Italia. «I miei figli sono arrivati che avevano 3 e 8 anni - spiega Sead Mujanovic - non hanno nessuna intenzione di tornare in Bosnia. Noi quindi staremo qui con loro. In Bosnia ci torniamo almeno due volte all'anno a trovare amici e parenti». Zilhada annuisce, mentre in televisione un canale bosniaco collegato via parabola propone le ultime notizie da Sarajevo. «A me piacerebbe tornare in Bosnia - spiega -. Dove ho lasciato amici e parenti. Ma resto qui. Da una parte per i figli, dall'altra perché in fondo non sarei più in grado di vivere come prima. Qui è vero che ho poco tempo libero, ma quando riesco prendo l'auto e vado in paese. In Bosnia l'auto non l'avrei, e rimarrei sempre in casa. E poi sono proprio le usanze ad essere diverse: in Bosnia se hai voglia di vedere un amico passi a casa sua quando vuoi, senza preavviso. Qui devi telefonare prima. E quando torno nel mio paese d'origine non riesco più a fare come un tempo». Una scelta in parte subita quella dei coniugi Mujanovic. Perché se da una parte Sead e Zilhada non si sentono più in grado di tornare a vivere a Priedor, dall'altra a Villar San Costanzo continuano a sentirsi stranieri. «Gli italiani hanno paura di noi stranieri - spiega Zilhada -, e la gente di queste parti non è tanto aperta. Devi conquistarti pian piano la loro fiducia. Provandogli che sei una brava persona. Ma io gli capisco. Dove lavoro ad esempio, ci sono tanti marocchini. Sono anche loro musulmani, ma io non gli parlo. Sono diversi, tanti e maleducati. Come anche gli albanesi». Sead aggiunge: «Per quanto riguarda gli italiani sono spesso gelosi. Criticano come viviamo e si chiedono perché abbiamo una casa di proprietà, magari anche più bella della loro ereditata dal nonno. Ma io per averla ho lavorato giorno e notte. Ho risparmiato sulla mano d'opera facendomi tutto io. Per sei anni mi sono svegliato alle 5 e 30, fermandomi a far festa un giorno all'anno. Delle difficoltà che loro non hanno mai nemmeno immaginato. E oggi, come se non bastasse, mi è aumentato il mutuo da 740 a 1040 euro. E' finita l'epoca in cui in Italia si stava bene. Abbiamo lavorato giorno e notte per costruire questa casa e ora probabilmente saremo costretti a venderla. Perché non riusciamo più a mantenerla».
BOX La Bosnia-Erzegovina La Bosnia-Erzegovina è uno stato dei Balcani, con capitale Sarajevo, abitato da 4 milioni e mezzo di persone, che fino al 1992 faceva parte della Federazione jugoslava. Confina con la Serbia a nord-est, il Montenegro a sud-est e la Croazia a nord, sud e sud-ovest. Ha un porto nella città di Neum, sull'Adriatico, unico accesso al mare del piccolo paese. La storia recente della regione balcanica ha inizio con la vittoria dei partigiani di Josip Broz, conosciuto come generale Tito, sul nazifascismo nella Seconda guerra mondiale, quando venne istituita la Repubblica socialista federale di Jugoslavia, di cui la Bosnia diventò parte integrante. Dieci anni dopo la morte del generale Tito, nel 1991, le repubbliche che formavano la Jugoslava decisero a maggioranza di sciogliere l'unione federale. L'allora presidente della Serbia Slobodan Milosevic tentò di opporsi al disegno secessionista delle altre repubbliche. E la minoranza serba residente in Bosnia, dopo le dichiarazioni di indipendenza di Slovenia e Croazia, temendo che anche la Bosnia potesse giungere alla secessione, iniziò a muoversi per prevenire qualsiasi tentativo in tal senso. A una "dichiarazione di sovranità" bosniaca, proclamata il 15 ottobre del 1991, seguì la convocazione di un referendum per l'indipendenza dalla Jugoslavia, che si svolse il 29 febbraio e il primo marzo del 1992: la consultazione, boicottata dalla comunità serba, espresse il 64% di voti favorevoli all'indipendenza dalla Jugoslavia. Ne seguirono l'immediato dispiegamento, da parte del governo di Belgrado, delle proprie truppe sul territorio bosniaco, e la mobilitazione di formazioni militari e paramilitari da parte dei tre gruppi etnici bosniaci: croati, serbi e musulmani. Il 5 aprile 1992, a Sarajevo, cecchini serbi aprirono il fuoco su una manifestazione popolare, uccidendo un dimostrante. Il giorno seguente, la Comunità europea riconobbe l'indipendenza della Bosnia-Erzegovina; la Serbia rispose proclamando la secessione della Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina, le cui truppe militari e paramilitari presero il controllo di circa il 70% del territorio nazionale. La violenza interetnica divampò in tutto il paese, causando numerose vittime anche tra la popolazione civile. Il 2 maggio 1992 l'esercito federale e le milizie serbe bloccarono tutti gli accessi a Sarajevo, ponendo la capitale sotto un assedio destinato a durare ben 43 mesi. Stragi, stupri e deportazioni proseguirono per tutta la durata della guerra, in uno scenario di pulizia etnica culminato, nel luglio 1995, nel massacro di Srebrenica, costato la vita a circa 8.000 civili bosniaci. L'orrore suscitato in tutto il mondo dal massacro di Srebrenica determinò una svolta nell'atteggiamento della comunità internazionale, i cui sforzi volti a una risoluzione diplomatica del conflitto avevano ottenuto come unico risultato la presenza dei caschi blu dell'Onu a difesa dell'aeroporto di Sarajevo, unico legame tra la capitale e il resto del mondo, e di alcune enclave bosniache nel territorio occupato dai serbi, compresa la stessa Srebrenica. Nell'agosto del 1995 la Nato intraprese una campagna di bombardamenti aerei sulle installazioni delle milizie serbe, permettendo l'avanzata delle forze armate croate che sancì la conclusione del conflitto. Il 21 novembre 1995 a Dayton, nell'Ohio, Stati Uniti, i capi di stato bosniaco Alija Izetbegović, serbo Slobodan Milošević e croato Franjo Tuđman siglarono l'accordo di pace, che trasformò la Bosnia-Erzegovina in una repubblica federale, assegnandone il 51% del territorio alla Federazione di Bosnia ed Erzegovina e il restante 49% alla Repubblica Serba. La guerra si chiuse con un bilancio di circa 102.000 morti e 1.326.000 profughi, il più pesante registrato sul suolo europeo dopo la fine della Seconda guerra mondiale Nel dicembre 2007 la Bosnia-Erzegovina ha parafato con l'Unione Europea l'Accordo di stabilizzazione e associazione, fase preliminare rispetto alla firma vera e propria dell'accordo di pre-adesione all'Unione Europea.
Vist dal defòra... «Era lo 1992, en Jugoslàvia imperversava la guèrra, e durant una cina en aquò d'amís avem vist un anonci sus lo quotidian "Il Manifesto" - còntia Luca Rastello, jornalista e autor dal bèl libre "La guerra in casa", editat da Einaudi -. Alessandra Morelli, una sòrre francescana impenhaa dins l'aculhença di bosníacs escapats da lors maisons, demandava ajut per ricoverar una part de las 4000 personas amassaas dedins lo champ refujats de l'Onu de Karlovac, en Croàcia, al confin embe la Bòsnia». L'uvèrn era a las pòrtas e dedins lo champ, creat per ospitar 400 personas e sensa degun reschaudament, la situacion devenia chasque jorn mai explosiva; la freid, la fam, las malatias e una mèdia de suicicidis qu'en qualque temp arribava quasi a un al jorn. «La ex religiosa demandava a qui auguesse un liech o una seconda maison d'ospitar una familha per l'uvèrn. E nosautri turinés, pro benestants e embe la seconda maison en montanha o a la mar avem pas polgut nos traire arreire». Nais com aquò lo "Comitato d'Accoglienza profughi ex Jugoslavia (Capej)", que pauc a pauc recuelh la solidarietat de centenas de familhas en tot lo Piemont, arribant a l'objectiu d'aculhir 497 refujats bosníacs en fuga da la guèrra en menc de dui ans, entre lo 1992 e lo 1993. «Es estaa un'operacion construïa pauc per bòt - soven Luca Rastello. Se d'un cant l'Estat italian se vantava d'aver repossat mai de 22 mila personas da sas frontieras, aculhent a pena 1100 refujats a front di mai de 440 mila de la Germània, da l'autre lo Comitat, sensa degun sostenh o financiament públic, obtenia d'ajuts en tot lo Piemont». Qui butava a disposicion una maison, qui son furgon per transportar lhi refujats, qui sas competenças professionalas per suportar lo trabalh dal Capej. «E un ròtle determinant dins aquela aculhença l'an agut segurament las Comunas de montanha - contínua Luca Rastello - ente anavo de temp en temp a tenir d'encòntres embe la populacion per cerchar de sostenhs: Comunas coma Triviero en Val di Mosso, Pont en Val Soana, Pineròl e las Comunas de la Val Pelis, o Draonier en Val Maira». E pròpi a Draonier ental 1993 es naissut un comitat local d'aculhença, que rebeïa de familhas decò da las Comunas vesinas. «Decò da nosautri aquela iniciativa es començaa da un grop de familhas - soven Gianna Bianco, magistra e entre lhi fondators dal comitat de Draonier -. Volíem far qualquaren per la situacion arribaa en Jugoslàvia. Avem coneissut Luca Rastello e es creissua l'idea de crear un comitat local en sostenh an aquel de Turin. La Comuna de Draonier a butat a disposicion una maison, las parròquias se son ocupaas de l'amoblar e la Questura nos a donat sa disponibilitat a apojar l'operacion. Com aquò en febrier dal 1993 sem anats a Turin a quèrre la premiera familha, lhi Mujanovic». Entrementier lo comitat de Draonier s'engrandís d'autras famihas, de nòus ents locals dal circondari. Lhi Mujanovic demandon tot súbit d'anar quèrre d'autras familhas de parents e d'amís, e ental vir de dui ans lo comitat acuelh 6 familhas, per un total d'una cincantena de personas. Comunas, aziendas e privats buton a disposicion las maisons. Lo comitat crea una ret de solidarietat entorn a las familhas aculhias. «L'integracion d'aquelas personas es pas jamai estaa un problema - contínua Gianna Bianco - eron de blancs, pariers a nosautri e mai que tot arribavon da de zònas de guèrra. Pr'aquò eron pas vists coma de gent que venion a «nos raubar lo trabalh. Fins las mainaas, a l'escòla, emparavon ben fito, e an jamai aguts de problemas de lenga o d'inseriment». Lo comitat se bojava en maniera preventiva, cerchant un trabalh a las familhas avant qu'arribesson. «Dins las Comunas lhi a pas encuei de senhs evidents de la cultura de las famihas ospitaas - contínua Gianna Bianco - bèla se chal reconéisser que lhi bosníacs an dubèrt la via a l'arriu de lhi emigrants. Son estats lhi premiers musulmans a arribar ental cuneés, perque derant lo 1994 lhi avia pas d'estrangiers dins las valadas. Benlèu lo solet chambiamentes es estat l'increment e consum de charn d'anhèl. Soveno que chasque bòt que las familhas bosníacas se reüníon chatavon un anhèl viu, lo maselavon e lo cusineavon segond lor costuma. Aquò a fach aumentar lhi enlevaires de feas. E encuei, embe l'arriu di maroquins e d'autra gent de cultura musulmana, s'es entraïnat un ver e pròpri marchat qu'avant existia pas». Qualqu'una de las familhas bosníacas es emigraa en de país estraniers, d'autras son tornaas en Bòsnia. Aquelas que son restaas en Piemont se son de bèl avant integraas dal tot e vivon en de maisons de lor proprietat. Aicí a costat, entre Draonier e Vilar son tres las familhas que demòron. Mai una que s'es meiraa un pauc enlai, en val Grana.
Vist dal dedins... «Sem de bosníacs, originaris dal pichòt vilatge de Kozarac, a costat de Priedor, dins lo nòrd de la Bòsnia, e sem arribats a Draonier dins l'uvèrn dal 1993». Sead Mujanovic, arramba a sa frema Zilhada, soven embe rassenhacion l'event que 15 ans d'aquò a chambiat per sempre sa vita e aquela de sa familha. Era lo 26 de mai dal 1992, quora l'esércit sèrbe a començat a bombardar lo vilatge. «Finit lo bombardament, ensem a d'autra gent dal país sem salhits da las maisons embe un linçòl blanc e las mans auçaas - soven l'òme - perque volíem pas combàter còntra nòstri vesins. Un còmpte era se nos auguesso envaïts lhi tedèscs o lhi francés. Aquí seriu anat a defénder ma pàtria. Mas voliu pas combàter còntra mi "fraires"». Lhi soldats arreston Sead e lhi autri òmes coma desertors e lhi endriaion al champ de concentrament. Puei charjon fremas e mainaas sus un treno e lhi mandon enti champs refujats. «Nòstra maison es estaa brusaa - soven Zilhada Mujanovic - e iu, embe mi dui filhs Asmir de 8 ans e Damir de 3 siu finia derant dins un champ refujats bosníac, puei nos an trameirats al champ de Karlovac, en Croàcia. De mon òme deguna nòva. Es restat 93 jorns en champ de concentrament, après es arribat a fugir e a nos rejónher. L'ai laissat que pesava 90 quilos, quora l'ai revist era masque pus 50». A Karlovac la responsabla dal champ, una ex sòrre francescana que se sonava Alessandra Morelli, era en contact embe lo comitat d'aculhença de Turin. Que, a son torn, era en contact embe lo comitat de Draonier. «Arribats a Turins, nos son venguts quèrre en veitura - contínua Zilhada - e me soveno que veïu las montanhas s'avesinar sempre mai e montava dedins iu lo timor per nòstre avenir. Sabíem pas la lenga e nos chalia comunicar a gèsts». Sead, Zilhada e las doas mainas arribon finalament a Draonier: «Arribats en país nos an súbit aculhits e ajuats en totas manieras - soven Sead -. Per cinc mes nos an ospitats dins un lotjament, e m'an súbit trobat un trabalh. Ai començat da muraor, encuei trabalho en fàbrica e vivo dins una maison de ma proprietat al Vilar. En Bòsnia aviu lo diplòma per manovraire de pala mecànica e me trobavo ben. Auriu jamai pensat de me'n anar de mon país. Aüra siu obrier a la Bitron de Draonier, despuei 10 ans, construïsso parts per electrodomèstics e me trobo ben». Decò la frema Zilhada, qu'ailen en Bòsnia era frema de casa, trabalha coma obriera, sempre a la Bitron, per una cooperativa qu'assembla parts elèctricas. «Aicí puei ren dir que me tròbo pas ben - explica Zilhada -, bèla se patisso un pauc lo ritme frenétic de l'Itàlia: as chasque jorn programat e pòs jamai te fermar. Da nosautri lhi avia lo comunisme, e lhi ritmes eron ben mai relamats. Da quora siu aicí sufrisso de mal de tèsta crònic. Que quora torno enlai despareis completament». Totun, malgrat las dificultats de s'abituar ai novèls ritmes de vita, lhi espós Mujanovic, ensem a las mainaas, se son ben integrats din la societat locala: «Quora ai començat a trabalhar da muraor mon cap parlava masque piemontés - soven Sead -, parelh, en mai d'aver aprés l'italian, compreno decò un pauc de dialèct.» Decò Zilhada a aprés l'italian en trabalhant: «E se compreno pas l'occitan - explica - m'agradon ben las danças, bèla se son pro difrèntas da las nòstras. E sovent anem a las fèstas occitanas a Caralh o Draonier». Lhi a puei l'aspect culinari, un di motius per lo qual Sead, qu'es de bòna forcheta, es content d'èsser vengut a viure en Itàlia. «Da quora sem aicí al Vilar cusineo pro italian - explica Zilhada -. Entre colègas, al trabalh, nos passem las recètas. De bosníac contunho a far la pasta esfulhaa, chasque tres mes. E la garnisso embe de charn, de fromatge o de poms. En mai continuem a minjar tanta charn, coma aquela d'anhèl que cusinem ental jardin chasque bòt que fasem fèsta embe lhi amís». E las fèstas a maison Mujanovic son frequentas, ren masque embe las familhas bosníacas. E aquò es signe de bòna integracion. De bèl avant lor idea es de demorar en Itàlia. «Mi filhets son arribats qu'avion 3 e 8 ans - explica Zilhada -, an pas deguna intencion de tornar en Bòsnia. Donc nosautri demorarèm aicí embe lor. En Bòsnia lhi tornem almenc dui bòts a l'an a trobar amís e parents». Zilhada fai senh qu'es d'acòrdi, mentre a la television un canal bosníac sus paràbola manda las darrieras notícias da Sarajevo. «Iu amariu tornar en Bòsnia - explica -, ailen ai laissats lhi amís e lhi parents. Mas resto aicí. D'un cant per lhi filhs, da l'autre perque en fond seriu pas pus bòna viure coma derant. Aicí es ver qu'ai pas gaire de temp libre, mas quora puei pilho la veitura e vau en país. En Bòsnia la veitura l'auriu pas, e restariu totjorn a maison. E puei son pròpi lhi costums que son diferents: ailen se te ven vuelha de veire un amís, passes a sa maison quora vòs, sensa avís. Aicí te chal derant telefonar. E quora vau enlai arribo pus a far coma un temp». Una chausia en part subia aquela di Mujanovic, perque se d'un cant Sead e Zilhada se senton pus de tornar a Priedor, da l'autre a Vilar Sant Costanç se senton encà d'estrangiers. «Lhi italians an paor de nosautri estrangiers - explica Zilhada -, e la gent d'aicí es pas tròp dubèrta. Te chal ganhar pauc per bòt lor confiança, demostrant que sies una brava persona. Mas iu lhi capisso. Per dir, ente trabalho lhi a un baron de maroquins. Decò lor son de musulmans, mas iu lhi parlo pas. Son de gent difrènta, son tanti e ben maleducats. Coma decò lhi albanés». Sead jonta: «Regard a lhi italians, sovent son gelós. Críticon lo biais que vivem e se demandon coma vai qu'avem una maison nòstra, magara fins pus bèla de la lor qu'an erditaa dal peté. Mas iu per l'aver ai tabalhat jorn e nuech. Ai resparmiat sus la man d'òbra fasent tot da solet. Per sieis ans me siu revelhat a 5 e mesa, me fermant a far fèsta un jorn a l'an. De fatigas que lor an nimanc pas sumiaas. E encuei, coma bastesse ren, lo mútue m'es aumentat da 740 a 1040 euro. Es finit lo temp qu'en Itàlia s'istava ben. Avem trabalhat jorn e nuech per bastir aquesta maison e benlèu aüra nos chalerè la vénder. Perque arribem pus a la mantenir.»
BOX La Bòsnia- Erzegovina La Bòsnia- Erzegovina es un Estat di Balcans, embe capitala Sarajevo, popolat da 4 milions e metz de personas, qu'a fach part fins al 1992 de la Federacion Jugoslava. Bòina a nòrd est embe la Sèrbia, a sud est embe lo Montenègre e a nòrd, sud e sud oest embe la Croàcia. A un pòrt dins la vila de Neum, sus la mar adriàtica, solet abòrd dal pichòt país. L'istòria recenta de la region balcànica comença embe la victòria di partisans de Josip Broz, coneissut coma lo general Tito, sus lo nazifascisme dins la seconda guèrra mondiala, quora naisset la República Socialista Federala de Jugoslàvia, de la qual la Bòsnia venguet part integranta. Detz ans après la mòrt dal general Tito, ental 1991, las repúblicas que formavon la Jugoslàvia decideron a majorança de desfar l'union federala. L'enlora president de la Sèrbia Slobodan Milošević cerchet de s'opausar al dessenh secessionista des autras repúblicas. E la minorança sèrba de Bòsnia, après las declaracions d'indipendença d'Eslovénia e Croàcia, tement que decò la Bòsnia polguesse arribar a la secession, comencet a se bojar per prevenir chasque temtatiu en aquel sens. A una "declaracion de sovranitat" bosníaca, proclamaa lo 15 d'otobre dal 1991, seguiet la convocacion d'un referendum per l'indipendença da la Jugoslàvia, que se tenet lo 29 de febrier e lo premier de març dal 1992: la consultacion, boicotaa da la comunitat sèrba, auguet lo 64% de vots favorables a l'indipendença. Aquò menet al desplegament da part dal govèrn de Belgrad de sas tropas sus lo territòri bosníac e a la mobilitacion de formacions militaras e paramilitaras da part di tres grops ètnics bosníacs: croats, sèrbs e musulmans. Lo 5 d'abril 1992, a Sarajevo, de tiradors sèrbes durberon lo fuec sus una manifestacion popolara, maçant un dimostrant. Lo jorn venent, la Comunitat Europèa reconeisset l'indipendença de la Bòsnia-Erzegovina; la Sèrbia respondet en proclamant la secession de la República Sèrba de Bòsnia-Erzegovina, prenent lo contròl militar d'a pauc près lo 70 % dal territòri nacional. La violença interètnica avampet en tot lo país, causant un baron de mòrts decò entre la populacion civila. Lo 2 de mai dal 1992 l'esèrcit federal e las milícias sèrbas bloqueron totas la entradas a Sarajevo, sarrant la capitala sot un sètge destinat a durar ben 43 mes. Massacres, viòls, e deportacions prosegueron durant tota la guèrra, dins un scenari de policia ètnica culminat, ental lulh dal 1995, dins lo massacre de Srebrenica, costat la vita a l'environ 8.000 civils bosníacs. L'orror suscitat en tot lo mond da aquel massacre determinet una viraa dins l'atejament de la comunitat internacionala, lhi quals esfòrç diplomàtics avion agut coma solet resultat la presença de fòrças de l'ONU a defensa de l'areopòrt de Sarajevo, solet liam entre la capitala e la resta dal mond, e de qualqua enclava bosníaca dedins lo territòri ocupat dai sèrbs, compresa decò Srebrenica. Dins l'avost dal 1995 la Nato lancet una campanha de bombardaments aerencs sus las postacions de las milícias sèrbas, permetent parelh l'avançada de las fòrças armaas croatas que marquet la fin dal conflict. Lo 21 de novembre dal 1995 a Dayton, en Ohio (USA), lhi caps d'estat bosníac Alija Izetbegović, sèrbe Slobodan Milošević e croat Franjo Tuđman signeron l'acòrdi de patz, que convertet la Bòsnia-Erzegovina dins una república federala, assenhant lo 51% dal territòri a la Federacion de Bòsnia-Erzegovina e lo restant 49% a la República Sèrba. La guèrra se sarret embe un bilanç d'a pauc près 102.000 mòrts e 1.326.000 refujats, lo mai grèu sus lo sòl europèu despuei la fin de la seconda guerra mondiala. Dins lo desembre dal 2007 la Bòsnia-Erzegovina a parafat embe l'Union Europèa l'Acordi d'estabilizacion e d'associacion, fasa preliminara a la signatura vera e pròpria de l'acòrdi de preadesion a l'Union Europèa.
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I bosniaci del Villar
"Vivem un novel país"
Inchiesta sulle comunità immigrate nelle Valli Occitane [continue]
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