Indice.



1. Cenni sull'Occitania d'oltralpe. 



1.1 Dai Trovatori all'Ottocento.

1.2 L'Ottocento. Il Felibrige. Da Mistral ad Alibert.

1.3 L'occitanismo del secondo dopoguerra.

1.3.1 L'I.E.O.

1.3.2 François Fontan e l'occitanismo politicizzato.



2. L'Occitania italiana.



2.1 Cenni di storia delle valli occitane.

2.2 Il mondo valdese.

2.3 La presa di coscienza etnico-linguistica nelle valli: dalla Dichiarazione di Chivasso all'Escolo dóu Po.

2.3.1 "Coumboscuro" e l'"Escolo dóu Po".

2.3.2 "La Valaddo".

2.4 La morte dell'Escolo dóu Po e l'emergere dell'"altro" occitanismo.

2.5 L'occitanismo degli anni Settanta.

2.5.1 "Lou Soulestrelh".

2.5.2 "Ousitanio Vivo".

2.5.3 "Novel Temp"/"Lou Temp Nouvel".

2.5.4 "Valados Usitanos".

2.6 Dagli anni Ottanta ad oggi.




NOTE. 



BIBLIOGRAFIA.






1-Cenni sull'Occitania d'oltralpe.



1.1-Dai trovatori all'Ottocento.



Le prime documentazioni scritte dell'occitano risalgono alla fine del X secolo: esse sono un frammento in decasillabi di un poema su Boezio e una Canzone di Santa fede di Agen.

In forme miste di latino-occitano sono invece alcuni documenti risalenti al IX secolo. I primi testi in prosa risalgono al IX-XI secolo: la traduzione di alcuni capitoli del Vangelo di San Giovanni e un testo di sermoni e precetti religiosi.

Tuttavia, si può parlare di una vera e propria civiltà occitanica soltanto a partire dall'inizio del XII secolo: sono di questi anni le prime poesie dei trovatori, che daranno vita al periodo di massimo splendore della lingua e della letteratura occitaniche.

L'importanza dei trovatori per la storia della letteratura occidentale è riconosciuta da Dante nella Divina Commedia, in cui citando Arnaud Daniel - l'unico personaggio dell'opera che parla in una lingua straniera – rende omaggio alla tradizione trobadorica, e nella Vita Nova (XXV, 4), laddove il poeta fiorentino spiega che "non è molto numero d'anni passati, che appariro prima questi poete volgari", i quali sostituirono all'uso della lingua latina fino a quel momento adoperata nella scrittura quello del volgare, conferendo dignità letteraria all'idioma (il parlar materno) prima adoperato soltanto nella vita quotidiana (verso 117).

I trovatori diedero vita ad una vera e propria koinè caratterizzata da una tendenziale unità linguistica e una minima differenziazione regionale (1), probabilmente, come sostiene Kremnitz, per la necessità di comporre poesia comprensibile da un pubblico il più vasto possibile (2).

Tra le soluzioni adottate per la trascrizione dell'occitano riscontriamo l'uso dei digrammi <lh> e <nh>, ripresi poi, come vedremo, dai sistemi ortografici moderni dell'occitano di Francia e d'Italia.

Nello stesso periodo, l'occitano era anche usato come lingua giuridica e amministrativa: essa era modellata sul latino ed era di fattura tolosana anziché limosina, quale era invece quella dei trovatori (3); questa lingua manterrà la propria unità fino al XIV secolo, fino a quando cioè inizieranno ad avvertirsi i primi effetti della frammentazione dialettale e dell'influsso del francese.

Con il progressivo aumento del potere francese, la grafia dell'occitano iniziò a mutare sotto l'influsso della lingua dominante.

Le prime codificazioni dell'occitano sono dei manuali per l'insegnamento della lingua: Las razos de trobar di Raimon Vidal de Besalú, il Donat proensal di Uc Faidit, entrambi del XIII secolo, e, di un secolo successivo, le Leys d'Amor pubblicate dal Concistori del Gai Saber.

Tuttavia, ai tempi delle Leys, la lingua era ormai in agonia, ed infatti l'opera fu scritta nel disperato tentativo di rilanciarne l'uso.

Si può datare al periodo tra il 1209 e il 1229 l'inizio della decadenza della civiltà occitanica e della sua lingua: la ventennale guerra condotta dalla Chiesa e dal re di Francia, con il pretesto di una crociata contro la setta eretica degli Albigesi, contro le ricche e potenti corti feudali dei grandi signori meridionali portò alla distruzione della civiltà occitanica e della sua cultura, e terminò con l'assoggettamento politico delle corti del Sud ai domini della Corona.

I modelli della corte di Parigi si sostituirono a quelli della società cortese e i trovatori lasciarono le corti della Francia meridionale andando a rifugiarsi oltre le Alpi e i Pirenei.

L'occitano continuò a resistere come lingua scritta nell'ambito amministrativo fino a circa la seconda metà del XV secolo, quando la Corona iniziò a promuovere la lingua francese anche in campo giuridico- amministrativo; tuttavia, se le ordinanze reali del 1490 permettevano ancora una coesistenza del francese e della lingua locale per la redazione dei testi giuridici - il concorrente principale del francese fino a quell'epoca era stato il latino -, fu soltanto con l'Editto di Villers-Cotterets (1539) che la corona vietò ufficialmente l'uso nei testi pubblici sia del latino sia delle lingue locali, declassando quindi l'occitano al ruolo di patois orale del Sud della Francia.

Nella seconda metà del XVI secolo l'occitano è utilizzato come lingua letteraria da Pey de Garros e da Louis Bellaud; nel secolo successivo da Pierre Goudouli in poesia e da François de Cortète nel teatro; e ancora, nel XVIII secolo da Jean-Baptiste Fabre e dal compositore Jean-Joseph Cassanéa de Mondonville.

Per quanto riguarda la lingua parlata, essa continuò invece a sopravvivere ininterrottamente, nelle diverse varianti locali, sino alla Rivoluzione francese.

Dopo un primo periodo in cui l'Assemblea Nazionale decise di tradurre le leggi e i decreti più significativi nei diversi idiomi presenti in Francia, così da renderli accessibili alla popolazione, il governo rivoluzionario passò successivamente ad una politica linguistica repressiva contro le lingue di minoranza, volta ad instaurare il francese come unica lingua nazionale.

Gli effetti furono devastanti per una lingua che, come aveva dimostrato un sondaggio sulla situazione linguistica francese condotto dall'abate Grégoire tra il 1790 e il 1792, era ancora molto diffusa a livello orale nelle diverse varietà locali del sud della Francia, a differenza del francese che era conosciuto da un'esigua élite della popolazione: il 12% della popolazione conosceva a malapena la lingua nazionale, mentre il 50% era del tutto incapace di parlarla (4).

La politica linguistica adottata dal governo rivoluzionario in seguito al sondaggio dimostra il chiaro intento di imporre la lingua nazionale non soltanto nell'ambito pubblico, ma anche in quello privato;

l'ideale monolinguista dell'abate Grégoire, il cui rapporto si intitolava Sur la nécessité et les moyens d'anéantir les patois et d'universaliser l'usage de la langue française (5), divenne l'ideale della Francia rivoluzionaria, la cui omogenità linguistica era ritenuta una delle condizioni fondamentali per il buon funzionamento della società politica.

Alcune dichiarazioni fatte da Grégoire nel 1793 riassumono in modo chiaro lo spirito dell'epoca:

L’unité de la République commande l’unité d’idiome et tous les Français doivent s’honorer de connaître une langue (Nota: il francese) qui désormais, sera par excellence celle des vertus du courage et de la libertè»

«Il serait bien temps qu’on ne prêchât qu’en français, la langue de la raison. Nous ne voyons pas qu’il y ait le plus petit inconvénient à détruire notre patois, notre patois est trop lourd, trop grossier. L’anéantissement des patois importe à l’expansion des Lumières, à la connaissance épurée de la religion, à l’exécution facile des lois, au bonheur national et à la tranquillité politique»

«Néanmoins la connaissance et l’usage exclusif de la langue française sont intimement liés au maintien de la liberté à la gloire de la République. La langue doit être une comme la République, d’ailleurs la plupart des patois ont une indigence de mots qui ne comporte que des traductions infidèles. Citoyens, qu’une saine émulation vous anime pour bannir de toutes les contrées de France ces jargons. Vous n’avez que des sentiments républicains: la langue de la liberté doit seule les exprimer: seule elle doit servir d’interprète dans les relations sociales» (6)

I decreti emanati negli anni successivi miravano ad annientare, anche nell'uso parlato, gli idiomi locali; nell'articolo 6 del Décret complémentaires relatifs à l'organisation de l'écoles des 5, 7, 9 Brumaire Ann II (26, 27, 28 octobre 1793) si legge: "L'enseignement public est partout dirigé de manière qu'un de ses premiers bienfaits soit que la langue française devienne, en peu de temps, la langue familière de toutes les parties de la République" (7).

All'occitano fu assegnato il ruolo di patois, inteso in senso dispregiativo, e coloro che continuarono a scriverlo dovettero ricorrere a grafie di propria fantasia, adottando le convenzioni ortografiche del francese o ricorrendo a soluzioni più o meno fantasiose (8).

La scuola, il cui obbligo di frequenza fu istituito nel 1861 e con il francese quale unica lingua d'insegnamento, contribuì in maniera determinante fino a non molti anni fa alla repressione dell'uso dell'occitano e ad istillare nei giovani parlanti un complesso di inferiorità verso la propria lingua materna.

Emblematiche sono le testimonianze di alcuni occitani d'oltralpe intervistati nel 2008 durante il viaggio transfrontaliero "Occitania a pè" e riassunti nel video di Elisa Nicoli intitolato Lo senhal: una lingua vietata a scuola.

Un testimone racconta che se un alunno veniva sorpreso dal maestro mentre parlava nella propria lingua materna con un altro compagno era costretto a portare al collo il senhal, un pezzo di legno colorato che lo esponeva alla derisione dei compagni; soltanto denunciando un altro compagno poteva liberarsi del senhal, che sarebbe passato al collo del nuovo "colpevole".

Una donna racconta che un suo parente fu costretto a copiare per ben cinquecento volte la frase: "aspic, en français lavande".

Molti confessano la vergogna che provavano per il proprio idioma materno: un uomo afferma che si vergognava di suo padre perché parlava male il francese; un altro ricorda che la nonna gli ripeteva: "Non parlare occitano, parla francese, altrimenti non riuscirai mai nella vita".

Non stupisce quindi che uno dei testimoni affermi che "in Francia la scuola ha ucciso l'occitano".



1.2-L'Ottocento: il Felibrige. Da Mistral ad Alibert.



Il Romanticismo dell'Ottocento, che segna un ritorno alle radici e alla tradizione stimolando i primi studi sulla linguistica romanza e portando alla riscoperta della poesia trovadorica , riporta l'attenzione sulla lingua occitana promuovendone la ripresa anche nella produzione letteraria.

A quest'epoca l'occitano era molto diffuso come lingua orale nelle regioni del Sud della Francia, soprattutto nelle zone rurali, ma esso veniva percepito negativamente e definito con connotazione denigratoria patois in contrapposizione al francese, lingua letteraria e nazionale.

La rivalutazione dell'occitano iniziò ad affermarsi in seguito ai primi studi di linguistica romanza che dimostrarono che l'occitanico non era una "corruzione" dialettale del francese, ma una lingua a se stante con un'illustre tradizione letteraria -quella trobadorica - alle spalle.

Fu il Félibrige (9), movimento sorto a metà del XIX secolo, a dare il via alla (ri)nascita del sentimento etnico e alla produzione letteraria in lingua, conferendo una nuova dignità all'occitano.

Esso fu fondato ufficialmente il 21 maggio del 1854 da un gruppo di sette intellettuali e poeti: Frédéric Mistral, Théodore Aubanel, Anselme Mathieu, Jean Brunet, Paul Giera, Alphonse Tavan e Joseph Roumanille. L'obiettivo principale del gruppo, enunciato nel primo statuto del 1862, era quello di "conserver longtemps à la Provence sa langue, son caractère, sa liberté d’allure, son honneur national et sa hauteur d’intelligence", laddove per Provenza si intendeva "le midi de la France tout entier" (10).

I felibristi divisero l'Occitania – che loro chiamavano Provenza – in regioni dialettali, le mantenenço, le quali furono ulteriormente suddivise in escolo (scuole).

L'organizzazione interna prevedeva un gruppo di manteneire (conservatori) e uno di majourau (maggiorali), i quali riuniti in assemblea eleggevano uno di loro capoulié.

Organo del movimento era la rivista intitolata "Armana prouvençau, fondata nel 1895; fu sulle pagine della rivista che i felibristi sperimentarono nel corso degli anni la grafia fonematica detta, secondo alcuni impropriamente, "mistraliana": essa fu infatti ideata da Roumanille ma viene chiamata così in quanto Mistral, dapprima recalcitrante e sostenitore di una grafia a base etimologica, la adottò poi su pressione dell'editore e maestro Roumanille nella composizione del poema in versi intitolato Miréio, premiato con il Nobel nel 1904 (per approfondimenti sulla grafia mistraliana si veda il capitolo Le grafie), e nella composizione del dizionario provenzale-francese intitolato Lou Tresor dóu Felibrige, ou Dictionnaire Provençal-Français, nel quale sono riportate le varianti dialettali di ogni lemma (1878).

Si possono quindi ascrivere al Felibrige il merito della rinascita moderna dell'occitano e la prima normalizzazione della lingua scritta.

Tuttavia, ben presto nacque all'interno del felibrismo un movimento di opposizione che ne criticava l'ideologia clerico-monarchica e il sistema ortografico adottato.

Il cosiddetto felibrismo "rosso" diede quindi alla luce una nuova grafia di ispirazione trobadorica e di matrice etimologica: essa fu ideata dal felibro majourau Joseph Roux, perfezionata da Prosper Estieu e Antonin Perbosc e infine affinata da Lois Alibert – dal quale prenderà il nome di grafia "alibertina", anche detta "classica" o "normalizzata" - che pubblicò nel 1935 la Grammatica Occitana e un dizionario francese-occitano (per approfondimenti sulla grafia mistraliana si veda il capitolo Le grafie); questa grafia fu poi adottata e divulgata dalla Societat d'Estudis Occitans (S.E.O.), fondata nel 1936 a Tolosa, ed è oggi la grafia ufficiale dell'Institut d'Estudis Occitans (I.E.O.).

Le differenze tra i due sistemi ortografici, quello mistraliano di matrice fonematica e quello alibertino di matrice etimologica, rivelavano una visione politico-linguistica ed un approccio alla lingua completamente diversi.

Innanzitutto, se per i felibristi la lingua scritta doveva essere uniformata intorno alla parlata provenzale rodaniana avente come riferimento le pronunce tipiche della regione tra Arles e Avignone, emarginando quindi le altre varianti locali, per Alibert la lingua doveva essere "la sintesi delle parlate naturali di tutta una nazione e la sintesi degli scrittori antichi e moderni"(11).

Al provenzale rodaniano veniva contrapposto il linguadociano centrale, essendo il dialetto che "era rimasto il più vicino all'antica lingua dei trovatori" ed "equidistante e centrale fra i vari dialetti occitani" (12); essendo inoltre una grafia etimologica, essa non faceva riferimento ai grafemi del francese per la trascrizione dei dialetti, come invece la mistraliana, ed affermava quindi la piena autonomia dell'occitano rispetto all'idioma nazionale.




1.3-L'occitanismo del secondo dopoguerra.



1.3.1-L'I.E.O.



Negli anni Trenta i bretoni, nell'ambito di un progetto di rivendicazione di una nazionalità separata, didero vita ad un "Comitato delle minoranze nazionali di Francia", nel quale entrarono a fare parte anche i due poeti Reboul e Camproux, fondatori nel 1935 del Partit Provençal che riprese l'ideale federalista dei felibristi inserendolo all'interno di un programma socialista più ampio; organo del partito era la rivista «Occitania» che, come vedremo, fu il primo punto di contatto tra gli occitani d'Italia – in particolare i valdesi Giovanni Jalla e Teofilo Pons - e gli occitani d'oltralpe.

Un passo importante nei confronti della lingua occitana fu fatto nel 1941 dal governo di Vichy: per la prima volta nella storia di Francia furono autorizzati nei locali scolastici, al di fuori delle ore di lezione, corsi facoltativi di lingua dialettale; ma quando nel 1944 De Gaulle salì al potere, tutte le leggi emanate da Vichy furono abolite.

Finita la guerra, alcuni studiosi che avevano partecipato alla Resistenza antifascista insieme ad alcuni vecchi esponenti della Societat d'Estudis Occitans fondarono a Tolosa l'Institut d'Estudis Occitans.

L'I.E.O., che opera esclusivamente sul piano culturale, è l'istituzione che più di ogni altra ha contribuito in Francia alla diffusione della lingua e della cultura occitana occupandosi da un lato di fornire materiali di studio e di analisi in vari campi (economico, linguistico, sociologico, etc.), dall'altro lato di organizzare una capillare azione pedagogica su vasta scala.

Canciani e De La Pierre mettono in evidenza l'importanza dell'I.E.O. e il diverso approccio alla lingua rispetto al Felibrige:

Contro l'ideale statico del Felibrige, espresso nel termine di maintenance (conservazione) della lingua d'oc, l'IEO svilupperà – in modo esplicito nell'Assemblea generale di Bédarieux del 1962 – il concetto di «riconquista»: una lingua che è minacciata di morte può essere salvata solo con un'azione attiva, dinamica, e l'insegnamento della lingua, anche e soprattutto nelle scuole pubbliche, è lo strumento di questa strategia (14).

Per il progetto dell'I.E.O. di rilancio della lingua tramite l'insegnamento furono determinanti le leggi emanate dal governo francese a partire dal 1951: è di quest'anno la legge Deixonne, che permette l'insegnamento della lingua e dei dialetti e delle culture locali – il bretone, il basco, il catalano e «la lingua occitana» - come materia facoltativa, anche se per un'applicazione concreta della legge si dovette attendere sino al 1969 , quando fu emanata la circolare intitolata "Insegnamento delle lingue e culture regionali nelle scuole elementari, medie e superiori"; con la legge Haby del 1975 l'insegnamento, prima limitato alle sole scuole medie superiori, fu esteso a tutto il percorso di studi; infine, la circolare Savary del 1982 concretizzava le promesse fatte da François Mitterand durante la campagna elettorale del 1981 (15) e forniva un quadro dettagliato sulle modalità di insegnamento, ancora facoltative, delle lingue e delle culture "regionali" dalle scuole primarie alle università.

Un notevole successo ebbero le calandretas, scuole materne ed elementari fondate nel 1979 e ancora oggi in espansione, nelle quali tutte le materie oggetto di studio sono impartite o esclusivamente in occitano oppure in occitano e francese.



1.3.2-François Fontan e l'occitanismo politicizzato.



Altra figura importante per la rinascita dell'occitano e determinante per la nascita dell'occitanismo politico non solo in Francia, ma anche nelle valli cuneesi fu François Fontan, personaggio molto discusso, creatore dell'"ethnisme" - o "nationalisme humaniste" o "humanisme scientifique" - ovvero una teoria basata su una revisione su base etnica della sociologia marxista e della psicoanalisi reichiana; secondo questa teoria, che criticava l'attuale ripartizione territoriale degli Stati-Nazione, l'umanità avrebbe dovuto essere suddivisa in nazioni etniche; alla base di tale suddivisione era la lingua, l'elemento identitario più importante secondo Fontan:

La seule définition objective, vérifiée par les fais, de la nation, est celle basée sur la langue indigène, seul critère utilisable pratiquement pour la détermination des nations et pour l'appartenance des territoires (16).

Il pensiero di Fontan si affermò negli anni Cinquanta sotto l'influenza del processo di decolonizzazione iniziato a partire dal secondo dopoguerra e culminato, per quanto riguarda la Francia, con l'indipendenza algerina nel 1962. Secondo il programma di internazionalismo etnico proposto da Fontan, tutti i popoli linguisticamente definiti avevano diritto a riscoprire la propria identità e ad affermare la propria indipendenza: egli sostenne attivamente l'indipendenza algerina, difese il sionismo, i Khmrs del Kampuchea, i francesi del Quèbec, i Baschi e molte altre minoranze etniche.

In questo contesto storico ed ideologico si colloca la sua elaborazione dell'autonomismo occitano, il cui fine ultimo era la creazione di uno Stato occitanico indipendente e per la cui attuazione fondò nel 1959 il Parti Nationaliste Occitan (P.N.O.), che aveva come organo di stampa la rivista "Lu Lùgar".

Gli obiettivi ed i mezzi con i quali il partito si proponeva di realizzare l'autonomia sono elencati nello Statuto: "L'objectif primordial du parti est la réalisation de l'indipéndance politique, économique et culturelle de l'Occitanie, dans ses limites ethno-linguistiques"; il progetto di unificazione riguardava anche la lingua, sia scritta che parlata: esso sarebbe stato attuato mediante una sintesi dei diversi dialetti e sulla base di una grafia fonetica (per approfondimenti sulla grafia fontaniana si veda Le grafie); la lingua nazionale sarebbe stata la sola lingua dell'amministrazione, dell'editoria e dell'insegnamento.

Lo Statuto prosegue enunciando gli obiettivi politici ed economici: "Chaque nation doit former un état unifié et souverain, juissant de l'indépendance politique et de légalité juridique vis-à-vis des autres nations"; gli stranieri avrebbero potuto risiedere sul territorio nazionale soltanto se autorizzati dallo Stato, ma senza poter rivestire alcun ruolo politico o militare; e ancora: "Chaque nation doit obtenir son indépendance économique"; il commercio estero sarebbe stato controllato o monopolizzato dallo Stato.

I mezzi per la realizzazione dell'autonomia sarebbero stati la propaganda, l'azione di massa e la resistenza passiva ed infine, se necessario, la guerra di liberazione nazionale. In ogni nazione avrebbe dovuto esserci un movimento che si proponeva la realizzazione di questi obiettivi (17).

Nell'attesa di raggiungere tali obiettivi, il P.N.O. si dotò di un "programme national transitoire", le cui misure intermedie verranno in parte riprese nello statuto e nelle proposte del Movimento Autonomista Occitano (M.A.O.) fondato da Fontan in Valle Varaita, dove si era rifugiato nel 1964.

In La nation occitane. Ses frontières, ses régions del 1969 Fontan traccia i confini dell'Occitania con gli Stati e i popoli limitrofi; nella seconda parte del libro definisce le province dello Stato Occitano, tra le quali figurano anche le valli occitanofone d'Italia.

A partire dagli anni Sessanta iniziano ad emergere alcune correnti politicizzate dell'occitanismo; il P.N.O. fu il primo movimento politico organizzato ma, per vari motivi, non ebbe molto seguito in Francia (18) (Fontan divenne invece una figura di riferimento nell'Occitania italiana, come vedremo).

Nel 1961-1962 ebbe luogo a La Sala (ribattezzata Decazeville dal nome dell'antico proprietario della miniera) uno sciopero dei minatori - ribattezzati nella canzone di Joan Bodon "occitans sens o saber" (19) - contro la chiusura della miniera di carbone; il vasto movimento di solidarietà e di protesta che ne seguì costituì l'occasione per l'occitanismo politico, fino ad allora circoscritto a minoranze intellettuali, di legare una lotta che fino a quel momento era stata prevalentemente intellettuale, culturale e linguistica alle ragioni economiche e sociali del mezzogiorno francese (20).

Alcuni intellettuali occitanisti, che accusavano l'I.E.O.di "culturalismo", fondarono il Comitat Occitan d'Estudis e d'Accion (C.O.E.A.), un "club de pensée" che sotto la guida di Yves Rouquette divenne il centro propulsore delle ricerche sulla realtà sociale dell'Occitania, ricerche che faranno del C.O.E.A. negli anni Sessanta il crogiolo della coscienza politica del nuovo occitanismo (21).

I concetti di "colonialismo interno" e "deportazione economica", fino ad allora applicati ai paesi neo-coloniali, furono estesi anche alla situazione economica dell'Occitania: secondo queste teorie, il centro governativo, lontano e percepito come insensibile ai problemi locali, stava mettendo in atto una politica di sfruttamento delle risorse locali del "mezzogiorno", incrementando il turismo e cementificando la costa; questa politica escludeva tuttavia la popolazione indigena a favore delle multinazionali parigine e straniere, favorendo lo spopolamento del sud della Francia e l'emigrazione forzata dei giovani in cerca di nuove possibilità lavorative (come vedremo, sono gli stessi problemi che in quegli stessi anni erano al centro delle rivendicazioni politiche dell'occitanismo militante nelle valli cuneesi e torinesi).

Il C.O.E.A.caldeggiava una nuova suddivisione territoriale che tenesse conto delle particolarità etniche e culturali, un'«Europa delle regioni», ovvero dei popoli etnicamente simili, basata su un'economia decentrata che concedesse maggiore autonomia decisionale, finanziaria e amministrativa alle regioni.

Le ricerche in campo economico avviate dagli intellettuali del C.O.E.A.saranno il punto di partenza per la nascita, nel clima della contestazione studentesca verso la fine degli anni Sessanta e del "maggio parigino", di numerosi gruppi e movimenti, come ad esempio il Comité pour la révolution socialiste des régions fondato da alcuni esponenti del C.O.E.A., la Federazione anarchica occitana e i numerosi Comitats d'Accion Occitana sorti indipendentemente dal C.O.E.A. come gruppi spontanei di "propaganda e di azione psicologica".

Nacque in questo contesto anche la canzone di protesta occitana, che si diffonderà anche nell'Occitania italiana.

All'inizio del 1971 si tenne l'ultima assemblea del C.O.E.A., che si dissolse in quell'occasione a causa delle critiche di "intellettualismo" e "riformismo" avanzate dai giovani appartenenti ai Comitats d'Accion – tra i quali figurano anche gruppi di maoisti, trockisti e anarchici -; nacque al suo posto Lucha Occitana, che prenderà parte attivamente alle lotte e alle manifestazioni dei lavoratori occitani; di impostazione marxista-gramsciana, Lucha Occitana sosteneva la lotta di classe come base per la lotta di liberazione nazionale – in alcuni casi si parlava di "diritto all'indipendenza"- , in contrapposizione al "regionalismo" del C.O.E.A.; il programma di L.O. auspicava "la decolonizzazione totale degli occitani come parte della lotta mondiale contro l'imperialismo" (22).

L'occitanismo si era dunque politicizzato e si alleava sempre più spesso alle proteste dei lavoratori e della popolazione locale che a partire dai primi anni Settanta iniziarono ad agitare i territori dell'Occitania francese: dalla protesta, a partire dal 1973, dei contadini-pastori del Larzac contro il progetto governativo per l'ampliamento della base militare alle lotte dei viticoltori della Linguadoca del 1975-1976.

Importanti furono anche i numerosi comitati locali Volèm viure al païs, sorti a partire dal 1971 e il cui nome ricalcava uno slogan apparso durante la prima manifestazione del Larzac: a differenza di Lucha Occitana, essi sostennero inizialmente il "programma comune" della sinistra francese che, tra il 1972 e il 1977, concesse speranze alla rivendicazione decentralizzatrice e regionalista; tuttavia, a partire dal 1977, la delusione nei confronti della sinistra li spingerà verso accenti più "nazionalisti".

La deriva violenta della "guerra del vino" in Linguadoca tra il 1975-1976 segnò anche la crisi dei movimenti occitanisti politicizzati che avevano preso parte alle proteste; le alternative che si prospettavano in questa fase sono riassunte da Canciani e De La Pierre nel libro Le ragioni di Babele:

Molti occitanisti si accorgono che la rivendicazione occitana non può identificarsi con la lotta dei viticoltori, per di più di una sola regione. E l'indebolirsi di una mobilitazione di massa che pure aveva voluto essere in qualche modo occitanista rischia di lasciare all'occitanismo solo tre alternative comunque negative per la sua caratterizzazione di movimento autonomo: "specializzarsi" nella difesa della piccola economia locale (come quella dei viticoltori); ricadere nel "ghetto" culturalista o nazionalista, oppure legare le proprie sorti a quelle della sinistra "francese" (23).

Come abbiamo visto, "il regionalismo democratico" proposto dalle sinistre unite aveva favorito l'avvicinamento di alcune correnti dell'occitanismo con alcuni partiti della politica istituzionalizzata; con la crisi dell'unità della sinistra a partire dal 1976-77 si affermò il Partito Comunista Francese come unico possibile interlocutore nella contestazione allo Stato centralizzatore, anche se l'occitanismo militante era ormai frammentato in una miriade di gruppi locali caratterizzati da una generale anarchia organizzativa.

Al sorgere degli anni Ottanta fu il Partito Socialista di Mitterand a riaccendere le speranze degli occitani; tuttavia, le dichiarazioni fatte da Mitterand in campagna elettorale a favore del "diritto alla differenza" dei popoli, della loro lingua e cultura, la legge Deferre sulla decentralizzazione approvata nel 1981 e l'affidamento all'occitano Henri Giordan dell'incarico di elaborare un progetto per mettere in pratica il "diritto alla differenza" non ebbero conseguenze pratiche.

A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta restano dell'occitanismo dei decenni precedenti da un lato una miriade di piccoli gruppi locali, sopravvivenze delle vecchie organizzazioni, dall'altro lato una componente intellettuale - che ha nell'I.E.O.il principale centro propulsore - che continua ancor oggi a svolgere un lavoro di ricerca scientifica e di organizzazione culturale e a promuovere la letteratura e la lingua con un'intensa attività editoriale.

Nel campo della promozione culturale, è inoltre da ricordare il C.I.R.D.O.C., la più grande biblioteca occitana nata nel 1999 a Béziers che raccoglie attualmente oltre 80.000 documenti (manoscritti, libri antichi, spartiti, riviste, registrazioni sonore, etc.) e si propone di salvaguardare, promuovere e diffondere il patrimonio e la creazione culturale occitana.

Sul piano legislativo, da segnalare è l'articolo 75-1 che, con la revisione costituzionale del 23 luglio 2008, introdusse le lingue regionali come appartenenti al patrimonio culturale e linguistico della Francia.




2-L'Occitania italiana.



2.1-Cenni di storia delle valli occitane.



Le valli occitane del Piemonte sono state caratterizzate nel corso dei secoli da una notevole frammentazione politico-amministrativa, religiosa e linguistica.

Per quanto riguarda le basse valli, esse furono contese nel corso dei secoli a partire dalla fine dell'alto medioevo da diversi marchesati e contee (il marchesato di Saluzzo, i Savoia, gli Angiò); alla fine del XIV secolo iniziò la lenta e graduale conquista dei Savoia che si concluse soltanto nel XIX secolo.

La alte valli godettero invece di una certa autonomia, almeno fino a quando non furono assoggettate ai domini dei Savoia.

La Contea di Tenda, che era sotto il dominio dei Lascaris e raggruppava le comunità di Vernante, Limone, Tenda e Briga, passò ai Savoia sul finire del XVI secolo; la valle Stura da Aisone in su, se nel 1388 passò nominalmente sotto il dominio savoiardo rimase tuttavia amministrativamente legata alla confinante valle dell'Ubaye nella castellania di Barcellonette fino all'inizio del Seicento; Demonte e Roccasparvera restarono ai Bolleris fino all'infeudamento nel ducato piemontese nella seconda metà del XVII secolo; la "Repubblichetta" della Val Maira mantenne per circa quattro secoli una certa autonomia politico-amministrativa fino alla conquista sabauda nel XVII secolo (24).

Un discorso a parte va fatto per le altre valli occitane del cuneese e del torinese che facevano parte della cosiddetta République des Escartons..

Una breve storia di questa comunità è tracciata da Franco Bronzat e Sergio Ottonelli in La Repubblico de louz Escartons e in La Fine de la Republique des Escartons, pubblicati su "La Valaddo"; sebbene la data di nascita degli Escartons venga ufficialmente stabilita nel 1343, quando cioè Umberto II firmò con i rappresentanti delle comunità alpine la Carta delle Libertà, i due autori affermano che esistevano già da tempo forme di autogestione:

Non si può precisare con esattezza la data in cui apparvero gli "escartons" nel briançonnese. E' certo che essi esistevano molto prima della Carta del 1343, essi furono prima chiamati "unioni", "leghe" o "federazioni", e in seguito escartons.
L'etimologia del nome viene dalla principale funzione di queste assemblee, che erano incaricate di ripartire (escartonner) tra tutte le comunità le contribuzioni; la parte di ciascuna era uno "escart".
La comunità del briançonnese, una delle più importanti del Delfinato, raggruppava 51 comuni, divisi in cinque piccoli escartons; di Briançon, di Oulx, di Pragelato o Valchisone, del Queyras, di Casteldelfino o Varaita (25).

Con la Carta del 1343 (detta anche Grande Charte) fu concesso ai valligiani una certa libertà di autogoverno sul piano politico, economico e tributario (26).

Le comunità erano organizzate in modo federativo nei cinque escartons di Casteldelfino, Oulx, Pragelato, Briançon e Queyras, con capitale a Briançon.

Gli accordi prevedevano, anticipando di diversi secoli le principali leggi costituzionali

del mondo moderno, il riconoscimento agli abitanti dei cinque escartons di alcune libertà fondamentali – quali ad esempio il libero movimento all’interno del territorio e il diritto alla proprietà privata (riconosciuta anche alle donne)-, una partecipazione popolare per l’elezione dei propri rappresentanti, la stesura e l’applicazione di nuove leggi civili e penali, una mirata gestione territoriale (uso delle acque e delle foreste) e la ripartizione delle tasse (27).

Il Trattato di Utrech del 1713 pose fine all'autonomia della Comunità degli Escartons che venne smembrata in due parti, una assegnata alla Francia (Briançon, Queyras), l'altra ai Savoia (Oulx, Pragelato e Casteldelfino).



2.2-Il mondo valdese.



Per quanto riguarda l'aspetto religioso, convivono nelle cosiddette "valli valdesi" cattolici e protestanti; alcune comunità valdesi, in seguito alle persecuzioni francesi del XVI secolo, emigrarono dalla Provenza e si rifugiarono nelle valli Pellice, Germanasca e Chisone.

Tuttavia, anche in Piemonte continuarono ad essere perseguitati: nel 1655, in quelle che vengono tristemente ricordate come le "Pasque Piemontesi", furono massacrati migliaia di valdesi dall'esercito francese alleato con quello piemontese: in quest'occasione si distinse Josuè Janavel, considerato "uno dei tre più grandi personaggi valdesi durante il periodo più tragico della loro storia" (per la biografia dell'eroe valdese, scritta da Teofilo Pons, si veda: http://www.chambradoc.it/novelTemp/josuejanavel.page); nel 1685 Luigi XIV vietò ai protestanti la professione della loro religione e anche le chiese valdesi del Piemonte furono distrutte; poche migliaia di superstiti si salvarono in Svizzera e tornarono nelle valli dopo tre anni, in quello che viene definito dalla storiografia valdese "il glorioso rimpatrio". Finalmente nel 1848 re Carlo Alberto riconobbe con le "Lettere Patenti" i diritti civili e politici dei valdesi e concesse loro la libertà di professione di fede.

Dal punto di vista linguistico, l'adesione dei Valdesi alla riforma protestante all'inizio del XVI secolo segnò un punto di svolta: la Bibbia, che il fondatore Pietro Valdo aveva fatto tradurre in provenzale Lengadociano, fu tradotta in francese, che divenne la lingua di culto e di cultura fino all'inizio del Novecento e lingua veicolare nei contatti con i paesi protestanti ed in particolare con la Svizzera, dove i pastori andavano a formarsi; la popolazione delle valli valdesi parlava in realtà più lingue – tra le quali l'occitano -, come spiega Daniele Tron in "La Beidana":

la popolazione della val Pellice, almeno a partire dagli inizi del secolo XVI (ma forse anche da molto prima) fu trilingue o anche quadrilingue, intendendo e parlando con maggior o minor correttezza l'italiano, il francese , il patouà e, in molti casi, il dialetto piemontese. Tutto ciò, ovviamente, con forti differenziazioni al suo interno, a seconda della collocazione sociale e territoriale degli abitanti, con un impiego esclusivamente orale per le parlate occitaniche (nell'uso quotidiano) e piemontese (nei contatti con la vicina pianura), e un utilizzo misto di oralità e scrittura per le lingue di erudizione francese e italiana. Nell'uso liturgico, a seconda dei luoghi e dei tempi, prevalse or l'una or l'altra, come stanno ad attestare gli atti dei sinodi e svariata altra documentazione ecclesiastica. Certamente, a partire dalla fase iniziata con il rientro dei valdesi dall'esilio in terra Svizzera (1687-1690) il francese si affermò per due secoli come lingua nettamente predominante, usata dalla maggioranza della popolazione, specie nei comuni della parte più alta della valle (28).

Secondo Tatiana Pivaro, l'affermazione del francese come lingua di cultura è invece da datarsi tra il 1710 e il 1848, periodo in cui i valdesi furono "relegati nel ghetto", quello delle valli piemontesi, nel quale furono costretti a vivere isolati dalla realtà tanto italiana quanto francese:

L'intenzione del potere sabaudo era infatti quella di emarginare la componente valdese, escludendola da un contesto di carattere nazionale; il risultato fu però opposto a quello desiderato, poiché la segregazione ebbe come conseguenza primaria il rafforzamento di una vera e propria identità valdese. Impedito l'accesso a Torino a causa delle leggi restrittive cui erano soggetti, i valdesi si recarono a Ginevra, Amsterdam, Londra, dove non incontrarono difficoltà nello studio e nel lavoro poiché la lingua europea praticata e diffusa nel XVIII secolo era appunto il francese (29).

Il francese, in quanto lingua di cultura, occupa infatti un posto di primo piano sulle riviste valdesi, tra le quali cito ad esempio "La Beidana" della quale sono stati archiviati nel Corpus Testuale alcuni testi (per approfondimenti sulla rivista e sull'uso del francese e dell'occitano nella comunità valdese si veda: Che cos'è "La Beiana"?); il patouà – così viene chiamato l'occitano dagli abitanti delle valli valdesi – era considerato invece un dialetto popolare ("la lingua di tutti i giorni") fino a non molti anni fa.

La differenza di status del francese e dell'occitano nella percezione degli abitanti delle valli valdesi emerge chiaramente dalle interviste fatte da Naoko Sano:

Il patois era le lingua di tutti i giorni, è la lingua di mia madre quando cucina, o di mia nonna quando andava nella stalla a mungere le mucche, o di mio padre quando andava a tagliare l'erba nei prati; qui era la lingua di tutti i giorni (...). Però il francese era la lingua della chiesa. (...) Nelle scuole valdesi si insegnava abbastanza francese prima di Mussolini, nella prima metà del secolo, dopo c'è stato solo più l'italiano a scuola (30).

E ancora, in un'altra intervista: "Il patois era la lingua popolare, ... il francese era la lingua della chiesa e la lingua dello Stato, i Savoia parlavano francese, (...) l'italiano è arrivato soltanto dopo" (31).

Il francese era percepito come lingua superiore sia perché lingua di culto, sia perché lingua scritta, a differenza del patouà che era eslusivamente orale:

Il patois non era importante per la religione, perché non era scritto. La religione è sempre scritta. Per noi protestanti, sì, la Bibbia è un'altra cosa... Eh sì, perché è impossibile per me parlare in patois di questa questione. Non conosco le parole (32).

Come si evince dalle interviste riportate e dai fatti storici sopra delineati, nelle valli valdesi andò formandosi nel corso dei secoli un "nucleo culturalmente omogeneo" (33) che riconosceva come elementi identitari la religione ed il francese.

Il patouà rimase ai margini, anche se continuava ad essere parlato. Ad eccezione di alcuni personaggi isolati come Gustavo Malan, Osvaldo Coïsson, Teofilo Pons e Arturo Genre, e a parte la presenza de Lou Cantoun dî Patouà sulla rivista valdese "Il Pellice" a partire dai primi anni Sessanta fino al 1973, il movimento valdese delle valli Pellice, Germanasca e Chisone è rimasto ai margini della storia dell'occitanismo e del provenzalismo italiani.

Negli ultimi anni si assiste tuttavia ad un progressivo interessamento del mondo valdese all'occitano in quanto elemento caratterizzante della storia collettiva di queste valli, tanto che, in seguito all'approvazione della legge 482/99 -che tutela sia l'occitano sia il francese come minoranze linguistiche - molti comuni delle valli valdesi si sono dichiarati oltre che francofoni anche occitanofoni (34).




2.3-La presa di coscienza etnico-linguistica nelle valli: dalla "Dichiarazione di Chivasso" all'Escolo dóu Po.



I primi contatti tra l'Occitania italiana e quella francese ebbero come protagonisti prima Gaetano di Salis, che si fece felibro negli anni Venti e fu salutato oltralpe come "lou fraire d'Italio", e poi due valdesi, Jean Jalla e Teofilo Pons, che all'inizio degli anni Trenta entrarono in contatto con la rivista "Occitania" (35).

Jean Jalla, che pubblicò alcuni articoli su "Occitania" e fece parte della Redaccion d'Estructuracion della rivista, accarezzò l'idea di creare a Torre Pellice una redazione del giornale; il progetto non era tuttavia realizzabile nel contesto del fascismo, il cui nazionalismo accentratore negava ogni diritto alle minoranze.

Teofilo Pons, che dopo la morte di Jalla lo sostuì nella Redaccion d'Estructuraccion fino al 1938, trasmise il messaggio di quanto aveva appreso negli anni in cui aveva collaborato con "Occitania" ai suoi allievi del Liceo di Torre Pellice, contribuendo con i suoi insegnamenti a creare uno spirito federalista e autonomista (36) che negli anni della lotta partigiana si concretizzò nella stesura della Dichiarazione dei rappresentanti delle popolazioni alpine, nota anche come Manifesto o Carta di Chivasso.

Come spiega Osvaldo Coisson, uno dei firmatari della Carta, "con la caduta del fascismo nel 1943, i contatti fra gli autonomisti si fecero più frequenti e per la prima volta a Chivasso fu possibile per dei rappresentanti degli autonomisti di vallate diverse incontrarsi e gettare le basi di un'azione comune" (37).

Nell'incontro clandestino tenutosi a Chivasso il 19 dicembre del 1943 – luogo scelto perché facilmente raggiungibile dalla Valle d'Aosta, dalla Valle Pellice e da Milano - si ritrovarono due rappresentanti della Valle d'Aosta, il notaio Emilio Chanoux, ucciso poi dai nazi-fascisti, e l'avvocato Ernesto Page, e quattro rappresentanti delle Valli Pellice e Germanasca, Gustavo Malan, Giorgio Peyronel, M.A.Rollier ed Osvaldo Coisson.

Il Manifesto, che accusava duramente il "malgoverno livellatore e accentratore" del ventennio fascista di aver rovinato politicamente, economicamente e culturalmente le valli alpine, rivendicava la creazione di "un regime federale repubblicano a base regionale e cantonale" nel quale venissero rispettate le autonomie politico-amministrative, economiche, culturali-linguistiche e scolastiche delle popolazioni alpine.

Per quanto riguarda la lingua, essendo "la libertà di lingua come quelle di culto essenziale per la salvaguardia della personalità umana", si richiedeva per le valli alpine ("per la loro posizione geografica di intermediarie tra diverse culture, per il rispetto delle loro tradizioni e della loro personalità etnica, e per i vantaggi derivati dalla conoscenza di diverse lingue") il diritto di usare la lingua locale accanto a quella italiana in tutti gli atti pubblici e nella stampa locale, il diritto all'insegnamento della lingua locale nelle scuole di ogni ordine e grado e il ripristino immediato di tutti i nomi locali (per la lettura del testo integrale di veda: http://www.provincia.torino.gov.it/cultura/minoranze/dwd/chivasso_materiali.pdf ).

Anche se per "lingua locale" i valdesi intendevano il francese, e anche se l'autonomia alle valli valdesi non fu concessa (fu invece limitatamente concessa alle Regioni a Statuto speciale, tra le quali la Valle d'Aosta), il Manifesto mise per iscritto le prime rivendicazioni di autonomia politico- linguistica nelle valli occitanofone d'Italia e rappresenta quindi un precedente importante per le future lotte dei movimenti autonomisti occitani sorti negli anni Settanta, i quali, visti i precedenti, cercarono di coinvolgere anche il mondo valdese che tuttavia decise di non rispondere alle avances degli occitanisti (38).

Si richiameranno esplicitamente alla carta di Chivasso il programma dell'U.D.A.V.O., tra i cui fondatori figurano anche Malan e Coisson, e lo statuto del "Movimento di Autonomia e Civiltà Provenzale alpina" di Coumboscuro.

A parte la Carta di Chivasso e il mondo valdese, che come abbiamo visto era fortemente coeso per motivi religiosi e storici, oltre che linguistici, non si può tuttavia affermare che negli anni Quaranta del Novecento fosse diffuso nelle valli occitane d'Italia un senso di appartenenza etnico-linguistica e culturale.

Nel 1958, nel libro intitolato Correnti e contrasti di lingua e cultura nelle Valli cisalpine di parlata provenzale e franco-provenzale, Corrado Grassi osservava, a proposito delle valli "provenzali" cuneesi e saluzzesi, che

ovunque (...) i montanari sono scarsamente attaccati alla loro parlata, che sentono fortemente volgare al punto da sostituirla spesso con il piemontese (che essi conoscono e parlano perfettamente) solo che un estraneo sia presente ad un loro colloquio. Il termine "patois", che è così vivo e pieno di valore per i montanari dell'alta Valle Susa o delle Valli aostane, è qui del tutto ignorato; il montanaro non sa in genere nemmeno definire la propria parlata, indicata talvolta con una circonlocuzione o con una frase scherzosa, sicché chiedendogli di rispondere alle domande del questionario, bisogna di solito invitarlo a parlare "come quando è in famiglia", o "fra amici". I bambini, per solito assai scarsi numericamente, soprattutto a causa dell'emigrazione, imparano ancora la parlata materna (ma non sempre), che essi usano intrattenendosi o giocando tra di loro, ma la sola presenza del parroco o del maestro di scuola o di un estraneo li induce non di rado a parlare piemontese (39).

La percezione dell'inferiorità del patois rispetto al piemontese era diffusa anche nelle valli torinesi, come racconta Ezio Martin su "La Valaddo": il dialetto era considerato "una manifestazione di arretratezza delle popolazioni montane (i cosiddetti vitôn d'la môntagna)", ed i patoisanti, quando scendevano per motivi di lavoro verso la pianura, si sforzavano di parlare il piemontese "poichè dava loro un senso di promozione sociale, di evolutezza, di rispettabilità" (40).

I valligiani non sapevano che l'occitano, che in quegli anni come ai giorni nostri in ambito universitario era definito "provenzale", fosse una lingua vera e propria; esso veniva chiamato in modi diversi a seconda dei luoghi: nòsta mòda, patois, preicar coma nos, preicar a nòsta mòda, parlar viton; oppure con l'espressione "parlar a la mòda" seguita dal nome del paese (ad esempio: parlar a la mòda d'Oncin) (41); o ancora, con tono tra lo scherzoso e il denigratorio, chapui chabal (42).

Per una vera e propria rinascita linguistica e culturale nelle valli si dovette attendere l'inizio degli anni Sessanta, quando fu fondata l'associazione dell'Escolo dóu Po.

L'idea iniziale venne a Gustavo Buratti e Giuseppe Pacotto (Pinin Pacòt) - entrambi poeti piemontesi, il secondo fondatore del movimento di poesia piemontese e dell'omonimo giornale "Lj Brandé" - i quali nel 1959, in occasione della celebrazione del centenario di Mirèio, si recarono a Tolone in Provenza, presso l'Escolo de la Targo, da dove, entusiasti delle impressioni ricevute nella terra degli antichi trovatori, tornarono con l'idea di fondare anche in Piemonte una scuola felibristica per la promozione e la salvaguardia delle parlate alpine (43).

Buratti iniziò quindi a percorrere in motocicletta le valli torinesi e cuneesi alla ricerca di autoctoni sensibili a queste problematiche e disposti a seguirlo nelle iniziative da lui promosse e spalleggiate da Pacòt; le motivazioni di questo interesse per la lingua d'oc sono spiegate da Buratti in un'intervista:

Allora mi dicevo: è un peccato che nelle valli del Piemonte dove si parla la lingua d'oc-provenzale, nessuno scriva in provenzale, in lingua d'oc, e non sappiano neanche di parlare la lingua d'oc. Tutti la parlavano, lo facevano tra di loro, ma se c'era qualcuno di fuori, si parlava piemontese o italiano, perché parlare a nòsta moda, parlare il patois, voleva dire essere gli ultimi pastori di montagna. Allora "faceva fine" parlare in piemontese o in italiano. Dicevo: peccato, io sono piemontese, amo il piemontese, è un peccato che qualcuno perda la sua lingua per il piemontese. Io voglio che un piemontese parli la sua lingua, perché chi parla la lingua d'oc deve abbandonare la sua lingua per il piemontese?Ciò non è giusto. Allora sono partito con la motocicletta da Biella...(44).

Fra i primi a rispondere all'appello ricordiamo Antonio Bodrero e Sergio Ottonelli della val Varaita, Sergio Arneodo della val Grana (45), Remigio Bermond della Val Chisone; a questi vanno aggiunti Renato Bertolotto, Camillo Brero e Aldo Daverio, tutti collaboratori de "Lj Brandé", l'almanacco piemontese sul quale furono pubblicati nel 1960 alcuni testi in patois provenzale cisalpino.

Mentre Buratti si stava muovendo per organizzare un concorso di poesia riservato agli autori in lingua d'oc, nell'ottica futura di creare una Escolo sul modello di quelle felibriste d'oltralpe (46), all'accademico pontificio Gaetano di Sales - felibro già dagli anni Venti - venne l'idea di organizzare il primo dei "Rescountre Piemount-Prouvenço", il cui scopo era quello di riunire gli scrittori provenzali dei due versanti alpini; fu Gino Giordanengo, direttore responsabile della rivista "Cuneo Provincia Granda", a metterli in contatto nel marzo del 1960.

Il 13 agosto del 1961 si svolse a Cuneo il primo "Rescountre Piemount-Prouvenço", che proseguì il giorno successivo a Crissolo con il "Concorso di poesia Monviso 1961". Fu scelto Crissolo come luogo di incontro, spiega Sergio Arneodo,

perché significa sorgenti del Po. Il Po rappresenta per noi il punto figurativo di riferimento dell'arco alpino occidentale o meglio ancora sud occidentale. Lo abbiamo scelto per far capire che stavamo cercando un punto che rappresentasse un crocevia di convergenza. Naturalmente si pensava soprattutto all'incontro tra le nostre valli, ma anche all'unione con le valli transalpine (47).

La scelta richiamava inoltre i versi di Mistral che furono letti in quell'occasione: "Ami, nosti parlà soun touti dous rouman, / pouden nous dire fraire e nous toucà la man: / toun Po, la mieu Durenço, / ma touti dous d'un soulet mount, / von abeurà l'un lou Piemount, / e l'autro la Prouvenço" (48).

A testimonianza dell'unione con l'altro versante parteciparono anche alcuni esponenti del Felibrige: il poeta René Jouveau, il capouliè Charles Rostaing ed altri felibristi che portarono l'acqua dei loro fiumi (Sorga, Rodano, Durance, Ubaye) per versarla nel Po, affermando simbolicamente quell'unità del mondo provenzale cis-transalpino vagheggiata da Mistral.

Per quanto riguarda il versante italiano, erano presenti Giuliano Gasca Queirazza e Corrado Grassi, entrambi docenti dell'Università di Torino, e numerosi poeti piemontesi: i già nominati Giuseppe Pacotto e Gustavo Buratti, Camillo Brero, Aldo Daverio, Michele Fusero.

Tra i fondatori occitanofoni dell'Escolo dóu Po ricordiamo inoltre Remigio Bermond (49) e Pietro Antonio Bruna-Rosso (50), Giovanni Raina, Giacomo Dalmasso, Gabriele Giavelli, Don Domenico Raso, Renato Maurino, Don Federico Palme, Bruno Allemandi, Paolo Gili, Giovanni Salomone ed il già citato Teofilo Pons (51).

Il concorso di poesia fu vinto a parimerito da tre autori che si distingueranno negli anni successivi in quanto, oltre ad affermarsi come poeti e scrittori, saranno tra i fondatori di alcune tra le principali riviste e associazioni dell'occitanismo politico e del movimento provenzalista delle valli: Sergio Arneodo, redattore della rivista "Coumboscuro" e leader dell'associazione provenzalista Coumboscuro-Centre Prouvençal, con la poesia Perdicioun; Antonio Bodrero (52), che sarà amico di François Fontan e con il quale fonderà in valle Varaita il Movimento Autonomista Occitano (M.A.O.), con la poesia Fràisse; e infine Sergio Ottonelli (53), uno degli occitanisti che parteciperanno alla fondazione del M.A.O. e poi attivo collaboratore della rivista "Valados Usitanos", con La ciansun de Varacio.

L'associazione dell'Escolo dóu Po ebbe dunque il proprio battesimo in quell'ormai lontano 1961; e si può dire, come fa Naoko Sano nel libro Una lingua in cammino, che furono i piemontesi a fondare questa scuola felibrenca ("la coscienza dell'esistenza di «UNA lingua» viene sempre da "fuori"") (54) - e infatti all'atto della fondazione Pacotto fu nominato presidente (e lo fu sino al 1965) e Buratti segretario (fino al 1971) (55) – e furono ancora loro, secondo la testimonianza di Franco Bronzat e Gianpiero Boschero (56), a contribuire alla sua morte.

Nell'ottica di Buratti l'associazione dell'Escolo dóu Po avrebbe dovuto essere un trait d'union tra il Piemonte e la Provenza, due realtà percepite - anche per le continue migrazioni stagionali per lavoro, frequenti sino ai primi decenni del secolo scorso - come geograficamente vicine e linguisticamente "sorelle"; la prospettiva del poeta piemontese fu confermata nel momento della fondazione dell'associazione sia dal fatto che l'Escolo aderì ufficialmente al Felibrige, sia dagli obiettivi dichiarati nello Statuto all'atto della nascita:

1'Escolo dòu Po ha lo scopo di rinsaldare e sviluppare i buoni rapporti tra il Piemonte e la Provenza, intendendosi quest'ultima in senso lato come Regione di Francia a civiltà occitanica. Tale scopo verrà perseguito nei modi che appariranno via via più convenienti ed in particolare:

a) diffondendo in Piemonte la conoscenza della lingua, della cultura e dell'arte provenzale-occitanica, a mezzo di conferenze, pubblicazioni e manifestazioni varie;

b) prendendo ed assecondando iniziative intese ad attivare gli scambi culturali tra le due Regioni;

c) valorizzando, perché punto d'incontro tra il Piemonte e le parlate provenzali e franco-provenzali, il patrimonio linguistico che caratterizza le seguenti vallate del Piemonte: Vermenagna, Gesso, Stura di Demonte, Grana, Maira, Varaita, Po, Pellice, Germanasca, Chisone, Susa, Lanzo, Orco e Soana.".

L'Escolo, che non aveva carattere politico nè confessionale (art.4), era composta, sull'esempio dell'associazionismo felibrista d'oltralpe, di soci, soci corrispondenti e onorari e di "manteneire" ("i valligiani che hanno particolarmente onorato la loro parlata alpina") ed era strutturata in assemblea e consiglio direttivo, i quali nominavano a loro volta il presidente, il vice-presidente ed il segretario.

Sebbene lo statuto prevedesse anche la valorizzazione del franco-provenzale, la presenza di esponenti di questa minoranza è sempre stata debole.

Per quanto riguarda gli scambi culturali tra il Piemonte e la Provenza citati al secondo punto, essi si concretizzarono nei Rescountre Piemount-Prouvenço che si tennero annualmente ogni volta in paesi diversi: dopo il primo a Crissolo nel 1961 seguirono Torre Pellice (1962), Casteldelfino (1963), Monterosso (1964), Oulx (1965), Ronco Canavese (1966), Fenestrelle (1967), Elva (1968), Demonte eVinadio (1969), Perrero (1970), Santa Lucia di Coumboscuro (1971) e per ultimo Roure nel 1972 (57).

I Rescountre permisero all'Escolo dóu Po di diffondere tra gli abitanti delle valli occitane d'Italia – ed anche tra i giovani che negli anni successivi fonderanno l'occitanismo politico (58) - la consapevolezza che l'idioma materno che essi parlavano da generazioni e chiamavano patuà, nosto mòdo o dialetto era in realtà una lingua vera e propria, il provenzale, parlato in altre valli del Piemonte e anche in alcune regioni della Francia.

Parafrasando Gianpiero Boschero, l'Escolo dóu Po fu "la madre di tutte le associazioni occitaniste e provenzaliste (...) l'associazione della "presa di coscienza" dell'identità occitana (provenzale) e del "risveglio"" (59).




2.3.1-"Coumboscuro" e l'Escolo dóu Po.



Quando nell'agosto del 1961 nacque l'Escolo dóu Po, era già uscito il primo numero di "Coumboscuro" (maggio 1961), il giurnalet ciclostilato degli alunni della scuola elementare di Santa Lucia di Coumboscuro sul quale erano state pubblicate alcune poesie in lingua provenzale scritte dai bambini. Nato inizialmente come luogo di dialogo tra gli alunni della scuola e quelli delle scuole della Valle Stura, ai quali era infatti dedicato il primo numero, "Coumboscuro" allargò presto i propri orizzonti: già il secondo numero è dedicato "alla gente di tutte le valli patoisantes" (60), e a partire dal terzo numero l'ultima sezione della rivista sarà riservata all'Escolo dóu Po.

La rivista, essendo l'unica testata di tutte le valli occitanofone d'Italia dedicata alla lingua ed alla cultura provenzale, divenne quindi portavoce dell'associazione con il beneplacito del segretario Buratti (61).

Così il redattore Sergio Arneodo presentava la nuova sezione del giornale intitolata Escolo dóu Po, che sarà pubblicata - nelle ultime pagine dopo la sezione intitolata Nosto Pouèsio contenente i testi in lingua provenzale scritti dagli alunni della scuola di Santa Lucia - fino al 1972, anno di dissoluzione dell'associazione:

aquest ann dunen auspitanço ent i noste pagine a l'"Escolo dòu Po", qu'ies na coumpagnio de apaciounà ai patouà di noste valade e vol defende e ounourà entra nous la parlado provençalo, que i nou es arubà ent i temp passà de dareire di mountagne.

Acò es ente la secoundo part dal noste journalét. Ente la primièro butén i storie e i prouverbi que nous cuénten i viei de la valado. Ma scrivén co i noste pouèsie e i marminele que fen a l'escolo (62).

Questo spazio concesso ai manteneire (63) e a chiunque volesse cimentarsi nella stesura di un qualsiasi testo in lingua provenzale – poesie, piccoli racconti, proverbi, filastrocche, canzoni, etc. - fu il primo luogo di "incontro" tra gli intellettuali che si interessavano alla lingua provenzale.

Il giornale contribuì inoltre a stimolare la presa di coscienza etno-linguistica nelle vallate cuneesi e torinesi, in quanto convinse molti occitani a tentare di scrivere nella propria lingua materna, fino ad allora relegata esclusivamente all'ambito della produzione orale e su argomenti di vita quotidiana: dimostrò che era possibile produrre letteratura, poesia e articoli di cultura.

Ne è testimonianza il numero crescente in questi anni dei testi pubblicati nella sezione Escolo dóu Po e degli autori provenienti da tutte le vallate dell'Occitania italiana che inviavano i propri scritti per la pubblicazione; questi autori diedero così vita sulle pagine di "Coumboscuro" al primo nucleo di letteratura provenzale cisalpina: Antonio Bodrero di Frassino, che nel 1965 pubblicò Fraisse e Mèl, la prima raccolta di poesie nonché il primo libro in provenzale cisalpino, e nel 1971 il Soulestrelh Òucitan; Pietro Antonio Bruna-Rosso di Elva, che pubblicò nel 1972, insieme a Piero Raina, I figli dei briganti e nel 1980 il Piccolo dizionario del dialetto occitano di Elva; Remigio Bermond, autore di Pancouta e Brousée (1971) e poi attivo collaboratore e redattore de "La Valaddo"; Sergio Arneodo, che scrisse le raccolte di poesie e drammi sacri intitolate Valquiauso (1967) e Col Beliero (1970); e poi ancora Amato Bermond di Pragelato, Piero Raina di Elva, Sergio Ottonelli di Chianale, Teofilo Pons di Massello, Edoardo Vercelletti di Valdieri, Masino Anghilante di Sampeyre, Gabriele Giavelli di Argentera, Sandre Serile Gay di Roure in valle Chisone, Arturo Viano di Monterosso Grana, Giuseppe Rosso (Bèp Rous dal Jouve) di Demonte, Janò Arneodo di Monterosso Grana e i bambini della scuola di Santa Lucia; a questi primi autori si aggiunsero dalla seconda metà degli anni Sessanta Ugo Piton, Franco Bronzat ed Ezio Martin di Roure, Lucia Abello di Stroppo, Tavio Cosio di Melle, Ines Cavalcanti di Elva, Gianpiero Boschero di Frassino, Giovanni Antonio Richard di Bellino, Giacomo Bellone di Limone Piemonte, Andrea Vignetta di Fenestrelle e molti altri ancora.

Come avrà notato il lettore, in questo capitolo ho sempre usato il glottonimo "provenzale" invece che "occitano"; questa scelta formale è dovuta al fatto che negli anni Sessanta le principali associazioni e riviste che si occupavano della lingua d'oc (Coumboscuro, l'Escolo dóu Po, La Valaddo) hanno quasi sempre preferito adottare questo glottonimo; come vedremo nel capitolo successivo, entrambi si opporranno strenuamente negli anni successivi e ancor oggi sia al glottonimo "occitano", sia all'idea di Occitania che tale parola veicola, sia all'azione ed alla linea politica che i movimenti occitanisti porteranno avanti a partire dalla fine degli anni Sessanta.

In questa prima fase di "provenzalismo" che si esprime sulle pagine di "Coumboscuro" sono del tutto assenti l'idea di una nazione Occitana e le future rivendicazioni politiche autonomiste.

Nel 1977 Dino Matteodo riassume in quattro punti le caratteristiche fondamentali della rivista nei suoi primi quindici anni di vita:

1) l' interesse prevalentemente culturale portato alla problematica occitana;

2) la profonda matrice cattolica che gli varrà la benevolenza di una parte, almeno, del clero delle valli (e che lo ha sempre avvicinato alla Democrazia Cristiana e, recentemente, a Comunione e Liberazione);

3) il legame col movimento felibrista;

4) la concretizzazione di ogni attività prevalentemente nelle località di origine del gruppo (64).

L'approccio di "Coumboscuro " alla lingua è dunque esclusivamente culturale e conservativo: il provenzale è idioma degli antenati montanari, legame con la terra di origine e portatore dei valori del passato.

Esso è il punto di unione fra gli abitanti di tutte le valli piemontesi che parlano la stessa lingua: in virtù dell'idioma natìo, essi sono tutti "fratelli" appartenenti alla stessa famiglia (65).

La lingua è inoltre ciò che lega gli abitanti delle valli alla terra di Mistral, la Provenza.

Scrivere in lingua significa difenderla, salvarla dall'oblio, ma non solo; è anche ritorno alle radici in contrapposizione ad una società omologatrice e spersonalizzante, è lotta tra due mondi che si fronteggiano: l'uno, corrotto e violento, per dominare, fagocitare e annullare ogni differenza; l'altro, quello autentico e genuino, per sopravvivere (66).

La memoria del passato è concepita come eredità e patrimonio ("una linfa di fresca spritualità") per "la sete di domani": i suoi valori sono proposti a fondamento della civiltà futura ("una civiltà troppo spessa dimentica di se stessa" (67)).

Il patois del paese e delle valli è legame con la "terra" e con quel mondo a cui la lingua natìa dà voce e corpo:

Anche noi, come Mirèio, figli della terra. Perché l'odore della terra, quando viene di lì, è come un umore che ti si attacca e t'impregna carne e ossa, anche a distanza di qualche generazione, traducendosi nel gusto delle cose semplici, nell'amore geloso delle tradizioni, nell'instancabile ricerca di un'anima e d'un carattere sotto l'anonima uniformità di costumi e di istituzioni (68).

La parlata locale viene contrapposto alla parlata della pianura e al sistema di valori che essa rappresenta ("la parlata benestante di gente benestante" (69)).

Il patois, constatava con rammarico Sergio Arneodo nel 1963, "oggi si trova inesorabilmente attanagliato tra il blocco omogeneo della lingua e della cultura francese e l'invadenza del piemontese che dalla pianura tende a risalire le valli"; all'avanzata del piemontese si aggiungevano inoltre altri fattori economico sociali già messi in evidenza da Corrado Grassi nel 1958, ed in particolare il crescente spopolamento montano dovuto in parte alle conseguenze del secondo conflitto mondiale e in parte all'emigrazione crescente dei valligiani verso i centri della pianura (70).

Il problema della regressione del provenzale, che verso la fine del decennio sarà interpretato dagli occitanisti miltitanti come un problema principalmente politico, è per Sergio Arneodo un "problema umano"

che investe qualcosa di più di un fenomeno di geografia linguistica, sia pur alquanto più esteso, anziché limitato all'area alpino-provenzale cui s'era modestamente appuntata la nostra attenzione. Siamo convinti, e sappiamo che molti amici lo sono con noi, che dietro il problema della sopravvivenza delle lingue minoritarie c'è quello della conservazione dei gruppi e delle comunità che le parlano; dietro l'aspetto culturle c'è, in tutta la sua crudezza e la sua passione, un problema umano di fondo che non può essere scisso dal primo, anche se per sentirlo nella sua evidenza immediata bisogna avere negli occhi da sempre le linee scabre del nostro alpestre paesaggio di rocce, di boschi e di dure pendici (...).

Allora anche le ragioni di sopravvivenza delle comunità minoritarie s'illuminano di sacrosanta necessità e la loro salvaguardia diventa motivo di interesse e di passione in una società metodicamente organizzata per l'identificazione dell'individuo con la massa, per la sua scientifica spersonalizzazione, per il suo inibimento come uomo, attraverso un inesorabile processo di catalogazione analitica, di avvilente livellamento, di automazione preordinata, in cui non trovano più posto la riposata serenità delle tradizioni, il culto e la semplicità degli affetti, la personale e autonoma meditazione dei principi intimi ed ideali dell'agire umano. O forse che questa poesia di domestiche eredità, così inesorabilmente sospinta ai margini di una civiltà troppo spesso dimentica di se stessa, non si ritrova con sorgiva verginità e sanguigno vigore nelle tenaci sopravvivenze dei gruppi minoritari? (71).

Il lavoro di salvaguardia della parlata locale portato avanti da "Coumboscuro" si configura dunque come difesa di un mondo che sta scomparendo; la consapevolezza di essere gli ultimi, con il duro compito di salvare il patrimonio spirituale e linguistico degli avi per trasmetterlo alle future generazioni, pervade gli articoli di Sergio Arneodo:

Per la stessa dolorosa pensosità che ci ispira la sorte della nostra terra, travolta dal fenomeno dell'abbandono. Per il geloso amore che anche noi nutriamo per la parlata alpina dei nostri vecchi. Perché il patuà è sostanza di nostra gente, luce e tradizione, patrimonio spirituale unico e sommamente genuino, in cui si rispecchia la nostra coscienza di montanari e che vogliamo difendere, nobilitandolo di fronte a noi stessi e agli altri. Anche se è una difesa tanto più dura e gelosa, dal momento che siamo rimasti in pochi a combatterla: "D'un vecchio popolo fiero e libero siamo forse gli ultimi" (72).

Le problematiche linguistiche e sociali messe in primo piano sulle pagine di "Coumboscuro" investirono anche la produzione poetica di questi anni.

Il tono nostalgico e a tratti rassegnato degli autori - molto diverso da quello "arrabbiato" della poesia e della canzone di protesta degli anni Settanta - delinea un desolante paesaggio di borgate e meire/granje abbandonate ( "avouro i coumenço ana en rouvino", Pietro Antonio Bruna Rosso, Ma granjo) , di case che crollano pietra dopo pietra ("toc aprê toc lou mùrs von bazaquiô", Remigio Bermond, La plaou tristese) in una "terra di morti" abitata soltando più da sarvan e per la quale non vale più la pena sudare ("Laisa fraire la terro di paire / Scapa fraire da la terro di mort / A sudar val pus la peno / A piourar sierv pus a gnente": Piero Raina: Toumbaren i casei di vilage).

Non soltanto i paesi, persino la gente è cambiata: mentre un tempo la cooperazione e i lavori collettivi (reuide) scandivano la vita comunitaria delle borgate (si vedano ad esempio le testimonianze raccolte sulla rivista "Oncino Voü Rëcourdàou": Lei reuide), ora il disaccordo regna sovrano (P.A.Bruna-Rosso: M'a fach peno al veire moun pais).

Il sogno di rivedere le ruà che si riempiono di vita (Giovanni Antonio Richard, En suegn) si infrange dinanzi alla realtà di un popolo dimenticato e abbandonato a se stesso (Franco Bronzat, Sien oblijà a esublio), lasciando il viandante che si aggira solitario tra le pietre con un pugno di cenere tra le mani (Mauro de Pracistel, Retournen plus) e con un grido di rabbia soffocato in gola, di chi vorrebbe protestare contro l'inguistizia subita ma non può ("Avihou de tero / i me l'an pia, / avihou na caso / i me l'an pia, / avihou n'animo / i me l'an decò pia (...) quouro la sero /

m'estrégn la goulo / e grimes de rabio / pougnoun mi uéi, / voularihou bramàr / à lou mounde /

qu'es pa just ço que m'an fach); la parola rabbia di quest'ultima poesia (Ines Cavalcanti, Quouro la sero) preannuncia il tono di contestazione che animerà il decennio successivo, quando il "nemico" contro cui lottare da entità astratta ("il problema umano" di Arneodo) assumerà un volto: Ines Cavalcanti addita implicitamente, usando l'artificio retorico dell'anafora ("i me l'an pia"), il sistema politico-economico che ha derubato i montanari di tutto ciò che possedevano (la terra, la casa e infine l'anima); ma con questa poesia siamo già nel 1973 e conviene che indugiamo ancora un poco su questi ultimi anni Sessanta.


Non si parla dunque ancora di "occitano" ma di "provenzale"; la lingua non è principio di rivendicazione nazionalista e autonomista, ma
reis (radice), terra, casa, luogo familiare in cui si è nati e cresciuti; è la lingua imparata dalle madri e dai padri, "lengo de pas e d'esperanço /message d'amour, de frairanço" (Pietro Antonio Bruna-Rosso: Nost parlar e La nosto lengo) che mantiene uniti i paesi nonostante le frontiere (Gabriele Giavelli, La Fratelanzo es Naturalo).



COUMBOSCURO (per approfondimenti si veda: Che cos'è "Coumboscuro"?).

Sergio Arneodo iniziò la propria attività, come si è visto, negli anni della nascita dell'associazione dell'Escolo dóu Po. La scuola elementare della frazione di Santa Lucia di Coumboscuro fu la prima delle valli in cui i bambini potevano imparare a scrivere il dialetto dei loro genitori; le poesie veivano poi pubblicate sulla rivista "Coumboscuro" nella sezione Nosto pouesìo.

Fin dai primi numeri, Coumboscuro si richiama costantemente ai valori del cristianesimo, vivendo il rapporto con la religione come strettamente connesso al problema linguistico nella celebrazione dei rituali liturgici in provenzale.

Dalla seconda metà degli anni Sessanta "Coumboscuro" inizia a risentire delle idee politicizzate dell'occitanismo che si stavano diffondendo in quegli anni: dal "problema umano di fondo" di Sergio Arneodo, la rivista passa al concetto di etnia sul N.16 del 1966 e alla "richiesta di alcuni giustificati diritti" – soprattutto l'insegnamento della lingua locale - nell'anno successivo (N.19, 1967). Nel 1968 il tono si fa ancora più deciso: "I patoisants delle valli provenzali si sentono dei colonizzati (...) si vedono negati ogni riconoscimento culturale e consistenza di gruppo da uno Stato accentratore e diffidente" (N.21, 1968).

Queste dichiarazioni lasciano presagire una maggiore disponibilità ad un impegno politico-amministrativo che evolverà negli anni Settanta nelle collaborazioni con gli altri movimenti occitanisti e, sulle pagine del giornale, nella sempre maggiore attenzione ai fatti economici e politici. Compaiono infatti sulla rivista, a partire dai primi anni Settanta, concetti come "alienazione" (N.60, 1974; N.68, 1975) e "colonialismo interno" (N.41, 1972; N.91, 1978), sino alla rivendicazione di un'"autogestione applicata a quella realtà socio-culturale-territoriale che è la montagna", "terzo mondo in Europa" (N.48, 1973; N.41, 1972).

L'idea etnica, contrapposta a quella di stato-nazione del M.A.O., aspira alla creazione di una "federazione europea dei popoli etnici" (N.83, 1977) nell'ottica, sempre, di un "umanesimo crisitano" (N.94-95, 1978); si passa da una iniziale richiesta per la creazione di "circondari d'oc alpini" (N.40, 1971) alla "zona franca" come "primo, autentico cantone europeo" (N.42, 1972) che includa i due versanti provenzali.

Nel 1976 Coumboscuro aderisce alla proposta promossa dal M.A.O. di attuazione di una "Regione autonoma provenzale-occitana a statuto speciale", divisa in Comprensori e Distretti Alpini.

In quello stesso anno, a conferma del maggior impegno in campo politico, il gruppo si trasforma in "Movimento di autonomia e civiltà provenzale alpina", definendosi "movimento socio-politico-culturale"; lo statuto stabilisce l'ordinamento interno che prevede anche la creazione, come organismo autonomo che opera in campo culturale, del Centre Prouvençal de Coumboscuro (Art.37).

Il programma si ispira dichiaratamente ai principi della Carta di Chivasso e si propone di operare "tra la valle Corsaglia a sud e la valle di Susa (alta valle) a nord"; si propone l'adozione e l'utilizzazione della lingua d'oc nella scuola, nel culto e nella vita politica e l'auotgestione delle risorse naturali locali contro "ogni forma di colonizzazione" (art.4).

Aumentano sul giornale gli articoli contro le speculazioni edilizie e il "carattere coloniale del moderno turismo" (N.55, 1974) e intervengono nei dibattiti di quegli anni sull'istituzione delle regioni, dei comprensori, delle comunità montane, dei distretti scolastici e della legge regionale che sarà approvata nel 1979.

Nel 1974 Coumboscuro cercò punti di contatto col M.A.O. e con l'U.D.A.V.O.per un'azione comune: furono nominate in una riunione a Crissolo tre commissioni, culturale, socio-economica e politica per coordinare le azioni dei tre movimenti.

Nel 1979 M.A.O. e Coumboscuro si candidarono insieme alla lista "Union Valdotaine Federalismo Autonomie", ma le divergenze ideologiche tra i due movimenti portarono alla rottura: Coumboscuro, fedele a un'autonomia etnica, umanistica e spiritualistica, il M.A.O., fedele a un occitanismo nazionalistico di matrice fontaniana.

"Coumboscuro" è ancor oggi la rivista portavoce dell'Associazione Coumboscuro-Centre Prouvençal, fedele ad una linea di pensiero felibristica-provenzalista che si basa su un modello culturale e religioso di matrice cattolica; l'associazione si propone fini esclusivamente culturali, rifiuta il glottonimo "occitano" a favore di "provenzale", difende le grafie mistraliana e dell'Escolo dóu Po in contrapposizione alla grafia normalizzata/classica (per approfondimenti sulle grafie si veda: Le grafie).

"Coumboscuro" continua a mantenere i rapporti con la Provenza organizzando annualmente i Rescountre Piemount-Prouvenço; nel 1987 ha inoltre firmato insieme all'associazione transalpina Union Prouvençalo la cosiddetta Carta di Coumboscuro; in quest'occasione fu costituito un Gruppo di Unione Provenzale con lo scopo di portare avanti proposte di cooperazione transfrontaliera e per il riconoscimento dell'insegnamento della lingua provenzale. Alcuni anni più tardi nacque la Consulta Provenzale, che unisce Coumboscuro ad altri movimenti provenzalisti transfrontalieri nella firma, nel 2002, della Dichiarazione di Briançon.





2.3.2-"La Valaddo".



Sul N.27 del 1969 la redazione di "Coumboscuro" salutava "La Valaddo" come "vous novo de nosto famiho prouvençalo"; la rivista, il cui primo numero ciclostilato era stato pubblicato nell'autunno del 1968, fu fondata da un raggruppamento di giovani di Viaretto di Roure in val Chisone ("le jouvént dâ Viharét") come "organo interno bimestrale del Club Alpino Villaretto e d'informazione per la media e alta Val Chisone".

Lo scopo de "La Valaddo", enunciato sul N.2, è quello di recuperare le tradizioni popolari, la lingua, i costumi "che hanno caratterizzato la vita dei nostri antenati" (73) per opporsi all'"incalzare del livellamento di massa di questa nostra società dei consumi" (74); il sottotitolo recitava: "periodico di vita e di cultura valligiana"

Siamo nel 1968, anno in cui fu fondato il primo movimento politico autonomista nelle valli; sebbene le problematiche che saranno al centro dell'occitanismo militante facciano già capolino tra le pagine de "La Valaddo"(75), la scelta di un approccio apolitico alla questione occitana caratterizzerà sempre la rivista, a partire dalla fondazione sino ai giorni nostri.

"La Valaddo" è "espressione dell'area e della popolazione provenzaleggianti o patouasanti, nelle valli del Chisone, della Germanasca e dell'Alta Dora" ed "esclude qualsiasi strumentalizzazione a fini partitici e confessionali" (76).

L'associazione omonima, costituita nel 1979 e che a partire da quella data prese in gestione la rivista, indicava sul N.3 del 1979 gli obiettivi principali che si proponeva di raggiungere:

1)diffusione nell'area delle valli Chisone, Germanasca e alta Dora Riparia della conoscenza della lingua, della cultura e della civiltà provenzali proprie della zona, a mezzo di conferenze, manifestazioni e pubblicazioni;

2)valorizzazione delle parlate provenzali e del patrimonio linguistico che caratterizza le vallate stesse;

3)promozione e organizzazione di corsi scolastici e post scolastici tesi all'insegnamento dei dialetti e della cultura provenzale locale" (77).

Le linee direttrici dichiarate più volte sulla rivista (78) coincidono con quelle dichiarate da Alex Berton in un'intervista del 2003 (79), a conferma di una continuità di prospettiva portata avanti da "La Valaddo" nel corso degli anni.

Come si evince dalle citazioni sopra riportate, "La Valaddo" preferisce il glottonimo "provenzale", il cui uso è spesso alternato con il più familiare "patouà" (80), ponendosi in continuità con la linea del federalismo mistraliano inaugurata dall'Escolo dóu Po – anche se reinterpretato in virtù della storia comune degli "Escartons" come legame privilegiato con il briansonese piuttosto che con la Provenza (81) - e schierandosi contro il nazionalismo occitano del M.A.O. (82).

La lingua locale , scriveva nel 1969 Ezio Martin che fu per molti anni redattore della rivista, "rappresenta ormai un patrimonio da salvare, che esso è in grave pericolo" a causa dello spopolamento della montagna e della concorrenza della lingua nazionale; sin dai primi numeri la rivista concesse ampio spazio al provenzale, riservando ai patoisanti una sezione apposita - l'Angle da Patois - in cui potevano scrivere nella loro lingua madre, "eredità gratuita lasciataci dai nostri padri, senza la quale la maggioranza di noi si perderebbe nel gran mare dell'anonimato piemontese o italiano"; scrivere in patois è per Ezio Martin "un atto necessario per affermare la propria identità e salvaguardare le proprie radici secolari", oltre che "un semplice atto di dignità umana": "La nostra individualità è quel che è non solo per merito nostro, ma anche per quanto si è depositato in noi come epigoni di vicende secolari" (83).

"La Valaddo" si affacciò quindi sulla scena delle valli occitane come seconda rivista - dopo "Coumboscuro" – impegnata a promuovere l'uso e la scrittura del dialetto e a promuovere la presa di coscienza etnico-linguistica avviata dall'Escolo dóu Po.

Essa divenne il punto di riferimento per gli autori occitanofoni e per gli studiosi di storia, lingua e letteratura locale delle valli torinesi Chisone, Germanasca, San Martino e alta Dora (mentre "Coumboscuro" restò per qualche anno il punto di riferimento per le valli cuneesi, almeno fino alla nascita delle altre riviste negli anni Settanta) tra i quali ricordiamo Franco Bronzat, Silvio Berger, Remigio Bermond, Andrea Vignetta, Ezio Martin, Ettore Merlo, Sandro Cirillo Gay, Osvaldo Peyran, Attilio Joannas, Mario Borgarello, Ernesto Odiard des Ambrois ed Ugo Piton.

Sempre per promuovere l'uso scritto della lingua l'associazione inaugurò nel 1971 il Concours de Prozo e Pouezio Lou Roure; per la prosa vinsero il primo anno Sergio Ottonelli (L'aprentissatge) e Remigio Bermond (El countrebandia), il secondo anno Tavio Cosio, Ugo Piton e Franco Bronzat; per la poesia nel 1971 Lucia Abello (Auro) e Janò Arneodo (Rumiage) e l'anno successivo Masino Anghilante, Remigio Bermond e Lucia Abello. Al IV Concorso si distinse Giacomo Bellone, un giovane scrittore di Limone Piemonte che aveva già pubblicato alcune sue poesie sui primi numeri di "Ousitanio Vivo".



LA VALADDO (per approfondimenti si veda: Che cos'è "La Valaddo"?).

"La Valaddo" accolse, insieme all'associazione di Coumboscuro, l'eredità provenzalista lasciata dall'Escolo dóu Po in seguito alla sua dissoluzione nel 1972. Come dichiarato dalla redazione nel 1981, la rivista "si muove nel solco tracciato dal primo gruppo provenzalista d'Italia al fine di "rinsaldare e sviluppare i buoni rapporti tra le popolazioni di espressione provenzale delle valli alpine piemontesi del Chisone, della Germanasca e dell'alta Dora Riparia" ("La Valaddo", N.32, 1981, p.4).

Per quanto riguarda la lingua, "La Valaddo" elaborò dapprima una propria grafia e in seguito accolse la grafia fonematica dell'Escolo dóu Po, ancor oggi in vigore sulla rivista, opponendosi tenacemente alla grafia normalizzata (per approfondimenti si veda: Le grafie).

Le linee programmatiche ed ideologiche sopra delineate accompagneranno "La Valaddo" sino ai giorni nostri: in primis, l'opposizione all'azione politica nazionalista e separatista dei movimenti neo-occitanisti e la promozione di iniziative prettamente culturali, linguistiche e folcloristiche; in secondo luogo, e in conseguenza del primo punto, il rifiuto dell'idea di una nazione occitana; infine, una tutela di tipo conservativo della lingua d'Oc nelle sue varietà dialettali – la lingua locale trascritta con la grafia fonematica dell'Escolo dóu Po - in contrapposizione alla promozione e alla diffusione di una lingua comune occitana mediante l'uso della grafia classica (definita da Alex Berton "una lingua standardizzata, uniforme ed artificiale, senza radici tra le popolazioni")



2.4-La morte dell'Escolo dóu Po e l'emergere dell'"altro" occitanismo.



A partire dalla fine degli anni Sessanta iniziarono a giungere nelle valli dal versante occitano francese nuove idee destinate a cambiare radicalmente il panorama del provenzalismo valligiano; la morte dell'Escolo dóu Po può essere considerata uno spartiacque tra un'epoca, iniziata nel 1961 con la fondazione dell'associazione, ed un'altra, preconizzata dalla nascita del Movimento Autonomista Occitano nel 1968 (84) e che evolverà negli anni Settanta in quello che Domenico Canciani e Serge De La Pierre definiscono l'"altro occitanismo", "meno concentrato sulla problematica strettamente culturale e più attento all'analisi e alle proposte sul terreno economico e amministrativo" (85).

Le cause della dissoluzione dell'Escolo dóu Po nel 1972 sono da ricercare da un lato nei dissidi interni all'associazione, dall'altro nell'emergere di "un diverso modo di considerare tutta la questione della salvaguardia del nostro patrimonio linguistico"(86).

Il 20 dicembre del 1970 si tenne a Santa Lucia di Coumboscuro una riunione dell'Escolo dóu Po per esaminare i dieci anni di attività dell'associazione; in quest'occasione furono nominate due commissioni: una per riformare lo statuto, l'altra per la creazione di un sistema grafico di segni in grado di servire alla trascrizione di tutte le parlate provenzaleggianti delle Valli alpine del Piemonte (87).

La Commissione linguistica si riunì più volte presso l'Atlante Linguistico dell'Università di Torino tra il marzo del 1971 e l'aprile del 1972; facevano parte della Commissione alcuni docenti dell'università - Giuliano Gasca Queirazza, Arturo Genre, Corrado Grassi – e alcuni rappresentanti delle valli occitane – Sergio Arneodo per la val Grana, Antonio Bodrero, Sergio Ottonelli e Gianpiero Boschero per la val Varaita, Beppe Rosso per la valle Stura -, ai quali si aggiunsero Franco Bronzat, Remigio Bermond ed Ezio Martin della valle Chisone, Attilio Joannas della valle di Susa, Giuseppe Dho della valle Po ed il piemontese Gustavo Buratti, che era stato segretario dell'associazione per molti anni.

La nuova grafia, denominata dell'"Escolo dóu Po" o "concordata", fu pubblicata per la prima volta sul N.44 di "Coumboscuro" nel 1972 e successivamente su "Lou Soulestrelh" nell'agosto del 1973: fonematica e non fonetica nè etimologica, essa prendeva come base di lavoro la grafia mistraliana ma apportava alcune modifiche laddove essa risultava "insufficiente o inadeguata a rappresentare il maggior numero di fonemi presenti in quest'area"; tra i criteri seguiti dalla Commissione vi era anche la "rinuncia alla creazione di qualsiasi tipo di coinè dialettale, nel rispetto e per la salvaguardia di tutte le varietà in uso, anche quando siano rappresentate da un numero minimo di parlanti" (La nuova grafia del patouà).

La pubblicazione della nuova grafia su "Coumboscuro" suscitò subito la risposta di Sergio Arneodo, pubblicata in basso nella medesima pagina, che rifiutò il sistema di trascrizione proposto decidendo di restare fedele alla grafia mistraliana (Proposta di grafia per la trascrizione delle parlate provenzali d'Oc delle valli cisalpine. Commento di Coumboscuro); Arturo Genre rispose poi alle critiche di Arneodo sul N.46 (Grafia unificata nel provenzale alpino).

La discussione sulla grafia proseguì su "Lou Soulestrelh"; alla pubblicazione nel 1973 de La nuova grafia del patouà firmata da Arturo Genre e Gianpiero Boschero rispose Franco Bronzat con la proposta di un'altra grafia, La grafia normalizzata (o classica), di matrice etimologica ed usata dall'I.E.O. nell'Occitania d'oltralpe; secondo Bronzat questa grafia era "l'unica in grado di mantenere "un legame tra i vari dialetti d'Oc mettendo a suo agio colui che parla per condurlo metodicamente alla pagina scritta, alla coscienza d'una unità relativa, sufficiente allo sviluppo d'una letteratura vivente".

A sostegno della grafia dell'I.E.O. proposta da Bronzat si schierò Jacme Taupiac (Alcune osservazioni sulla grafia del patouà), dando il via ad una discussione che si prolungò sui numeri successivi.

Genre rispose infine a Taupiac (Risposta a Jacme Taupiac) e a Bronzat concludendo che la loro posizione e la sua erano inconciliabili, in quanto portatrici di "un diverso modo di considerare tutta la questione della salvaguardia del nostro patrimonio linguistico": mentre la grafia dell'Escolo dòu Po aveva come "primo e preciso obiettivo il rispetto di tutte le varietà in uso", "rinunciando, a questo scopo, alla creazione di un qualsiasi tipo di coinè dialettale", la grafia normalizzata voleva proporre, continua Genre,

un modello unico di lingua scritta («una sola e medesima immagine grafica») nella quale dovrebbero riannodarsi tutte le varietà parlate, delle quali peraltro il modello non tiene un gran conto («sottintendendo le varietà fonetiche più caratteristiche dei nostri dialetti»). Il suggerimento viene a F. Bronzat d'oltralpe dove questa "grafia normalizzata" prevede, a quanto mi risulta, che scriva per esempio votz (= "voce") anche chi dice vouès (grafia della Commissione), in cui come si può vedere non c'è un solo fonema che corrisponda all"immagine grafica". Ora, questo non è «usare - come dice Bronzat - una maniera di scrivete comune», ma è parlare una lingua e scriverne un altra. Teoricamente, non c'è motivo che una grafia di questo tipo si limiti a rappresentare le parlate dell'area occitanica; può andare bene anche per il francese, l'italiano o lo spagnolo: scriveremmo votz e leggeremmo chi 'voix', chi 'voce' e chi 'voz'; le tre "pronunce" sono più vicine all'"immagine" di quanto non lo sia ouès.
Ma io non posso condividere una simile scelta - di cui in verità non comprendo neppure il senso - (...) Se, col pretesto di mire politiche di unificazione si vogliono calpestare ancora una volta l'anima e l'individualità del montanaro, disprezzandone anche la parlata, allora piuttosto non se ne faccia nulla: meglio lasciare che questa cultura muoia, ma dignitosamente (Per la lettura del testo integrale si veda:
Ancora sulla grafia. Risposta a F.Bronzat e C.Rabo).

Come ha messo in evidenza Genre, le due proposte veicolavano due modi molto diversi di intendere tutta la questione della salvaguardia della lingua; proponendo la grafia normalizzata Bronzat mirava a stabilire un legame con l'I.E.O., mentre fino ad allora l'Escolo dóu Po aveva mantenuto i legami con il Felibrige; Bronzat preferiva il glottonimo "occitano" a quello "provenzale", guardava ad un'Occitania più vasta rispetto alla Provenza dell'Escolo e caldeggiava la creazione di una koinè scritta che riunisse sotto un unico tetto tutte le varianti dialettali (per approfondimenti sulle grafie si veda: Le grafie); un mondo nuovo si stava aprendo agli occhi della nuova generazione, racconta Bronzat in un'intervista :

Sensa retòrica pòio dire que drant de nòstris uèlhs s'es dubert un monde novel pas mai fait de folclòr, de capoulié, de tambourin e de manteneires, mas de gent que travalhava dins una vision de renovelament de la cultura occitana dins un encastre qu'anava ben plus luènh de la terra de Provença e de nostras Valadas, mas arjonhia totas las regions de la lenga d'Oc (Bronzat, 30ans d'occitanisme II)



Per dirla in termini sociolinguistici citando lo studio di Fiorenzo Toso Dalla glottonimia alla glottopolitica: la scelta tra "occitano" e "provenzale" dalle motivazioni storico-culturali alle polemiche ideologiche (2007), si può dire che la dicotomia tra occitano e provenzale, così come la dicotomia tra la grafia dell'I.E.O. e la grafia dell'Escolo dóu Po/mistraliana, si configura come un'opposizione ideologica oltre che glottonimica:



L'evoluzione della prospettiva provenzalista (...) consente di leggere la dicotomia tra occitano e provenzale come un episodio dell'opposizione, irrisolta nella maggior parte dei contesti linguistici minoritari, tra una standardizzazione che ricomponga la varietà dialettale consentendo una più o meno velleitaria concorrenza istituzionale con la lingua tetto e l'accettazione di condizioni di diglossia che salvaguardino la vitalità degli usi parlati, rinunciando a porzioni più o meno consistenti di spazi comunicativi di prestigio (...).

La scelta della grafia "mistraliana" o di quella "tolosana" è soltanto un aspetto della contrapposizione che si basa anche in Italia sulla distinzione glottonimica "provenzale" e "occitano", non priva ancora una volta di risvolti ideologici per quanto riguarda la determinazione di un'appartenenza sovralocale – l'orizzonte della "Nazione Occitana" o quello della Regione transfrontaliera Provenzale – e la gestione delle problematiche culturali e politiche connesse all'identità delle valli cisalpine (88).



La dicotomia occitano/provenzale che stava emergendo in quegli anni come contrapposizione ideologica si riversò anche nella produzione poetica: alla "Prouvenço" invocata nel 1970 da Masino Anghilante ("ma terro di flour / escouto lou bram – de moun cor mountagnard / prouteg la Prouvenço – ma terro, ma gent": Priero dal Prouvençau) verrà contrapposta l'Occitania invocata nel 1974 da Bronzat ("Maire, deessa, mendia/ avem besonh de tu/ chauda, bela, viosa, /libra mai que jamai, parelh te volem: Occitania": Priera eissubliaa) e da Giacomo Bellone (Ousitanio).

Tornando all'Escolo dóu Po, le idee giunte d'oltralpe si stavano diffondendo anche tra alcuni membri della Commissione per la revisione dello statuto, minando dall'interno gli equilibri già precari dell'associazione.

La commissione era formata dal presidente Giuliano Gasca Queirazza, da Sergio Arneodo, Antonio Bodrero, Aurelio e Giorgio Bianco, Gianpiero Boschero, Franco Bronzat, Gustavo Malan, Joan Bonin, Censin Pich e il segretario dimissionario Gustavo Buratti; dopo quattro riunioni tenutesi a Torino, Roccabruna e Villaretto di Roure fu approvato il primo progetto di Statuto, poi corretto in altre due riunioni tenutesi a Coumboscuro ed infine esaminato dall'Assemblea ordinaria dell'Escolo dóu Po in occasione dell'XI Rescountre Piemount-Prouvenço.

Il progetto fu pubblicato nel febbraio del 1972 sul supplemento al N.41 di "Coumboscuro" e riportava anche in allegato gli emendamenti non ancora esaminati dalla commissione.



ARTICOLI 2 E 3 DEL PROGETTO DI STATUTO.

ART. 2.

Quale associazione culturale dell'Escolo dóu Po ha lo scopo di risvegliare, conservare e sviluppare la lingua e la cultura della Minoranza di lingua d'Oc dell'Italia, con riferimento particolare alle vallate alpine alta Corsaglia, Ellero, Pesio, Vermenagna, Gesso, Stura, Grna, Maira, Varaita, Po, Pellice, Germanasca, Chisone e alta Dora Riparia, con esclusione di ogni interferenza linguistica e culturale di natura contraria alle finalità dell'"Escolo".

In particolare l'associazione si propone:

a)di ottenere l'applicazione dell'art.6 della Costituzione della Repubblica italiana, dell'art.7 dello Statuto della Regione Piemonte e della Dichiarazione dei Diritti dell'uomo dell'ONU (formulazione, questa, da precisare);

b)di conferire sempre maggiore dignità alla parlata alpina d'Oc, incoraggiandone la conoscenza, l'uso nelle manifestazioni della vita associata (scuola, culto, vita politica, ecc.), la letteratura e lo studio scientifico;

c)di conservare le tradizioni e i costumi locali;

d)di promuovere lo studio e di ravvivare la musica e le espressioni d'arte locali;

e)di contribuire alla conservazione delle caratteristiche urbanistiche, architettoniche, paesaggistiche delle valli alpine di lingue d'Oc;

f)di favorire gli studi che concernon la storia delle valli, dei loro costumi e la conservazione di tutti i documenti che possano interessare la storia locale;

g)di promuovere lo studio dei problemi socio-economici delle valli alpine di lingua d'Oc.

L'Escolo dóu Po ha inoltre lo scopo di promuovere relazioni culturali tra le popolazioni dei paesi di lingua d'Oc al di qua e al di là delle frontiere, di sviluppare i buoni rapporti tra le regioni di lingua d'Oc e le regioni a parlata piemontese, i paesi vicini e le minoranze linguistiche, nella concreta visione di una fratellanza universale.

ART.3.

L'"Escolo dóu Po" non ha carattere confessionale o partitico.

ALCUNI DEGLI EMENDAMENTI PROPOSTI.

Gustavo Malan proponeva di sostuire l'ultimo comma dell'art.2 con la seguente frase: "L'Escolo dòu Po ha inoltre lo scopo di promuovere le relazioni culturali con le culture vicine e con tutte le culture minacciate, nella concreta visione di una fratellanza universale" (Emendamento n.3); chiedeva inoltre che venisse cancellato l'inciso "con l'esclusione di ogni interferenza linguistica e culturale di natura contraria alle finalità dell'Escolo" (Emendamento n.4).

I piemontesi Buratti e Pich chiedevano che le parole "delle regioni a parlata piemontese" dell'ultimo comma dell'art.2 fossero sostituite dalle parole "della regione di lingua piemontese" (Emendamento n.6); il secondo chiedeva inoltre che fosse aggiunto un nuovo articolo tra il terzo e il quarto, con la seguente formulazione: "Le lingue comunemente usate dall'Escolo dòu Po sono il Provenzale o Occitano, il Piemontese, l'Italiano e il Francese" (Emendamento n.8); Buratti chiedeva inoltre che un membro del Consiglio direttivo fosse obbligatoriamente scelto fra i piemontesi (Emendamento n.12); Bodrero e Arneodo risposero a quest'ultima proposta chiedendo che invece di essere scelto tra i Piemontesi obbligatoriamente, fosse scelto "fra i cultori generali della lingua d'oc" (Emendamento n.13).

Antonio Bodrero chiedeva di aggiungere all'art.2 un altro comma: "L'Escolo dòu Po auspica l'autonomia politica delle minoranze linguistiche e l'indipendenza delle nazioni oppresse" (Emendamento n.7).



Dagli emendamenti proposti emergono chiaramente le diverse posizioni e correnti interne all'Escolo.

Da un lato, spiega Franco Bronzat, i piemontesisti "non volevano rinunciare ad esercitare una sorta di tutela sulla questione occitana" (F.Bronzat, 30 ans d'occitanisme IIIe chiedevano maggiori riconoscimenti anche per la "lingua" piemontese.

Dall'altro lato Bodrero, allora segretario del M.A.O., spingeva per un maggior coinvolgimento dell'associazione in campo politico a sostegno dell'indipendenza occitana.

L'escolo dóu Po si riunì per l'ultima volta al Rescountre di Roure del 1972; dal commento comparso sulla rivista locale "La Valaddo" emerge che la frattura tra piemontesisti, occitanisti e provenzalisti era ormai insanabile:

quella che avrebbe dovuto essere l'espressione civile di una manifestazione linguistico-culturale sui problemi delle nostre valli, nonostante la presenza moderatrice di Giuliano Gasca Queirazza, è tosto degenerata in dispute astiose che nulla avevano di "cultura" e che esprimevano apertamente tutti i personalismi e i contrasti ideologici che da alcuni anni travagliano l'Escolo dòu Po, attraverso interventi, a proposito e a sproposito, spesso incomprensibili alla maggioranza dei presenti (89).

Sul N.1 del 1973 de "Lou Soulestrelh", lo stesso su cui era stata pubblicata la Nuova grafia del patouà, comparve in prima pagina l'articolo in cui Gianpiero Boschero annunciava la morte dell'Escolo dóu Po causata, secondo lui, dal comportamento dei piemontesi i quali "con varie argomentazioni, pretesero di avere diritti speciali sui destini dell'associazione. Soprattutto erano contrari al fatto che l'Escolo affermasse in tutta semplicità di essere l'associazione degli Occitani d'Italia perché questo significava la perdita del loro «potere» (Per il testo integrale si veda: L'Escolo dòu Po è morta).

In realtà, come ha osservato Dino Matteodo in Breve storia dei movimenti occitanisti in Italia, oltre alle rivendicazioni dei piemontesisti furono anche le contestazioni avanzate in occasione dei Rescountre da alcuni giovani occitanisti a concorrere alla morte dell'Escolo (90); la nuova generazione reclamava un intervento dell'Escolo dóu Po in campo politico: "noi che eravamo i più giovani di quel mondo" – spiega Fredo Valla - "abbiamo subito capito che c'era bisogno di un lavoro politico. Se si faceva solo un lavoro culturale senza politica non c'era nessuna speranza di far maturare la cultura e la lingua" (91).

Sebbene l'Escolo si fosse impegnata più volte nella rivendicazione di una tutela legislativa per le minoranze linguistiche - quando nel 1964 aderì alla nascente Associazione Internazionale per la difesa delle lingue e delle culture minacciate di Tolosa, o nel medesimo anno quando presentò al IV Rescountre di Monterosso Grana una petizione al Ministero della Pubblica Istruzione rivendicando il diritto all'insegnamento in lingua -, i giovani occitanisti stavano pensando ad un altro tipo di azione, ispirati da quanto stava succedendo oltralpe in quegli anni.




2.5-L'occitanismo degli anni Settanta.



Le idee occitaniste d'oltralpe arrivarono nelle valli sotto due forme: l'etnismo di François Fontan e le rivendicazioni dei movimenti studenteschi che in quegli anni stavano dando vita in Francia a numerosi comitati spontanei, gruppi e movimenti occitanisti.

Nel 1968 comparve nelle valli il primo volantino ciclostilato firmato dal M.A.O., il Movimento Autonomista Occitano nato in seguito all'incontro di alcuni valligiani con François Fontan, il quale, racconta Franco Bronzat, aggiunse "all'immagine della mitica Provenza da noi montanara, rude e difficile dove la gente deve fuggire il paese per vivere l'immagine di una mitica Occitania, Stato futuro, egualitario, libertario, sinistrorso e nazionalista" (92).

Al Rescountre di Perrero del 1970 alcuni giovani occitanisti - tra i quali Franco Bronzat, Gianpiero Boschero, Fredo Valla e Dario Anghilante - entrarono in contatto sia con alcuni membri dell'Escolo dóu Po come Gustavo Malan e Antonio Bodrero, secondo i quali l'associazione così com'era organizzava aveva fatto il suo tempo, sia con lo scrittore occitano d'oltralpe Peire Pessamessa, che portava per la prima volta nelle valli le idee e la grafia dell'I.E.O (cfr.F.Bronzat, 30 ans d'occitanisme II); alcuni di questi giovani occitanisti avevano inoltre partecipato in quello stesso anno alla manifestazione "Festival d'Oc" di Avignone, come racconta Fredo Valla in un'intervista:

E quella fu la grande scoperta dell'Occitania. Là c'erano persone che parlavano come noi, allora ce n'erano ancora soprattutto in quell'ambiente di manifestazioni dove c'era una militanza occitanista, magari dopo, al di fuori della manifestazione, parlavano in francese, ma lì parlavano l'occitano e per noi è stata una grande scoperta. Scoprire che la lingua e la cultura delle Valli non apparteneva solo ad un mondo di montagna, a piccoli paesi isolati, ma c'erano delle città, della musica, della letteratura, delle università, c'erano professori che parlavano occitano. Uscire dall'idea dell'occitano come una cultura di valle, di qualche valle secondaria, isolata dal mondo e scoprire che c'era una grande storia, era una grande possibilità, era una grande prospettiva (93).

"Occitania aveva finalmente un viso", conferma Bronzat ricordando i fermenti di quegli anni:



Non era solamente la Provenza degli olivi e delle cicale, della masseria del Juge e di Mireio, dei costumi e delle feste folcloriche o l'Occitania di François Fontan ma era anche l'Occitania dei catari e degli Albigesi, dei viticoltori, era l'Occitania intellettuale che lavorava nelle Università, era l'Occitania viva e non utopica che sognava il federalismo; era quella dove il militantismo si mescolava alla ricerca delle radici tagliate che bisognava riannodare: sicuramente l'esperienza dei raduni dell'IEO o dell'Università di Montpellier per alcuni fu il segnacolo che ha segnato una vita dedicata all'Occitania. Non era la Povenza mitica di Mistral ma era pure il Lengadoc rosso della cazone di protesta, la Guascogna con il suo linguaggio strano, il Limosino e l'Alvernia dove la gente delle valli si recava per apprendere la danza delle buree (94).

Fu nel contesto sessantottino di questo nuovo clima politico generato dalle lotte degli studenti e degli operai che si formarono i primi quadri militanti dell'occitanismo politico, i quali, come si evince dalle testimonianze sopra riportate e come conferma Dino Matteodo in Breve storia dei movimenti occitanisti in Italia, "recepiranno la necessità di porre il problema occitano su basi più solide che non quelle di un mitico ritorno al passato" (95).

Fiorenzo Toso riassume la questione in termini politici affermando che, in alternativa ad un regionalismo provenzalista-felibrista tinto di venature federaliste di matrice cattolico-conservatrice emerse in quegli anni una visione dell'Occitania basata su un nazionalismo a base etnica, che aveva come fondamento l'idea di un'unitarietà linguistica e culturale, di matrice progressista e radicale (96). In realtà, le idee dei nuovi movimenti che emersero in quegli anni divergevano tra di loro su alcuni punti fondamentali che, come vedremo, portarono successivamente alla rottura del fronte comune inizialmente intrapreso.

Il primo movimento occitanista delle valli, il M.A.O. – che Sergio Salvi definisce "la filiale italiana del partito nazionalista occitano" (97) - , fu fondato in valle Varaita da François Fontan, fuggito dalla Francia e stabilitosi a Frassino nel 1964, e da Antonio Bodrero, già candidatosi alle elezioni comunali di Frassino e Melle nel 1965 nella lista "Movimento Autonomista Provenzale" e in quelle di Frassino nel 1967 nella lista "Autonomia Prouvenço".

Il primo statuto e il primo programma, rielaborati poi nel 1971, apparvero nel 1968: il M.A.O. si prefiggeva come obiettivo l'istituzione di una "regione autonoma a statuto speciale denominata Occitania", nell'ottica di una futura "internazionale dei popoli (...) nel rispetto di ogni indipendenza nazionale"; si rivendicavano inoltre il diritto di usare la lingua occitana negli ambiti pubblici e nell'insegnamento, maggiori poteri alle Regioni e infine il rispetto dei diritti dei lavoratori.

Se nel programma del 1968 il M.A.O. si definiva "movimento autonomista democratico" (98), in quello del 1971 divenne "movimento popolare di liberazione nazionale che ha per scopo la totale decolonizzazione politica, economica, culturale delle valli Occitane"; il sostegno per la difesa delle minoranze etniche e culturale si estendeva non solo a tutte le popolazioni delle valli (art.3) ma all'Italia e al mondo intero (99).

Dino Matteodo, segretario del M.A.O. a partire del 1975, nel 1977 descriveva il movimento come "la prima e tutt'ora la sola organizzazione occitana prettamente politica esistente nelle nostre valli":

Il MAO, sin dal'inizio, pone il problema occitano sul terreno della lotta politica-amministrativa e la centralità delle rivendicazioni economiche. In questo contesto il movimento evidenzia la situazione tipicamente coloniale dell'Occitania italiana; coloniale: dal punto di vista politico per la mancanza nelle valli di uno strumento di autogoverno dotato di reali poteri; dal punto di vista economico per il mancato sfrutamento a beneficio della popolazione locale delle risorse economiche delle valli e, infine, dal punto di vista culturale per la scomparsa della cultura occitana con l'avanzata di quella piemontese-italiana. (100).

Il 1971 vide anche la nascita, sempre in valle Varaita, di un altro movimento, il Coumitat Aoutounoumisto Oucitan d'Acioun (C.A.O.A.), al quale aderirono anche alcuni militanti del M.A.O.

Esso nasceva sul modello dei Comitat Occitan d'Estudis e d'Accion d'oltralpe. Tra i fondatori vi erano Gianpiero Boschero, Franco Bronzat e Fredo Valla.

I temi del primo volantino firmato dal CA.O.A., intitolato Litro douberto a i oucitan, riprendevano quelli denunciati dal M.A.O.nel 1968 nel volantino, nello statuto e nel programma: si accusava "la politica colonizzatrice e livellatrice svolta dallo Stato italiano", si parlava di "sottosviluppo e alienazione" sia in campo economico che culturale e si prospettava la "strada dell'autonomismo".

In un articolo pubblicato su "Lou Soulestrelh", Dino Garnero spiega che il C.A.O.A. si muove "fuori da qualsiasi ideologia partitica" per la "decolonizzazione economica e culturale delle Vallate Occitaniche", "paese sfruttato e colonizzato dallo Stato italiano" (101).

Tutte queste tematiche e rivendicazioni troveranno espressione su "Lou Soulestrelh", il giornale fondato da alcuni membri del M.A.O. e del C.A.O.A.nel 1971, e successivamente su "Ousitanio Vivo", organo di stampa del M.A.O.a partire dal 1974.



2.5.1-"Lou Soulestrelh".



"Lou Soulestrelh" fu il primo giornale a rappresentare le posizioni più politicizzate del movimento occitano cisalpino; la rivista si proponeva come portavoce dei Comitati d'Iniziativa per l'Autonomia delle Valli Occitane che, secondo le speranze dei militanti, avrebbero dovuto sorgere in tutte le valli occitane d'Italia.

Il nome, che era stato proposto da Antonio Bodrero in un'assemblea alla quale erano presenti Gustavo Malan, Gianpiero Boschero, Fredo Valla, D.Garnero, Sergio Ottonelli, Tavio Cosio, Franco Bronzat ed altri, richiama alla mente gli antichi falò propiziatori che si facevano - e che in alcuni paesi delle valli cuneesi si fanno ancora oggi – nella notte di San Giovanni. In Chi siamo e che cosa vogliamo, l'articolo pubblicato in prima pagina sul primo numero del 4 settembre 1971, la redazione spiega la scelta di questo nome per il periodico:

Lou soulestrelh è un falò, e il simbolo ha il valore di un simbolo, cioè di un richiamo a una vecchia civiltà che con il fuoco sentiva il contatto con il sole (soule), gli astri (strelh), l'universo.

Siamo alla confluenza di tre fra le maggiori civiltà romanze: quella della lingua d'oc, quella della lingua d'oïl (francese) e quella della lingua del si (italiana) e di questa convivenza vogliamo fare un fattore di forza e non di debolezza e di disunione. Ma il fondo, l'origine della nostra civiltà, un elemento che caratterizza le nostre montagne, è in quella vecchia lingua d'oc, occitana o provenzale, che ha dato la prima espressione letteraria all'Europa moderna.

L'articolo proseguiva indicando gli obiettivi politici del movimento, il quale sosteneva la scelta autonomista proponendo l'istituzione di "tre distretti o circondari alpini collegati tra di loro, ad elezione diretta, per le valli occitane sopra Pinerolo (Valli Valdesi), sopra Saluzzo e sopra Cuneo, lasciando aperta la possibilità di arrivare all'istituzione di unità territoriali più ampie" (102).

Il concetto di "colonialismo interno" teorizzato da Robert Lafont – uno dei principali animatori del Comité Occitan d'Etudes et d'Accion dell'Occitania francese (103) – fu esteso sulle pagine del giornale anche all'analisi della situazione economica e politica delle valli.

La tutela del patrimonio culturale e linguistico occitano divenne parte di una lotta più vasta, ovvero, secondo Dario Anghilante - uno dei fondatori de "Lou Soulestrelh" e membro del M.A.O.- il punto di partenza per una ristrutturazione della società in contrapposizione alla società consumistica espressione della borghesia capitalista; imparare la lingua e praticarla diventava azione politica vera e propria: non rappresentava cioè "un attaccamento sentimentale e passatista nei confronti di culture morte", ma significava "ribellarsi ad una società che confonde l'universale con l'uniforme, lottare contro l'esasperante livellamento della nostra società" (104).

I temi degli articoli de "Lou Soulestrelh" vertevano principalmente sull'emigrazione dei giovani, sullo spopolamento delle valli ("per colpa di un'irrazionale politica sfruttatrice che ha portato l'uomo al lavoro e non il lavoro all'uomo" (105)), sul pendolarismo che spinge ogni giorno i lavoratori valligiani verso la pianura ("Che pena vedere i nostri operai contadini pendolari dell'industria moderna, lasciare le loro case in una livida alba invernale e vederli tornare la sera" (106)), sul turismo "domenicale", predatore e deturpatore del paesaggio montano (107).

Non mancavano le proposte per uno sviluppo economico sostenibile e rispettoso dell'ambiente montano, come ad esempio gli articoli di Gian Piero Boschero sulla coltivazione del genepì (Carcaren de soubre de la coultivacioun de lou genepi) o gli articoli che caldeggiavano lo sviluppo dell'artigianato e di piccole industrie specializzate nella lavorazione dei prodotti locali.

La collaborazione nella redazione de "Lou Soulestrelh" tra i membri del C.A.O.A. e quelli del M.A.O. iniziò ad incrinarsi nel 1972, in occasione delle indicazioni di voto per le elezioni del 7 maggio.

Sulla rivista si possono seguire le discussioni che vedevano schierati da un lato alcuni membri del M.A.O. ( "Il partito socialista si è particolarmente smascherato come nemico delle nostre valli" (108) ), dall'altro alcuni membri del C.A.O.A., come Malan e Boschero ("Il MAO si chiama Movimento, è un partito. Si chiama autonomista, è nazionalista. Probabilmente è partito proprio perché è nazionalista. La parola nazionalista è suscettibile di diverse interpretazioni. Qui l'interpretazione da dare ci pare stretta ed inquietante. (...) Quindi il MAO vede nel partito socialista un pericoloso concorrente, e quel che può sembrare fazioso, diventa logico in questa prospettiva (...) Nel rispetto democratico crediamo che si possa votare socialista in queste elezioni " (109)); i toni diventarono più accesi sul numero successivo, in cui Antonio Bodrero accusava Malan e Boschero di "confusione mentale" e i due ribattevano definendo la concezione del M.A.O. "idolatrica e sterile" ed il tono di Bodrero "burbanzoso" (110).

La frattura era ormai definitiva; "Lou Soulestrelh" rimase circa un anno senza essere pubblicato e, da quando riapparve, la collaborazione dei membri del M.A.O.divenne sempre più sporadica.

Nel 1973 i contestatori del M.A.O. fondarono a Torre Pellice sulle ceneri del C.A.O.A. l'Unione degli Autonomisti delle Valli Occitane (U.D.A.V.O.): da quel momento il giornale divenne l'organo di stampa del nuovo movimento.

L'U.D.A.V.O. si poneva come obiettivo la costituzione di una Regione Autonoma ma accettava anche, per una prima fase, soluzioni intermedie quali "i Distretti Alpini Occitani, aggregazione di più Comunità Montane limitrofe con poteri di Comprensorio e Circondario ed altri conferiti loro dalla Regione e dallo Stato", nella prospettiva futura di un federalismo etnico in "un'Europa che tenda al superamento dei falsi nazionalismi degli stati" (111).

Con la proposta della grafia etimologica dell'I.E.O. nel 1974 su "Lou Soulestrelh" ("pareva che (...) la grafia dell'I.E.O. sarebbe divenuta presto la grafia dell'"avvenire", la grafia dell'Occitania risorta, almeno dal punto di vista culturale" (112)) l'U.D.A.V.O. tentò di avvicinarsi ai movimenti d'oltralpe, intenzione confermata anche dal tentativo di costituire in Italia una sezione alpina dell'I.E.O. (113); d'altronde, alcuni membri dell'associazione Lou Soulestrelh facevano già parte del "Conselh d'Estudis" dell'istituto tolosano: oltre a Gianpiero Boschero e Fredo Valla figurava anche Franco Bronzat, promotore della grafia normalizzata.

Con la grafia dell'I.E.O.si era già cimentato sulle pagine del giornale Antonio Bodrero nel 1971 (Justicia e Libretat). Nel medesimo anno l'autore aveva anche pubblicato una raccolta di poesie intitolata Soulestrelh òucitan suddivisa in tre sezioni, ad ognuna delle quali corrispondeva una grafia diversa: nella prima sezione, denominata "escrichuro felibrihouno" (scrittura felibrista), Bodrero adottava la grafia mistraliana; nella seconda, denominata "escrichura trobadora" (scrittura trobadorica), l'autore adottava la grafia classica dell'I.E.O.e nell'ultima sezione, denominata "escrichura pedemontana", il piemontese.

La scelta di questa suddivisione raccontava anche le tappe fondamentali del percorso poetico e ideologico dell'autore, come scrive Bodrero stesso nell'introduzione:

La scoperta della mia patria occitanica (..) la devo all'amico Gustavo Buratti, che mi avviò alla conoscenza di Federico Mistral, della sua opera, della sua grafia. Il secono passo, dall'orizzonte culturale della casalinga e tradizionale Provenza ottocentesca e mistraliana, un po' bigotta, conservatrice, regionale, filofrancese a quello dell'Occitania moderna (e della sua grafia trobadorica) lo feci sotto la guida degli amici Robert Lafont (...) e di Peire Pessamessa (...). Il terzo e definitivo, salto questa volta, all'Occitania politica lo devo all'amico François Fontan (...). Lingua, letteratura, politica, etnologia, filosofia sono oggi i miei interessi principali, non i soli. (114).

Il medesimo percorso accomunava, come abbiamo visto, l'esperienza dell'autore a quella di altri militanti occitanisti: dal provenzalismo mistraliano all'occitanismo di Lafont, Pessamessa e François Fontan.

"Lou Soulestrelh" fu dunque il primo giornale a rappresentare le posizioni più politicizzate del movimento occitanico cisalpino; sulle sue pagine furono pubblicati il primo articolo di giornale in lingua occitana (La coulturo regiounalo din l'Eicolo Maternalo) ed il primo articolo, sempre in lingua, che tratta di politica (Les elecioun coumunales en Blins); a questo seguirono numerosi altri articoli, scritti in occitano, sui problemi politico-economici e linguistici delle valli, oltre alle poesie, ai racconti e al dibattito sulle grafie di cui ho già trattato (per approfondimenti si veda: Che cos'è "Lou Soulestrelh e Le grafie).

La collaborazione personale di alcuni militanti del M.A.O.riprese timidamente dopo una riunione tenutasi a Crissolo nell'ottore del 1974, nella quale il movimento autonomista, l'U.D.A.V.O.e Coumboscuro nominarono tre commissioni - culturale, socio-economica e politica - per coordinare le azioni dei tre movimenti.

Anche l'associazione Coumboscuro e l'omonimo giornale iniziarono ad interessarsi sempre di più ai problemi socio-economici delle valli occitane. Nel 1976 l'associazione della val Grana aderì alla proposta promossa dal M.A.O. di attuazione di una "Regione autonoma provenzale-occitana a statuto speciale", divisa in Comprensori e Distretti Alpini.

In quello stesso anno, a conferma del maggior impegno in campo politico, il gruppo di Coumboscuro si trasformò in "Movimento di autonomia e civiltà provenzale alpina" definendosi "movimento socio-politico-culturale".

Nel 1979 M.A.O. e Coumboscuro si candidarono insieme alla lista "Union Valdotaine Federalismo Autonomie", ma le divergenze ideologiche tra i due movimenti portarono alla rottura: Coumboscuro, fedele a un'autonomia etnica, umanistica e spiritualistica, il M.A.O., fedele a un occitanismo nazionalistico di matrice fontaniana.

La rottura tra il M.A.O. e l'U.D.A.V.O. risale invece al 1976; tale data segna anche la morte del movimento e del giornale "Lou Soulestrelh". Dino Matteodo spiega:

La settimana occitana di Villar Perosa, organizzata nel settembre del 1976 dall'U.D.A.V.O., se sarà anche la prima vera azione di base di quel gruppo, ne segnerà anche la sua fine. Alcuni suoi militanti aderiranno, in quell'occasione al M.A.O., e questo farà esplodere una crisi interna che investirà le sue linee politiche, assai approssimative, anche se da poco era stato approvato un altro programma che poneva l'obiettivo della regione autonoma; una crisi che investirà soprattutto l'organizzazione, paralizzata di fatto dalla presenza di militanti di partiti italiani nelle sue file. Settembre 1976 è anche la data di uscita dell'ultimo numero di "Lou Soulestrelh", la crisi dell'U.D.A.V.O. è anche la sua crisi. Nel febbraio scorso, un accordo all'interno della proprietà, in cui vi erano ancora aderenti del M.A.O., ne sancisce la fine come testata. "Lou Soulestrelh" diventa però una vera e propria associazione culturale che, oltre ad un'attività editoriale, cura la pubblicazione della rivista "Novel Temp", i cui i primi due numeri uscirono in passato come supplemento a "Lou Soulestrelh" (115).



2.5.2-"Ousitanio Vivo".



Come ho accennato nel capitolo precedente, la collaborazione di alcuni membri del M.A.O. con il giornale "Lou Soulestrelh" iniziò ad incrinarsi nel 1972, e la loro collaborazione con la rivista si fece man mano sempre più sporadica; per dare voce alle idee del movimento autonomista essi fondarono nel 1974 il giornale "Ousitanio Vivo":

La prima cosa che viene da dire è finalmente (...). Era necessario e così abbiamo iniziato. (...) Perché diciamo finalmente? Gruppi del Movimento si sono costituiti in più valli; il lavoro d'informazione della popolazione occitana ha sempre maggior campo d'azione; i problemi della popolazione occitana dei quali il Movimento può e deve occuparsi sono sempre più numerosi e gravi. Alcuni hanno aspetto particolare altri rivestono interesse generale, ma è importante che tutti siano portati a conoscenza e dibattuti. Il giornale si propone di portare in primo piano innanzi tutto l'aspetto politico della questione occitana, riferendosi in particolar modo alle valli occitane d'Italia, cioè il fatto che siano come una colonia e quindi si debba agire per la loro decolonizzazione. È necessario allora avere ben chiari quelli che sono i modi per realizzare questo: quale lavoro svolgere, quali tappe conquistare volta per volta fino al raggiungimento di risultati sempre più avanzati verso l'autonomia (116).

"Ousitanio Vivo" dimostra fin dai primi numeri un interesse per la politica ancora maggiore de "Lou Soulestrelh". È sufficiente sfogliare le prime edizioni e leggere i titoli degli articoli per rendersi conto di quali sono gli argomenti trattati dal giornale e le sue posizioni (117): si parla di colonizzazione e di liberazione nazionale delle minoranze etnico-linguistiche non solo d'Italia, ma del mondo intero e numerosi sono gli articoli di solidarietà ai baschi, ai catalani, agli irlandesi, etc.(118); e poi di spopolamento, emigrazione forzata verso i centri urbani, di turismo irrispettoso dell'ambiente e della cultura locale, di femminismo, di edilizia speculativa, di competizioni elettorali, con interventi frequenti nel dibattito tra i partiti italiani.

Il problema della lingua resta in primo piano, ma assume il significato di lotta per la propria identità inserendosi nella più generale lotta per il riconoscimento dell'autonomia in quanto minoranza etnica e linguistica. Nell'articolo Che cos'è l'Occitania, l'autore spiega che la lingua, la quale "tende a lasciare sempre più posto ad altre lingue o dialetti" perché "spesso considerata un patuà e come tale disprezzata", in quanto "manifestazione culturale, è il solo mezzo che permette di riconoscere una nazione" (119).

L'occitano è dunque una lingua con la quale si può parlare di politica, come avevano già dimostrato alcuni articoli scritti su "Lou Soulestrelh": una politica che porti alla rinascita della montagna occitana (Abu na cusienso autunumisto din i aministrasiun usitane), "che ten cunte de nuostro cultüro e de nuostro siviltà, na pulitico sü mezüro de nuostro gent e de nuostro tero, facio da nuzautre e da chi ubé nuzautre viou tüci giurn, a cumensar da la rüà a la cümüno e la vadado" (Pulitico e menestro).

Ma è anche una lingua adatta a scrivere poesia, come avevano già dimostrato i manteneire dell'Escolo dóu Po nel decennio precedente; la poesia, così come le canzoni del chantaire Dario Anghilante, si sposta tuttavia su temi più impegnati diventando portatrice delle rivendicazioni tipiche di questi anni: lo spopolamento delle valli e la necessità di creare nuove opportunità di lavoro ("I ome soun mort ou soun partì; / qui resto isì tout soulet, / fatigo a fà lou fen e anà a la meiro / ma isì vol restà, vol trabaià", Dario Anghilante, Lu fuec es encà rous; "Eiro pos veire se boouques a tio ruà /'co lou bosc da i porte t'an pià, /se trobes encà tio cazo l'es jo bel / (...) I an lisà anar vio touto la gent", Sergio Sodano, Isì la gent); la speculazione edilizia ("La tero es mac paouro per nouzautri / i fai i sordi ai fourestie", Dario Anghilante nella canzone sopra citata Lu fuec es encá rous; "'nte la vogo / de la coustrusioun, /que l'ei ouromai na drògo./ Si se prezento l'oucazioun /í bòouquen pa se la peno pago / (...) Tout acò coumo se la fous pa nen, /senso reflete soque l'ei lou ben, /pa mec aquel predicà da i preire /ma touto na manero de vive /moustrà da i nosti réire", Alessandro Fina, I Piloun tramolen); la perdita della terra e il pendolarismo lavorativo verso i centri della pianura ( "Aviou de tero i me l'an pià, / aviou na caso i me l'an pià, / aviou n'animo i me l'an decò pià", Dario Anghilante, Bóouco Bóouco; Tavio Cosio: Oubriè pendoulaire d'oucitania); il turismo irrispettoso dell'ambiente e della cultura locale (Masino Anghilante, Pavouno e Materin).

Resta, parafrasando Giacomo Bellone, un'Occitania che si presenta come "una vecchia baita invasa dalle ortiche, come una povera madre coi seni vuoti senza latte per i propri figli, che ha venduto le sue figlie più belle (le valli Vermenagna, Maira, Varaita e le altre) come vacche da mungere" (Ousitanio); o, per usare le parole di Ines Cavalcanti, "una fredda terra non più lavorata, lasciata sola, senza più patate, nè grano nè segala; sui solai batti-grano e aratri non più adoperati; nelle case tutto abbandonato e senza gente" (Tero d'Usitanio).



"OUSITANIO VIVO".

Il M.A.O. scomparve, perlomeno sul piano politico, nella seconda metà degli anni Ottanta, e quindi a partire da quel periodo "Ousitanio Vivo" non può più essere considerato l'organo di stampa del Movimento Autonomista Occitano. Il giornale è diventato l'organo dell'Associazione Culturale Ousitanio Vivo, fondata da coloro che precedentemente erano nel M.A.O.

L'associazione porta avanti alcuni degli obiettivi che sono emersi nel congresso tenutosi nel 1989, ed in particolare il progetto di un Istituto di studi occitani sul modello dell'I.E.O.francese: a testimonianza di ciò è la scelta, accanto alla grafia dell'Escolo dóu Po, della grafia normalizzata codificata sulla base della grafia classica promossa dall'Institut d'Estudis Occitans.

Ousitanio Vivo diede impulso alla produzione editoriale pubblicando il primo romanzo in occitano cisalpino, Steve,scritto da Giovanni Bernard; la raccolta di poesie Poësia Occitana, che raggruppa le poesie che parteciparono al concorso Poësia d'Oc del 1987; il libro Baìo Baìo sull'evento folcloristico che si tiene ogni cinque anni in Valle Varaita; Occitania di Sergio Salvi, l'autore di Le lingue tagliate e Le nazioni proibite; Calendal di Frédéric Mistral tradotto da Mirella Tenderini; il dizionario Lou Saber di Giovanni Bernard di Bellino; e infine l'Eli, Vocabolari a figuras.

(Per approfondimenti si veda: Che cos'è Ousitanio Vivo).



2.5.3-"Novel Temp"/"Lou Temp Nouvel".



Settembre 1976 è la data di uscita dell'ultimo numero de "Lou Soulestrelh".

Con la fine della testata Lou Soulestrelh non morì del tutto, ma divenne un' associazione culturale che, oltre ad una feconda attività editoriale, cura tutt'oggi anche la pubblicazione della rivista "Novel Temp" – sottotitolata Quaier (e successivamente, a partire dal N.15, Cartular) dal Solestrelh: quaderno di cultura e studi occitani alpini - i cui primi due numeri erano usciti nel 1975 e nel 1976 come supplemento a "Lou Soulestrelh".

Il nome della rivista, spiega Gianpiero Boschero,

viene da Guilhelm de Peiteous, il primo trovatore, che quasi mille anni fa scrisse una bellissima canzone che inizia con questo verso:

Ab la dolçor del temps novel ("con la dolcezza del tempo nuovo", la primavera).

Il temps novel della poesia divenne il novel temp, il nome della nostra rivista. Il nome voleva sottolineare l'unità culturale di tutta l'Occitania (Guilhelm, che era duca d'Aquitania, viveva nella parte opposta dell'Occitania) e la continuità culturale dal Medioevo – l'epoca più antica e più bella della nostra cultura – al giorno d'oggi (120).

La nuova rivista, a differenza de "Lou Soulestrelh", giornale politico e socio-economico, si occupava esclusivamente di cultura (121), come enunciato nel N.1:

Praticament al es dal 1960 que se parla de Valadas Provençalas o per melh dire Occitanas; despuèi quel'epòca s'es totjorn parlat de nòstra cultura, d'una maniera de viure, de pensar, de chantar qu'es la mesma d'un caire al autre de nòstras montanhas. Ma se nos chavem aquelis pauques discors fach d'una maniera generala, de chausa escrichas en ocasion de concors e premis, la conoissença de nòstre passat e present resta desconoissua a la plus part dal public.

Par respondre a n'aquestis enterojatius nosautres dal solestrelh avem pensat de far pareisser chasque tant una sernia de trabalh culturals de sot aquesta forma e aquest titol. Es coma dire, Novel Temp de rechercha, Novel Temp de colaboracion culturala entre Occitans montanhards, Novel Temp de reflecion e de pensament sus nòstra cultura vielha e nòva.

Lo Novel Temp la se pòl dire que sia la primiera revista entierament dediaa en general a la cultura occitana alpencha. Aquò perqué volem pas mesque nos ocupar de las Valadas Occitanas d'Italia, mas decò d'aquelis endrechs de l'autre cant que dins l'ensemp occitan ilhs nos son pus dapé (122).

Cultura del passato e del presente, Occitania italiana e francese: questi gli ambiti scelti dalla rivista, la prima dedicata esclusivamente alla cultura occitana alpina; tutto ciò non soltanto per ricordare - con sentimento nostalgico e folclorico la "vita di una volta" -, ma per una produzione di lotta per la rinascita occitana (123), in un'ottica progressista e non per tornare indietro ai tempi passati (124). Lo scopo della rivista, che è lo stesso dell'associazione, è quindi quello di "promuovere e diffondere la cultura occitana delle Valli Alpine con la ricerca, la collaborazione culturale tra occitani di montagna, la riflessione, lo studio della nostra cultura vecchia e nuova e lo stimolo ad una produzione culturale nuova, attraverso pubblicazioni, anche periodiche, e altre iniziative" (125).

La cultura è vista dai redattori come un tassello importante per la presa di coscienza etno-linguitica occitana: il lavoro svolto da "Novel Temp" è ritenuto dalla redazione complementare a quello svolto dalle altre riviste, movimenti e associazioni che operano in campo politico, lavoro considerato altrettanto importante ma delegato ad altri:

Noi ci occupiamo di cultura, riconoscendo alla politica e alla sociologia tutta l'importanza necessaria. Siamo sicuri che il nostro lavoro si integra bene con quello di coloro i quali trattano gli altri problemi. Il loro lavoro senza il nostro, in ultima analisi, rimarrebbe povero di giustificazioni culturali, linguistiche e scientifiche. Non è più il tempo delle sole intuizioni. Dopo l'enunciazione di idee nuove appena abbozzate, occorre dare la prova che tali idee sono giuste. Ciò richiede un lavoro lungo e paziente, ma che non può più attendere dopo più di sedici anni dalla nascita di quelle idee (126).

La dichiarazione di intenti sopra riportata non mancò di scuscitare polemiche da parte di alcuni militanti occitanisti; la risposta di "Valados Usitanos" non si fece attendere:

Voi ci tenete molto a sottolineare (Novel Temp n.6, p.3) che volete occuparvi solo di CULTURA. Contemporaneamente riconoscete – bontà vostra – ad altri problemi, quelli economici, sociali e politici, un ruolo importante: ma non volete occuparvene.

Questa divisione di ruoli – a voi la CULTURA, agli altri (a noi) il resto – non ci sta affatto bene e, credeteci, non è comoda nemmeno per voi! Ma che occitanisti siete? Di quelli che credono che esista una CULTURA indipendente da certi processi sociali, economici, ecc.? Una CULTURA cioè sterilizzata, posta un gradino più in alto del resto? Se è così, vi sbagliate! La lotta per l'autonomia delle Valli Occitane non lascia spazio al lavoro culturale fine a sè stesso; e siamo certi che, se realmente volete battervi nel campo dell'occitanismo, il vostro contributo (beninteso positivo anche se fino ad ora un po' asettico) non potrà restare a lungo così pulito, così "NEUTRALE". Possiamo dirvi il perché di questa nostra certezza? È semplice: perché battersi vuol dire sporcarsi le mani, uscire allo scoperto, prendere posizione direttamente, "schierarsi", uscire dalle nuvole di un paradiso culturale altrimenti destinato alla sola "conservazione", prossimo ormai alla museificazione. È questo che volete? Speriamo di no, perché c'è bisogno anche di voi e delle vostre indubbie capacità. Però c'è bisogno di chiarezza: noi vorremmo sapere, insomma, di cosa è fatto il vostro occitanismo, dove arriva il vostro autonomismo, dove termina e perché la vostra reale autonomia. Proviamo – se volete – a discuterne (127).

La risposta di "Novel Temp" fu pubblicata sul N.8; la redazione ribadiva che l'impegno per la valorizzazione della cultura è fondamentale per la presa di coscienza etnica e linguistica:

C'è chi ci accusa di voler fare soltanto della cultura, anzi, della cultura "asettica" e di non volerci occupare dei problemi sociali, economici, politici della nostra regione. Ci riferiamo alla lettera aperta apparsa sulla rivista Valados Usitanos, ove ci vengono attribuite affermazioni che appaiono dettate da una superficiale e parziale lettura del Novel Temp, se non da vecchi rancori e da un certo senso di invidia per il buon livello della nostra rivista.

Certamente non crediamo che la nostra cultura sia fatta soltanto di vecchie leggende e di antiche canzoni, non crediamo che sia esclusivamente cultura popolare; riteniamo però che il nostro impegno di Occitanisti nel settore culturale possa portare un necessario contributo al risveglio del notro popolo.

Valorizzare la cultura delle nostre valli per rendere gli Occitani più coscienti di sè stessi vuol dire aiutarli allo stesso modo che occupandosi dei loro problemi economici e sociali.

L'impostazione della nostra rivista appare da molti scritti pubblicati. Essa non è "asettica" ma chiaramente occitanista, nel doveroso rispetto del rigore scientifico.

D'altra parte, un lavoro capillare in campo politico, sociale, economico, vien fatto da ciascuno di noi, indipendentemente dal lavoro per la rivista, a diversi livelli, per il fatto stesso che siamo convinti occitanisti e autonomisti. (128).

I dissidi tra "Novel Temp" e "Valados Usitanos", complicati anche dalla scelta di una nuova grafia da parte di quest'ultima, portarono di lì a breve ad una frattura definitiva (129); seguì, nel 1984, collegata ai dissidi con "Valados Usitanos", la rottura con il M.A.O. (130).

L'associazione Soulestrelh si definiva autonomista e, a differenza del MAO, non nazionalista (131).

Nonostante le accuse di "Valados Usitanos", la rivista ebbe il merito, come ha fatto notare Franco Bronzat recentemente, di portare "la lingua verso posizioni più avanzate con un uso a livello scientifico, cioè l'utilizzo della lingua per scrivere articoli di ogni tipo e capace di presentare ricerche sulla nostra cultura" (132).

La consapevolezza che "la pubblicazione di testi occitani (compresi quelli "difficili") sia di estrema importanza" (133) ha indotto la redazione a concedere ampio spazio alla lingua che venne adottata anche nei testi scientifici.

La redazione cercò di ovviare ai problemi in cui potevano incorrere i lettori meno esperti dell'occitano in parte traducendo in italiano i passaggi più difficili (134), in parte cercando di limitare il proliferare delle grafie personali invitando i collaboratori a scrivere in Escolo dóu Po o in normalizzata, le due grafie scelte dalla redazione in un primo momento in quanto la prima "da noi è oggi la più conosciuta e rende bene le particolarità dei nostri dialetti", mentre la seconda, quella promossa dall'I.E.O., "affonda le sue radici nei primi secoli della cultura occitana e in tutta l'Occitania è la più usata" (135) .

Il problema delle grafie si pose fin da subito, dal momento che "Novel Temp" (come anche "Valados Usitanos") pubblicava le ricerche e gli studi inviati dai numerosi collaboratori provenienti dalle diverse valli occitane, oltre ad alcuni testi di autori dell'Occitania "de l'autre cant".

Tuttavia, è stata proprio l'attiva collaborazione di più persone a rendere prezioso il lavoro svolto da "Novel Temp" (136) - come anche dalle altre riviste e associazioni occitaniste e provenzaliste e dal mondo accademico -, nel salvare, mettendole per iscritto, la memoria e la lingua occitane.

Le ricerche trattano di argomenti diversi: la storia e la preistoria delle valli cuneesi; le tradizioni popolari e i modi di vivere delle comunità; la geografia e la toponomastica; la linguistica; vengono anche pubblicati, sporadicamente, alcuni studi socioeconomici sulle valli; alle feste, e in particolar modo al Carnevale nelle sue diverse manifestazioni, sono dedicati molti documenti e studi (137); infine, l'ultima parte di "Novel Temp" è dedicata alle recensioni di pubblicazioni, dischi e riviste.

Come "Valados Usitanos" e "Ousitanio Vivo", anche "Novel Temp" pubblica alcuni articoli e studi sulle altre minoranze linguistiche, sui movimenti e sulle proposte di legge avanzate sia in territorio nazionale che europeo, nella convinzione che "per gardà nosto lengo e nosto culturo ousitano aven manco d'esse unì entrà pichot popoul d'Italio e decò d'Eouroupo" (138).

Rispetto alle altre riviste occitaniste, "Novel Temp" dedica ampissimo spazio agli studi sulla musica popolare (139). Lo studio e la riproposta delle danze popolari e il recupero degli strumenti tradizionali rientrano infatti tra i principali obiettivi dell'associazione; la musica e la danza, secondo i redattori, hanno un importante valore culturale, stimolano una socialità di tipo comunitario, ormai perduta nel mondo contemporaneo, e il senso di appartenenza etno-linguistico occitano (140); le danze fanno parte della cultura popolare e per questo devono essere oggetto di studio, come dichiarato dalla redazione: "Noi riteniamo che vi sia un legame che unisce le nostre danze all'insieme della nostra cultura, in modo tale che le danze non possano essere separate dalla cultura, intesa in senso lato, di ogni paese" (141).

Come si è visto, la rivista - almeno nei primi numeri - intendeva estendere il proprio ambito di interesse anche all'Occitania d'oltralpe; non mancano infatti sulle pagine di "Novel Temp" gli studi di autori "de l'autre cant" come Peire Pessamessa, Felip Martel e Jacme Taupiac. D'altronde, la scelta di adottare, accanto alla grafia dell'Escolo dóu Po, la grafia promossa dall'I.E.O.era un chiaro segno di questa apertura; come spiega la redazione, "Novel Temp" si proponeva in quegli anni come il principale interlocutore italiano dell'Institut d'Estudis Occitans:

Coumboscuro scelse uno stretto legame con il Felibrige, facilitato dall'appartenenza a questa associazione di Buratti, l'associazione Soulestrelh si sentì maggiormente in sintonia con l'Institut d'Estudis Occitans di Tolosa, mentre la dirigenza del M.A.O. e delle sue associazioni culturali, Valados Usitanos e Ousitanio Vivo, fece propria l'ideologia strettamente nazionalista di François Fontan e del P.N.O. (142)

Tuttavia, proseguiva la redazione nella citazione sopra riportata, gli occitanisti d'oltralpe "oltre alle belle parole, poi, di aiuti concreti, sia sul piano culturale che su quello finanziario, non ne diedero quasi nessuno" (143).

Dopo il fervore degli anni Settanta e Ottanta, tra i movimenti occitanisti valligiani la speranza di instaurare uno stretto legame con l'Occitania di Francia andò man mano affievolendosi: questo fu un fenomeno generalizzato che coinvolse non soltanto "Novel Temp" ma anche altre associazioni e movimenti soprattutto a partire dagli anni Novanta.

Sintomo di questo cambiamento per "Novel Temp" fu la scelta di passare dalla coesistenza delle grafie classica e concordata all'adozione esclusiva di quest'ultima; altrettanto significativa fu la scelta del 2001 di cambiare il nome della rivista in "Lou Temp Nouvel", titolo con il quale viene pubblicata ancora oggi. Il cambiamento e la genesi del nuovo nome sono spiegati da Gianpiero Boschero nell'editoriale del N.51:

Ma fu commesso un errore: l'inversione di posizione tra sostantivo e aggettivo. Bronzat, che la propose, la giustificò dicendo che la nuova formulazione (Novel Temp, anziché Temp Novel) evidenziava un approccio moderno e creativo alla nostra cultura. Scoprimmo poi che si trattava semplicemente di un'influenza della lingua inglese, certamente inconscia, che si ammantava di modernità (...). Il primo che ci fece rilevare l'errore fu il prof.Arturo Genre. Nella sua grammatica della Val Germanasca, inoltre, aveva scritto che gli aggettivi di regola seguono il nome cui si riferiscono tranne rare eccezioni. (...).

Non restava che prendere atto dell'errore e, conseguentemente, operare la correzione (...).

Un altro elemento da sottoporre a verifica era quello della grafia utilizzata per scrivere il nome della rivista. Sin dal primo numero le grafie utilizzate erano due, quella della Commissione dell'Escolo dòu Po (o grafia concordata) e quella dell'I.E.O. (Institut d'Estudis Occitans). Per quanto riguarda il nome della rivista prevalse la grafia dell'I.E.O., poiché dei tre redattori principali ben due (Franco Bronzat e Fredo Valla) erano suoi sostenitori, mentre lo scrivente, che è sempre stato convinto assertore della grafia concordata, era in minoranza.

Pareva, a sentire quei due redattori, oltre che numerosi amici occitani di Francia, che la grafia dell'I.E.O. sarebbe divenuta presto la grafia dell'"avvenire", la grafia dell'Occitania risorta, almeno dal punto di vista culturale. Purtroppo la risurrezione dell'Occitania francese era un'illusione, una speranza senza fondamento! (...)

Ora, dopo più di vent'anni, riteniamo doveroso scendere con i piedi per terra, per rafforzare l'uso della grafia più idonea a salvare la nostra lingua nella concreta situazione in cui vive nelle Valli Occitane d'Italia. Quindi, anche nel nome della rivista seguiremo la grafia concordata scrivendo temp nouvel, e non temp novel. (...)

La decisione di mutare il nome della rivista fu presa nell'assemblea tenutasi a Torre Pellice il 3 febbraio 1996. In quell'occasione Beppe Garnerone fece rilevare che la buona lingua occitana richiedeva l'uso dell'articolo, e così fu decisa l'aggiunta dell'articolo lou. (144).

Le pagine dedicate alla letteratura in lingua occitana includono autori del passato e contemporanei, racconti, articoli, poesie, traduzioni e saggi su vari argomenti (per approfondimenti, si veda: Che cos'è Novel Temp).



2.5.4-"Valados Usitanos".



Nel 1977 nacque"Valados Usitanos", rivista trimestrale del Centro Studi e Iniziative "Valados Usitanos", definita nell'editoriale del primo numero come "una nuova voce per l'occitanismo militante" e "una iniziativa «diversa»".

Il Centro nasceva "grazie al contributo determinante del M.A.O. e di alcuni suoi militanti", ma annoverava tra i suoi collaboratori anche "intellettuali, operai, studenti, uomini e donne di diversa età, alcuni militanti del MAO, altri che attualmente non vi si riconoscono o che probabilmente non vi si riconosceranno mai".

La rivista si proponeva come "iniziativa aperta, a più voci" - soprattutto di coloro che "vivono l'esperienza sovente amara dell'emigrazione" – e si caratterizzava per un approccio all'occitanismo "globale e non localistico (di valle, di paese)".

Nella presentazione, la redazione spiegava gli intenti e gli scopi della rivista:

La battaglia per l'autonomia politica-amministrativa, la rinascita economica delle valli, l'organizzazione delle condizioni per un possibile "ritorno" di una parte degli emigrati, la lotta alla speculazione ed al dissesto del notro territorio, il recupero del nostro patrimonio culturale e linguistico, l'applicazione dei nostri diritti sanciti dalla Costituzione dello Stato italiano, il chiarimento dei nostri rapporti con i partiti italiani, con i piemontesisti, con le altre minoranze: questi sono i nostri obiettivi generali, su cui si dovrebbe sviluppare "Valados Usitanos". (...) Una cosa sola non vorremmo fare: una rivista "culturale", almeno non in senso stretto. Preferiremmo fare (...) una rivista di lotta civile, democratica, pluralistica per una presa di coscienza e per la soluzione il più possibile dei nostri problemi (145).

La rivista, perlomeno al momento della sua fondazione e per i primi numeri, non voleva limitare la propria attività giornalistica all'ambito culturale, ma impegnarsi anche sul piano politico ed economico, perché, spiegava la redazione, "la realtà linguistica di un popolo non è separabile dalla sua realtà socio-economica e politica" (146).

Le associazioni culturali e le riviste che si proponeva di operare soltanto sul piano culturale furono duramente criticate da "Valados Usitanos", in primis il felibrismo (147) e a seguire "Novel Temp" (148).

La rivista si colloca dunque in quella linea dell'occitanismo politico sorto nelle valli agli inizi degli anni Settanta e che riconosce in François Fontan il padre e fondatore (149).

Espressioni ricorrenti – le stesse che ritroviamo in quegli anni sulle pagine di "Ousitanio Vivo" - sono infatti "colonizzazione politico-economica", "assimilazione linguistico-culturale" e "presa di coscienza nazionale occitana" (150). Conseguenze di questa colonizzazione delle valli occitane da parte dello Stato italiano e del decentramento politico-amministrativo nella pianura piemontese sono, secondo i collaboratori di "Valados Usitanos", il mancato sviluppo di un'economia locale, con il conseguente mancato sfruttamento delle risorse, l'emigrazione della forza-lavoro, lo spopolamento dei paesi montani, la speculazione edilizia e l'espansione di un turismo poco rispettoso dell'ambiente; sul piano culturale, strettamente collegato a quello socio-politico-economico, la penetrazione nelle valli della cultura piemontese e italiana, in particolare nei paesi delle basse valli, essendo l'economia di queste ultime strettamente dipendente da quella della pianura.

Per i fondatori della rivista "fare lavoro culturale è soprattutto azione" per risolvere i "problemi materiali, che sono certamente quelli di una rivitalizzazione della nostra cultura, della nostra lingua ecc." ma "sono soprattutto quelli della difesa materiale delle nostre comunità, del rinvigorimento della nostra economia, della ricostruzione faticosa ma necessaria di un tessuto sociale e culturale nelle valli" (151).

Emblematico è lo slogan sulla copertina del N.3-4: "Vulén ese libres din ün païs che vol viure".

Le rivendicazioni linguistiche e politiche si estendono anche alle altre minoranze linguistiche ed etniche (152); l'affermazione che compare sul N.1 è esplicita: "Molti occitanisti sono accusati di essere antieuropeisti. È vero! Siamo contro l'Europa degli Stati; vorremmo un mondo, non solo un'Europa, delle etnie" (153). Frequenti sono gli articoli che trattano di questi argomenti, tra i quali anche un intervento di François Fontan sulle Lotte di liberazione nazionale e rivoluzioni socialiste nel "Corno d'Africa" (154).

"Valados Usitanos" ospitò, accanto agli articoli più prettamente politici, molti studi sulla lingua e sulla cultura occitana; nell'editoriale del N.5 del 1980 la redazione spiegava:

la riappropriazione – attraverso la documentazione e la riproposta – di una cultura in cui mondo contadino e radici etniche sono strettamente legati è l'obiettivo dei prossimi anni. L'occitanismo dispone oggi di un centro culturale – quello che Valados Usitanos ha costituito a L'Armo /Macra in Val Maira – destinato a diventare un riferimento insostituibile per studiosi e operatori culturali occitani e non. (...) Raccoglierà documenti, pubblicazioni, e le metterà a disposizione degli studiosi. Organizzerà convegni e seminari. Coordinerà i diversi settori della ricerca e ne garantirà la più ampia fruibilità. Perché è questo uno dei nostri più prcisi impegni: garantire il libero accesso a quelli che sono, nel campo della cultura occitana, gli strumenti della conoscenza.

Le ricerche pubblicate sulla rivista trattano di economia, demografia, storia, linguistica, toponomastica e sociolinguistica delle valli occitane.

Vi si trovano inoltre ricerche su fonti orali e d'archivio, documenti e materiale iconografico e pubblicazioni di lavori di ricerca.

Non mancano inoltre i testi in lingua occitana: testimonianze di vita (si veda ad esempio: Pietro Ponzo, Nosto vito ero tut akò,1981; Antonio Allais, Essere pastore a otto anni, 1981, etc.), proverbi e modi di dire (Proverbi e modi di dire di Sauze d'Oulx, 1981; Proverbi in Val Corsaglia, 1981 etc.); filastrocche (Trae troe,1985); i glossari (Glossario del dialetto bovesano, 1980; Antichi mestieri di montagna. La canapa, 1982. etc.); racconti popolari (Lu fuletun a La Chanal. Frammenti di un ciclo narrativo, 1980; Hänsel e Gretel a Pontebernardo, 1981, etc.); racconti (La coumunioun remanda, 1983; Lou dèbit vira al cougna, 1983; La lissìo d'outourn, 1984; La fete dou pai de Sezane, 1984; Lou termometrou desmentia, 1985; Quouro anavou en pasturo, 1985; Ero na recolto prousperouso, 1985; Me sieu buta soubre a Coustantin, 1985; Lou mal dal martel, 1986; Magia e superstizione a Elva, 1986; Lou predicatour fourestier, 1986; Lou micoun de Sant Esteve, 1996); poesie (Na prufesìa, 1983); preghiere (Estu séra me kuyju, Sant Antoni, etc.); leggende (L'or de Brindouira,1982).

"Valados Usitanos" concesse spazio anche alla questione della grafia; il dibattito su come trascrivere i dialetti dell'occitano cisalpino era iniziato, come abbiamo visto, sul N.44 di "Coumboscuro" e continuato sulle pagine de "Lou Soulestrelh". Proseguì sul N.8 del 1981 di "Valados Usitanos": all' intervista di François Fontan (F.Fontan. Conversazione registrata del 1967) seguiva un intervento di Jean Louis Veyrac (Proposte operative per una lingua unificata delle valli Occitane), entrambi concordi sull'adozione di una grafia fonetica o fonematica; interveniva poi l'I.E.O. con Gli argomenti dell'I.E.O., a favore delle grafia cosiddetta "normalizzata"; ed infine l'articolo redazionale E la grafia che oggi proponiamo chiudeva la discussione proponendo l'adozione di una grafia fonematica e rimandando al futuro la scelta di una grafia per l'occitano unificato; sul N.10 fu poi pubblicato un articolo (Considerazioni e riflessioni sul problema della grafia) in risposta all'editoriale polemico del N.16 di "Novel Temp".

D'altronde, la realizzazione dell'"unificazione dei dialetti... mediante l'uso di una grafia fonetica" costituiva uno degli obiettivi statuari dell'associazione (art.2, statuto del 28/9/78): la grafia che la rivista iniziò ad usare accolse dunque la proposta di Fontan (da alcuni è infatti chiamata "fontaniana") - e fu successivamente adottata anche dal M.A.O. - il cui art.11 dello statuto del 1980 riprendeva l'art.2 dello statuto di Valados Usitanos -, sulle pagine di "Ousitanio Vivo" a partire dal maggio 1981.

Il problema della grafia fu uno dei motivi che portarono alla rottura prima fra Lou Soulestrelh e Valados Usitanos, poi fra il M.A.O.e Lou Soulestrelh (155).

I rapporti tra M.A.O.e Valados Usitanos iniziarono inoltre a deteriorarsi nel 1981 ("una ventata di crisi ha attraversato le valli in questi ultimi anni" (156)), anche se già quattro anni prima Valados Usitanos aveva rivendicato la propria autonomia accusando il movimento di voler ridurre la rivista al ruolo di "cinghia di trasmissione" del movimento autonomista (157).

Ed è ancora all'inizio degli anni Ottanta che finì la collaborazione tra Coumboscuro e M.A.O., per l'ultima volta insieme alle elezioni del 1979 nella lista "Union Valdotaine Federalismo Autonomie".

A distanza di dieci anni dalla nascita, nel 1987, l'impostazione di "Valados Usitanos" è decisamente cambiata e l'impegno politico occitanista ha ceduto man mano sempre più spazio agli studi sulla lingua e sulla cultura delle valli; in una sorta di bilancio degli ultimi dieci anni di vita della rivista, l'autore traccia parallelamente un'analisi complessiva degli sviluppi dell'occitanismo politico:

Nel dicembre del 1977, con pochi mezzi e tante idee, usciva il primo numero di Valados Usitanos. (...) Il primo editoriale si lanciava, come di prammatica, in alcune dichiarazioni di intenti e di programma che, riviste oggi, possono strappare un sorriso per l'ottimismo e l'ingenuità che ne traspare, soprattutto se commisurate alle difficoltà che l'occitanismo si sarebbe ben presto trovato ad affrontare. Non siamo poi riusciti, malgrado la buona volontà e il rigore del nostro impegno, ad essere "la voce di tutti gli occitani, specie di quelli che vivono l'esperienza sovente amara dell'emigrazione". Non ci siamo riusciti perché il compito era realmente superiore alle nostre capacità, ma non viviamo la cosa come un fallimento poichè la rivista – divenuta comunque espressione informale (e voce) d'una tendenza non trascurabile dell'area occitanista – si è conquistata un prestigio e un'aliquota di lettori fedeli (...). D'altronde, rispetto agli entusiasmi di allora, le successive vicende dell'occitanismo cisalpino ci avrebbero posti ben presto di fronte allo spaccato triste delle divisioni interne, delle gelosie rancorose, delle pressioni ricattatorie e altro, di tutte quelle cose che fanno parte del bagaglio dei colonizzati e che finiscono ben presto col vanificare (o ritardare) anche le intenzioni migliori. Abbiamo potuto valutare col tempo quanto fossimo stati buoni profeti allorchè, riconoscendo il ruolo non secondario avuto dal MAO (in termini di consenso, di appoggio e di spinta) al momento della fondazione della rivista, sottolineavamo insieme la distanza che avrebbe separato dal MAO alcuni dei redattori e collaboratori, distanza che sarebbe andata approfondendosi anche se eravamo lontani dal supporre che di lì a qualche anno altre separazioni gravi, altra distanza, si sarebbero aggiunte (158).

Nel 1989, la redazione rispondeva alle critiche del M.A.O. che, nella relazione introduttiva ai lavori del III congresso del movimento, aveva usato con accezione negativa il termine "culturalisti" applicandolo a quelle associazioni occitaniste che"si limitano allo studio ed alla ricerca". "Valados Usitanos" rispose:

Beh, credo che nella nostra situazione specifica l'etichetta "culturalismo" possa essere utilizzata per coprire un doppio impegno: un impegno di studio al servizio della cultura occitana e insieme la rivendicazione, per quella cultura, di un ruolo che non sia in alcun modo subalterno. I "culturalisti", dunque, pur lavorando in campi diversi, con varie metodologie, sovente in aperto disaccordo tra di loro, sono accomunati dalla convinzione dell'urgenza e dell'importanza prioritaria di un lavoro di recupero e di salvataggio di quanto resta del nostro patrimonio culturale. (159)

La scelta di "Valados Usitanos" di operare soltanto più nel campo culturale sarà fatta anche da altri militanti. Il movimento politico occitanista scomparve negli anni Novanta; nel 1992 l'editoriale di "Valados Usitanos", intitolato C'è ancora una presenza poltica occitanista?, dichiarava la fine della politica occitanista e del M.A.O.:

Crediamo di no, anzi, ne siamo certi. Ciò che esisteva agli inizi degli anni ottanta – già nel dopo Fontan – è andato lentamente squagliandosi lungo una china discendente solo apparentemente senza fine. A questo si è arrivati, è ormai evidente a tutti. Non si parla più, non più, del Mov.Pol. "Coumboscuro", da tempo privo di spinta politica (posto che esista ancora) benchè ancor capace di influenzare certe frange del mondo cattolico. Al termine di quella china, ora, si parla della fine del M.A.O.: è arrivata, non manca che la sanzione ufficiale. (...) Finito il M.A.O., si è spenta ogni parvenza di occitanismo politico. (...)

Tutto ciò ci viene impietosamente rammentato, in altra parte della rivista, da Antonio Rovera: anche noi di "Valados Usitanos", malgrado l'impegno profuso, cosa rappresentiamo infatti sul versante politico? Nulla, o molto poco. E dobbiamo convenire con Antonio rispetto al fatto di non essere riusciti – se non con sempre più rari accenni o platoniche testimonianze – a mantenere l'impegno programmatico, anche "politico", che compariva nel primo editoriale della rivista (dic.'77). Anche noi siamo lentamente scivolati lungo la china della rinuncia all'impegno politico. (...) Di fronte alla non-crescita della coscienza nazionale, cui non siamo evidentemente stati capaci di contribuire, abbiamo finito anche noi per desistere dal "politico" dedicandoci sempre più (magari anche bene) al terreno culturale. Un ripiegamento, insomma, anche se non una resa completa. (160)

Dino Matteodo, segretario del Movimento Autonomista per molti anni e attualmente membro della redazione di "Ousitanio Vivo" , conferma in un'intervista che il M.A.O.è effettivamente finito all'inizio degli anni Novanta, anche se non c'è stata un'assemblea di dissoluzione del movimento (161).

Dario Anghilante, altro membro storico del movimento e del giornale, spiega in un'intervista:

Nella prima parte degli anni Ottanta, il Movimento serbava ancora la speranza di costruire qualcosa, ma in seguito ci siamo resi conto che era un cammino difficile. Non c'erano possibilità... la gente delle valli non aveva ancora una coscienza di appartenenza. Il cammino era lungo e non si poteva ancora avere un risultato politico. Abbiamo capito che il risultato politico, che significava una Regione Autonoma, non era possibile ottenerlo in quel momento e quindi abbiamo continuato a lavorare per far crescere questa coscienza. Abbiamo potenziato l'attività del giornale, delle pubblicazioni, di tutto ciò, ma il movimento politico ha perso la sua funzione verso la fine degli anni Ottanta (162).



2.6-Dagli anni Ottanta ad oggi.



Il movimento politico occitanista è dunque scomparso nelle nostre valli all'incirca nei primi anni Novanta. A partire da questa data si è inoltre ridotta la produzione letteraria in lingua che negli anni precedenti aveva ancora mostrato una notevole vitalità.

Tra gli anni Settanta e Ottanta, infatti, erano state pubblicate numerose opere scritte dagli autori che avevano partecipato alla prima rinascita della lingua nel decennio precedente, come ad esempio, per citarne soltanto alcuni: Col Beliero di Sergio Arneodo (1970); I canti della mia terra di Piero Raina (1970); Pancouta e Brousée di Remigio Bermond (1971); il già citato Soulestrelh Oucitan di Antonio Bodrero (1971); I figli dei briganti di Piero Raina e Pietro Antonio Bruna-Rosso (1972); Laz istorja de barbu Giuanin di Andrea Vignetta (1972); Lë sabée dë notri reiri di Remigio Bermond (1977); La bouno nouvello sëgount Marc tradotta da Arturo Genre (1978); Lou coeur de ma gent di Ugo Piton (1980); il Piccolo dizionario del dialetto occitano di Elva di Pietro Antonio Bruna-Rosso (1980); Mendia e Lë loubia di Remigio Bermond (1983); Ciaminà e Pensà di Masino Anghilante (1985); La joi de viure de ma gent di Ugo Piton (1985); A l'umbra du Cluchi di Clelia Baccon (1987); da non dimenticare Steve di Giovanni Bernard, il primo romanzo in occitano cisalpino.

Negli anni Ottanta furono inoltre organizzati i concorsi "Idea d'Oc" (1987) - le cui poesie furono raccolte in Poesia occitana - e "Uno terro, uno lengo, un pople" (1988) - le cui poesie furono raccolte in Prouvenço Parlo - per stimolare la scrittura in lingua occitana.

Tuttavia, come osserva Franco Bronzat , nonostante l'approvazione della legge 482 il numero degli scrittori in lingua occitana si è drasticamente ridotto; deceduti i principali protagonisti della poesia degli anni 1960-1980, poche opere vedranno la luce dopo il 1990 (163).

Se si esclude Marco Mastrocola, che ha pubblicato Viól d'emousioun nel 2006, e Claudio Salvagno, distintosi al concorso "Idea d'oc" del 1988, pochi nuovi autori si sono aggiunti negli ultimi anni al novero di quelli già segnalati; ritroviamo infatti, ad esempio, Clelia Baccon con El Tintinponi (1992), Ugo Piton con L'evangile segount Doun Batistin curà d'lâ Grangètta (1994) e Setà decaire a la flammo dei fouìe (2001), Sergio Arneodo con Danço di sesoun (1996) e Rousari de passioun (2000); Beppe Rosso con I mìou journ/ij mè di/I miei giorni (1998) e con La storia dou magou Sabinou (2007), entrambi pubblicati postumi; Franco Bronzat con Lo darrier jarraç (2002), il secondo romanzo dopo Steve scritto in occitano cisalpino; Masino Anghilante con Chantominà (2004) e Lucia Abello con De pours e de bufes (2010).

Continuano ad essere pubblicate regolarmente le principali riviste nate tra gli anni Sessanta e Settanta – "Coumboscuro", "La Valaddo", "Lou temp nouvel", "Ousitanio Vivo", "Valados Usitanos" –, anche se i testi scritti in lingua occitana sono rari.

L'unica rivista totalmente bilingue è "Nòvas d'Occitània", il giornale mensile diffuso via web dalla Chambra d'Oc.

Ancora all'inizio degli anni Ottanta risalgono i primi segni di interesse per la tutela della lingua occitana da parte di due comunità del Piemonte sudoccidentale, dove si parlano due varietà dialettali vicine alla lingua d'oc: il "brigasco" e "la parlata del kyé".

Anche se l'appartenenza del "brigasco" e del "kyé" ai dialetti occitanici è fortemente contesa - tra chi ne difende la parentela e chi invece li ascrive ai vicini dialetti ligure-roiasco o ormeasco -, si è sviluppato in parte della popolazione locale un senso di appartenenza all'identità occitanica.

Per lo studio e la tutela della lingua brigasca (che si parla a Realdo, a Verdeggia – entrambe frazioni di Triora, in provincia di Imperia-, nel comune di Briga Alta e nella frazione Viozene del comune di Ormea - in provincia di Cuneo- ) nasce a Briga Alta (CN) l'associazione "A Vastera. Uniun de tradisiun brigasche", la quale sarà affiancata nel 1983 da una rivista semestrale di studi demo-etno-antropologici e linguistici, sempre sull'area brigasca, che si pubblica a Genova ed è intitola "R nì d'áigüra. Scartari brigašch". L'Associazione "A Vastera. Uniun de tradisiun brigasche" inizierà a pubblicare, a partire dal 1989, la rivista "A Vaštéra. Šcartari de gènte brigašche".




Per quanto riguarda la "parlata del kyé", la varietà dialettale di alcune borgate e frazioni delle valli Ellero e Corsaglia (nei comuni di Frabosa Sopreana, Frabosa Sottana, Roccaforte Mondovì e Villanova Mondovì), alla fine del 1981 viene fondata a Fontane di Frabosa Soprana (CN) l'Associazione cultulturale E Kyè che, attraverso diverse attività tra cui l'editoria (si veda ad esempio Puescie di noscc pizz! e La parlata del kyé) si propone di valorizzare la parlata locale.

Se l'autonomia nelle valli occitane non è arrivata, tuttavia un grande cambiamento è avvenuto: con la legge 482 del 1999 l'occitano è stato ufficialmente riconosciuto come minoranza linguistica storica e in quanto tale soggetto a tutela da parte dello Stato, in applicazione dell'art.6 della Costituzione della Repubblica Italiana ("La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche").

Alcuni hanno denunciato la tardività della legge (164), commentando che lo Stato italiano ha applicato l'articolo 6 della Costituzione quando ormai le valli sono spopolate e la lingua è regredita a tal punto da essere inclusa dall'Unesco tra le lingue a rischio di estinzione; altri, tra i quali alcuni linguisti come Fiorenzo Toso e Tullio Telmon (165), ne hanno criticato la formulazione e l'applicazione, soprattutto in certe aree di "confine" (si veda ad esempio i casi del Brigasco e del Kyé in: Che cos'è il brigasco e Che cos'è la parlata del kyé); altri ancora, come le associazioni Coumboscuro e La Valaddo, criticano l'adozione del glottonimo "occitano", al posto di "provenzale" che non viene nominato nel novero delle lingue minoritarie soggette a tutela (166).

Tuttavia molti si sono schierati in difesa della 482, mettendo in luce le possibilità che offre l'applicazione della legge. Insieme alla legge regionale n.26/1990 (Tutela, valorizzazione e promozione della conoscenza dell'originale patrimonio linguistico del Piemonte), essa incentiva la realizzazione di numerosi progetti per la difesa e la promozione dell'occitano e delle valli, permettendo per la prima volta di lavorare sul territorio.

La Chambra d'Oc nasce nel contesto di questi anni, come spiega Ines Cavalcanti, dapprima come associazione di produttori di prodotti tipici locali, in seguito sempre più coinvolta nel campo culturale:

Era passata la legge 482, non era più il monento di rivendicare, ma quello di realizzare, di lavorare. Abbiamo rinnovato lo statuto e abbiamo detto chiaramente che la Chambra d'Oc prendeva atto della legge 482 del 1999, che la rinascita della lingua occitana era una priorità per la Chambra d'Oc, ed abbiamo iniziato a lavorare in un modo completamente diverso. Noi lavoriamo per progetti e per gruppi di lavoro (167).

Nel 1997, tra le critiche delle altre associazioni (168) e all'interno del progetto Interreg II Italia-Francia, nasceva il progetto Espaci Occitan, comprendente altri sotto progetti, tra i quali l'istituzione di una Commissione Internazionale per la Normalizzazione Linguistica dell'Occitano Alpino da utilizzarsi nei contesti istituzionali.

La Commissione, nominata nel 1999 e guidata dal linguista catalano Xavier Lamuela, diede alla luce la "grafia normalizzata" le cui regole sono state pubblicate nella sezione introduttiva del dizionario Nòrmas Ortogràficas, Chausias Morfològicas e vocabolari de l'Occitan Alpin Oriental.

Questa grafia è un adattamento della grafia dell'I.E.O., già promossa da Franco Bronzat e da altri a partire dai primi anni Settanta, alle varietà dell'occitano cisalpino.

La grafia, che non ha mancato di suscitare polemiche tra le associazioni che sostengono la grafia dell'Escolo dóu Po (per approfondimenti si veda: Le grafie), è oggi utilizzata da Espaci Occitan, dalla Chambra d'Oc, da "Ousitanio Vivo" e da altri autori.

A partire dagli anni Novanta è stata potenziata l'attività svolta dalle associazioni per l'insegnamento della lingua, sia nelle scuole elementari sia nei corsi per gli adulti. Alcuni esempi di lavori svolti insieme ai bambini per stimolare la loro curiosità nei confronti della lingua e della cultura tradizionale sono: Parisia coumanda lou carnaval (1988), Juraie e batiae (1992), La lengo de ma maire (1997). LINK.

Un notevole impulso ha avuto negli ultimi anni la produzione musicale, che ha avuto il merito di diffondere tra i giovani l'interesse per la lingua e la cultura occitana e per gli strumenti tradizionali.

Accanto ai musicisti occitani formatisi negli anni Sessanta e Settanta, tra i quali Masino Anghilante (si veda il libro Chantominà) e il figlio Dario, "il primo cantautore delle valli occitane" (169), e grazie agli studi condotti in quegli stessi anni da numerosi studiosi delle diverse associazioni presenti sul territorio - tra i quali ad esempio quelli di Gianpiero Boschero (nella sezione musica e danze) e di "Novel Temp" – per il recupero della musica e delle danze tradizionali di ogni valle, si sono affiancati a partire dai primi anni Ottanta nuovi gruppi musicali che riprendono le musiche tradizionali occitane reinterpretandole con commistioni musicali che attingono al rock e ad altri generi contemporanei. Il primo gruppo è stato i Lou Dalfin, nato nel 1981, che ha avuto anche un ruolo importante nell'istituzionalizzazione della cultura musicale delle valli grazie al lavoro di Sergio Berardo, leader del gruppo, che dagli anni Ottanta ha iniziato ad insegnare a suonare gli strumenti musicali occitani nelle scuole.

A partire dagli anni Novanta sono nati numerosi altri gruppi musicali, come ad esempio i Lou Seriol, i Gai Saber, i Ramà, Lhi jarris, etc. e di recente istituzione è il Dipartimento di Musica Occitana nato nel 2011 come specializzazione della Scuola di Alto Perfezionamento Musicale di Saluzzo.

Negli anni Novanta, inoltre, alle attività culturali presenti sin dagli anni Settanta si sono aggiunte le attività economiche legate alla crescente valorizzazione della questione occitana e ciò ha creato nuovi posti di lavoro nelle valli (170); lo sviluppo dell'economia locale, tema centrale delle rivendicazioni dei movimenti occitanisti degli anni Settanta, è infatti fondamentale per la salvaguardia della lingua, perché, come spiega Claudio Luciano dell'associazione La Cevitu, "se i giovani di qui che parlano a nòsta mòda restano qui, è normale che la lingua rimanga viva" (171).

La promozione del settore economico è stata portata avanti da associazioni, istituzioni pubbliche e di privati che promuovono numerose attività per salvaguardare l'esistenza della cultura occitana nelle valli e creare nuove opportunità lavorative permettendo ai giovani di "vivere e lavorare al paese".

Importante in questo settore è stata l'istituzione del Gruppo di Azione Locale (GAL), che finanzia con contributi della Comunità Europea numerosi progetti nei settori del turismo, dell'agricoltura e della cultura.



NOTE:



(1)Si riscontrano nei testi trovadorici alcune variazioni; come ha notato Sergio Salvi "in uno stesso manoscritto si trovano, accostati, termini dialettali contrastanti: il meridionale cantar diventa, appena due righe sotto, chantar, che è una variante settentrionale; un fait di origine chiaramente occidentale si tramuta, dopo poco, in un fach tipicamente centro-orientale. Difficile dire se ciò derivi soltanto dalla mano dei copisti distratti, che sovrapponevano ogni tanto la loro abitudine linguistica a quella dell'autore di cui copiavano il manoscritto, oppure dall'esistenza di un vasto ventaglio di varianti lessicali a disposizione degli autori. Più probabile sembra la seonda ipotesi", S.Salvi, Occitania, Luigi Colli editore e Ousitanio Vivo, Torino, 1998, p.26. Trudel Meisenburg sostiene invece che furono gli scrivani appartenenti ai maggiori monasteri che nel ricopiare le poesie svilupparono delle soluzioni originali per la trascrizione dell'occitano, risentendo dell'influenza delle diverse tradizioni regionali, in T.Meisenburg, "Quel sont les facteurs linguistique et sociaux qui determinent les systemes d'ecriture? Une analyse des graphies de l'occitan en comparaison avec d'autres langues ayant reçu une nouvelle graphie depuis le 19ème siecle (catalan et roumain)", in AA.VV., Contacts de langues de civilization et intertexualite. IIIème Congres international de l'Association Internationale d'Étude Occitanes Montpellier, 20-26 septembre 1990, vol.I, Association Internationale d'Étude Occitanes Montpellier, Montpellier, 1992, p.310.

(2)Georg Kremnitz, Versuche zur Kodifizierung des Okzitanischen seit dem 19. Jahrundert und ihre Annahme durch die Sprecher, Tübingen: Gunter Narr Verlag, 1974, p.91-92, cit.in Luisa Pla-Lang, Occitano in Piemonte: riscoperta di un'identità culturale e linguistica?, Peter Lang ed., Francoforte, 2008, p.49.

(3)Giovanni Freddi, L'Italia plurilingue, Minerva Italica, Bergamo, 1983. Si veda inoltre Sergio Salvi, op.cit., p.26-27; Salvi spiega, inoltre: "Il limosino è comunque il dialetto privilegiato della koiné trovadorica. Ciò si spiega con la nascita di questa letteratura alla corte di Poitiers, a nord del territorio limosino col quale confina. Gli influssi settentrionali permarranno anche quando la società letteraria si accentrerà attorno alla corte di Tolosa".

(4)Philippe Blanchet, Le provençal: Essai de description sociolinguistique et différentielle, Peeters, 1992, p.70.

(5)Si può leggere il rapporto integralmente su: http://www.tlfq.ulaval.ca/axl/francophonie/gregoire-rapport.htm

(6)http://fr.wikipedia.org/wiki/Occitan#Pendant_la_R.C3.A9volution

(7)Ivi, p.70-71. Come scritto nel Décret du 2 Thermidor Ann II (20 juillet 1974), tutti gli atti pubblici a partire dall'emanazione della legge dovranno essere redatti solo ed esclusivamente in francese.

(8)"Pour noter les sons propres à l'occitan ils développent des solutions diverses, allant du rapprochement le plus étroit aux modèles français jusqu'à un exotisme frappant, accompagné souvent d'une surcharge d'accents", T.Meisenburg, op.cit., p.310.

(9)"Racconta F.Mistral nelle sue Memorie che tale denominazione fu derivata da un vecchio canto poplare nel quale la Vergine narrava di aver ritrovato Gesù fanciullo intento a disputare emé li sèt felibre de la Lèi, ossia (secondo un'erronea lettura di tale verso) «con i sette dottori della legge». Si chiamarono quindi felibri i sette fondatori", F.Garavini, Occitania, lingua e letteratura, in Enciclopedia Europea Garzanti, VIII, p.206. Sergio Salvi spiega: "nel manoscritto di un vecchio cantico tradotto in occitanico, pareva infatti che fossero designati con questo nome i dottori coi quali disputò Gesù fanciullo. Nel cantico si diceva in realtà «Sepher, libre de la lèi». Sepher, in ebraico, significa «libro»; questa parola era dunque seguita dalla sua traduzione in occitanico. I felibri lessero invece «Li sèt felibre de la lèi» (i sette felibri della legge)", S.Salvi, op.cit., p.56.

(10)http://www.sceaux.fr/fileadmin/Arbo/culture/Livret_Felibrige_2009.pdf

(11)L.Alibert, Grammatica Occitana, Societat d'Estudis Occitans, Tolosa, 1935, p.XXXIX.

(12)S.Salvi, op.cit., p.36.

(14)D.Canciani e S.De La Pierre, op.cit., p.89-90.

(15)"Colpire un popolo nella sua lingua o nella sua cultura significa ferirlo in quanto ha di più profondo. Noi proclamiamo il diritto alla differenza. È indegno della Francia che essa getti via le sue ricchezze, che essa sia l'ultimo paese d'Europa a rifiutare alle proprie componenti i diritti culturali fondamentali riconosciuti dalle convenzioni internazionali che essa stessa ha firmato", «Amiras/Repèrs», 4, 1983, p.51, cit.in Canciani e De la Pierre, op.cit., p.107.

Il governo Mitterand suscitò notevoli speranze negli occitanisti, in primo luogo con la legge Deferre sulla décentralisation, che concedeva ampi poteri alle regioni, in secondo luogo quando affidò all'intellettuale occitano Henri Giordan il compito di elaborare un progetto per mettere in pratica il "diritto alla differenza" culturale, linguistica e regionale, che tuttavia non ebbe conseguenze sul piano pratico.

(16)F.Fontan, Nationalisme-revolutionnaire, religion marxist t voie scientifique du progres, PNO, supplément spécial au n.5 de "Lu Lugarn", Limoges, 1970, p.7. La teoria dell'etnismo è spiegata da Fontan nel libro Ethnisme. Vers un nationalisme humaniste (1961).

(17)P.N.O., Occitanie libre, Qu'est ce que le P.N.O., 1973.

(18)"Anche se dopo il 1968 questo gruppo – che resterà esiguo – farà propri elementi ideologici «terzomondisti» e «guevaristi» (e parlerà anche di liberazione sessule), le correnti dell'occitanismo che preferiranno dialogare con la sinistra «francese» non potranno perdonargli la sua «alleanza» col gollismo (che esso giudicava di un «nazionalismo» più autentico di quello della sinistra: antiamericano, antieuropeo, favorevole all'indipendenza algerina); non potranno perdonargli gli obiettivi «irrealistici» della sua lotta, e soprattutto di avere alla sua testa un uomo, Fontan, che in passato aveva militato nell'Action française, e poi era passato per l'anarchia, per la Quarta internazionale, anche per l'I.E.O. prima di andare in «esilio», dal 1964 fino alla sua morte – in seguito a una condanna penale che il PNO ha sempre detto pretestuosa – a Frassino", Canciani e De La Pierre, op.cit., p.93.

(19)Sono parole di Joan Bodon, famoso poeta occitano che scrisse in quell'occasione la canzone Los carbonièrs de La Sala: "Los carbonièrs de La Sala / Occitans sens o saber / Cantan l’internacionala / La cançon del desespèr. / Del punh sarrat que se lèva / Saludem l’acordeon /

Qual compren la nòstra grèva? / Jaurés es al Panteon / Luchas grandas d’un còp èra / La polícia dins Aubin / Per saquejar la misèria / Quand trigossèrem Watrin… / La plegarem pas l’esquina / Ajudatz-nos païsans / Volèm gardar nòstra mina / Lo pan de nòstres enfants. / Cantem l’Internacionala / La cançon de nòstre espèr / Los carbonièrs de La Sala / Nos an mostrat lo dever". Emergono chiaramente dalla canzone di Bodon gli elementi politicizzati che influenzano questa corrente dell'occitanismo.

(20)Cfr.Salvi, op.cit., p.108.

(21)Cfr.Canciani e De La Pierre, op.cit., p.94.

(22)Salvi, op.cit., p.120. "Noi vogliamo che ci venga riconosciuto il diritto all'indipendenza, ma l'indipendenza non significa in sé anche decolonizzazione. Se si trattasse di essere indipendenti come la Costa d'Avorio, ebbene, di questa indipendenza noi non sapremmo che cosa farcene"; "Il nostro terreno è quello della lotta di classe condotta dai lavoratori occitanici contro il doppio sfruttamento capitalista e nazionale. Noi lottiamo per una organizzazione di classe autonoma, cioè occitanica, nella quale l'insieme delle classi popolaqri occitaniche possa riconoscersi. Per una organizzazione capace di condurre in Occitania la lotta per il diritto degli occitani di vivere nel loro paese, del loro lavoro e nel rispetto della loro identità culturale. Per la decolonizzazione contro il saccheggio delle risorse materiali e umane, contro la deportazione dei giovani. Questa lotta è la risposta occitanica allo sfruttamento capitalistico e coloniale. Essa si concluderà soltanto con la distruzione dello Stato capitalista francese e attraverso l'abolizione del sistema capitalistico", ibid.

(23)Canciani e e La Pierre, op.cit., p.104.

(24)Cfr.Sergio Degioanni, Nascita ed affermazione di un movimento autonomista nelle vallate di lingua occitanica del Piemonte: motivazioni storiche, sociali e culturali, Tesi di laurea, A.A.1986-1987, p.35-36. La definizione di "repubblichetta" è di L.Cibrario, Della economia politica del Medioevo, Torino, Tip.Eredi Botta, 1861, Tomo I, p.73.

(25)F.Bronzat e S.Ottonelli, La Repubblico de louz Escartons, "La Valaddo", N.11, 1971, p.1-2.

Ogni Escarton raccoglieva al suo interno più comunità: Briançon, da Argentère alla Regione di San Gervasio; Oulx, da Cesana al torrente Gelassa comprendente le valli di Bardonecchia e Sauze di Cesana; Queyras, da Guillestre al colle delle Traversette; Val Chisone, dal Sestriere ai bordi di Perosa Argentina; Casteldelfino, dal colle dell'Agnello a Sampeyre.

(26)"Ogni comune aveva una sua propria amministrazione; questa eleggeva dei deputati che la rappresentavano in seno al piccolo escarton, il quale si riuniva nel capoluogo.
Ogni anno i piccoli escartons designavano dei deputati che si riunivano due volte all'anno, o di più se necessario, in assemblea di "grande escarton". Ogni comune delegava un numero variabile di deputati secondo l'importanza degli affari trattati e secondo l'interesse del comune stesso all'argomento. (...)

Il ruolo di questa federazione di comuni era triplice. Essa aveva dapprima un ruolo che si potrebbe definire politico e che consisteva nella difesa delle libertà ottenute dal popolo ogni volta che il potere centrale cercava di restringerle o limitarle. E i suoi interventi in questo settore furono frequentissimi. Era la federazione che reclamava, presso ogni nuovo Delfino, le lettere di ratifica della Carta del 1343. Essa inviava rappresentanti alle assemblee generali della provincia, o anche presso il Re, quando era necessario o vi erano richieste da formulare. Essa decideva in merito ai doni da farsi a certe personalità (Arcivescovo di Embrun, Intendente del Re, Governato del Delfinato, ecc.) e ripartiva le spese occorrenti tra le comunità. Essa doveva vegliare sulla sicurezza del Paese, con la leva dei militi e delle guardie di frontiera, e fare scortare il Delfino su sua richiesta.
Il secondo ruolo, economico, degli
escartons, era il più importante. Essi ripartivano, nel corso di una riunione che si teneva ai primi di gennaio, le contribuzioni generali tra i diversi comuni. Ma essi curavano anche che questi tributi non divenissero troppo pesanti (...).
Questa unione per la difesa delle libertà e degli interessi economici aveva necessariamente per corollario lo spirito di solidarietà. E questo, della cooperazione, è il terzo aspetto degli
escartons: il briançonnese sopportava in comune ciò che capitava all'una o all'altra delle comunità", ibid.

(27)Cfr. http://www.escartons.eu/media/media_users/Documenti/Storia_Histoire.pdf

(28)Daniele Tron, Cenni sulla storia della val Pellice, in "La Beidana", N.51, 2004, p.23-24.

L'uso abituale del francese nelle valli valdesi risale ad un'epoca antica, la cui datazione è ancora incerta. Daniele Tron, nel medesimo articolo, spiega: "si è affermata nel passato, ed è stata accettata anche da alcuni storici valdesi, l'opinione che l'uso abituale della lingua francese nelle Valli – uso che era generale fino a metà Novecento – non risalga oltre il 1630. In quel periodo, essendo morti a causa della peste 12 dei 14 ministri di culto valdesi, essi furono sostituiti da pastori venuti dalla Francia e dalla Svizzera che avrebbero in tal modo importato la propria lingua. Una semplice riflessione già evidenzia quanto sia incongrua l'idea che otto persone – tale infatti era in numero dei pastori venuti dall'estero – sia pure dotate del prestigio derivante dalla qualità di conduttori spirituali, potessero far cambiare lingua ad una popolazione di circa 12.000 anime: sarebbe stato molto più semplice che gli otto pastori imparassero l'idioma del posto. Ma oltre a questa considerazione esistono numerose testimonianze sufficienti a relegare tale diffusa opinione nel novero delle leggende. Ci limiteremo a citare la più probante: i valdesi, riuniti a Chanforan (1532), nella storica assemblea in cui venne decisa l'adesione alla Riforma – e le cui deliberazioni, si noti, sono state redatte in italiano – stanziarono la somma di 500 scudi d'oro (divenuti poi 800) perché si stampasse una traduzione in francese della Sacra Scrittura, traduzione che fu compiuta da Olivetano e che vide la luce nel 1535 (...). è difficile pensare che una popolazione, modesta in numero e in possibilità economiche, sacrificasse una somma così forte allo scopo di farsi tradurre la Bibbia in una lingua praticamente sconosciuta".

(29)Tatiana Pivaro, Cattolici e Valdesi in Val Germanasca: opinioni linguistiche a confronto, Tesi di Laurea in Etnolinguistica, A.A.2003/2004, p.14-15.

(30)Naoko Sano, Un lingua in cammino, ed.Chambra d'Oc, Saluzzo, 2008, p.48.

(31)Ibid.

(32)Ivi, p.52.

(33)Enrico Lantelme, I Canti tradizionali delle valli pinerolesi in "La Beidana", N.51, 2004, p.60.

(34)"Il 15 dicembre 1999, è stata approvata la legge 482 Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche (...). In base all'art.3 della medesima legge, che sancisce il principio dell'autodeterminazione delle popolazioni e dei loro rappresentanti, in val Pellice, i comuni di Angrogna, Bobbio Pellice, Luserna San Giovanni, Rorà, Torre Pellice e Villar Pellice, hanno dichiarato la presenza di popolazioni parlanti il francese e l'occitano, Lusernetta di parlanti l'occitano. In seguito alla pubblicazione del Regolamento attuativo della suddetta legge, la Comunità Montana ha presentato una richiesta di contributi per la realizzazione di un progetto articolato in tre punti volto a mettere in atto una serie di iniziative di promozione e di tutela delle lingue diffuse localmente ai sensi della legge. Tra le iniziative sinora promosse dalla Comunità Montana, ricordiamo le più importanti: il servizio di sportello linguistico, la festa delle lingue minoritarie a Villar Pellice e un corso di formazione organizzato in due cicli, il primo sulla lingua e sulla cultura occitana e il secondo sulla didattica in relazione alla diffusione della lingua occitana", Piervaldo Rostan, Assessore incaricato alle Minoranze linguistiche Comunità Montana Val Pellice, "La Beidana", N.51, 2004, p.2.

(35)Gaetano di Sales (1898-1989), fu scrittore, giornalista, poeta e membro della Pontificia Accademia. Jean Jalla (1868-1935), nato a Villa Secca in Val Germanasca, fece i suoi primi studi a Torre Pellice; si laureò in Lettere all'Università di Torino, studiò teologia a Firenze e fu consacrato pastore; fu professore di lettere presso il Liceo di Torre Pellice e lavorò assiduamente sulla storia e la cultura delle valli valdesi. Teofilo Pons (1895-1991), originario di Massello in Val Germanasca, scrisse numerosi studi di lessicografia e toponomastica, oltre che dei saggi in occitano su alcuni importanti personaggi valdesi pubblicati su "Novel Temp" (si veda ad esempio la biografia di Josuè Janavel: http://www.chambradoc.it/novelTemp/josuejanavel.page); nel 1973 pubblicò il Dizionario della parlata valdese della Val Germanasca, ripubblicato nel 1997 in collaborazione con Arturo Genre.

(36)Cfr.Franco Bronzat, 50 anni di letteratura e non nella valli occitane, ed.Chambra d'Oc, Saluzzo, 2011, p.53-54.

(37)O.Coisson, La carta, o Manifesto, di Chivasso, "Lou Soulestrelh", N.2, 1971. Per il commento di Malan sulla Carta di Chivasso si veda Quarant'anni dopo, "Novel Temp", n.23, 1983, p.10-11.

Il Manifesto è stato pubblicato integralmente, oltre che sul numero de "Lou Soulestrelh" sopra citato, anche su "La Beidana", n.9, 1989, p.60-62.

(38)Come testimoniato sul n.29 de "La Beidana", il mondo valdese si avvicinerà all'occitanismo soltanto verso la fine degli anni Novanta del secolo scorso. In un'inchiesta nella quale la redazione della rivista chiedeva a diversi esponenti dell'occitanismo e del provenzalismo se le valli valdesi potessero essere considerate occitane, la redazione di "Valados Usitanos" rispose con tono ironico e pungente accusando la classe dirigente valdese di non aver mai voluto prendere parte all'occitanismo: "Mai, in vent'anni e più di percorsi di ricerca, che hanno spesso toccato anche località delle valli valdesi, c'era successo di avvertire aperture verso Occitania e occitanismo da parte di un frammento "ufficiale" della comunità valdese; mai, a dispetto di non pochi tentativi di coinvolgimento, di "stanare" quella che – poco a poco – abbiamo cominciato a pensare e definire come "aristocrazia valdese", eravamo andati oltre a risposte, spesso sussiegose, del tipo "...la Cultura Valdese ha respiro europeo, internazionale; il ghetto occitano non ci interessa...", "La Beidana", N.29, 1997, p.32-33.

(39)Corrado Grassi, Correnti e contrasti di lingua e cultura nelle Valli cisalpine di parlata provenzale e franco-provenzale, Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Torino, Torino, 1958, p.16.

(40)Ezio Martin, "La Valaddo", N.1, 1968, p.11.

(41)Cfr.le interviste fatte da Naoko Sano, op.cit., p.58-63.

(42)Corrado Grassi, op.cit., p.33.

(43)Cfr."La Valaddo", N.32, 1981, p.3-4.

(44)Gustavo Buratti in Naoko Sano, op.cit., p.64.

(45)Sergio Arneodo racconta, ricordando quel giorno lontano in cui vide arrivare Buratti: "Nel '59-'60, arriva qui un signore che veniva da lontano, da Biella, a nord di Torino. Era un signore grosso su una lambretta e mi ha detto: «Vengo qui per dirvi che qui, in montagna, nelle valli di Cuneo, si parla il provenzale, ho notato che la vostra lingua è simile a quella che si parla ad Avignone e ad Aix-en-Provence». Mi ha parlato di Mistral, mi ha parlato di Mireio, delle opere di Roumanille, della Provenza, abbiamo iniziato da lì", ivi, p.66.

(46)"Mi sono detto: bisogna fondare una scuola, una scuola felibrenca per proteggere ed espandere la lingua, l'amore per la lingua. E per incominciare, mi sono detto: bisogna fare il concorso di poesia riservato a coloro che scrivono in lingua d'oc, nel provenzale delle montagne del Piemonte. Abbiamo fatto qiel concorso per cercare di radunare della gente", ivi, p.66.

(47)Sergio Arneodo in Luisa Pla-Lang, op.cit., p.74.

(48)"La Valaddo", N.32, 1981, p.3-4.

(49)Remigio Bermond (1928-1987) di Pragelato, è stato autore di numerosi testi in poesia e prosa; ha pubblicato Pancouta e Broussée (1971), Lë sabée dë notri reiri (1977), Mendia (1983), Lë loubia (1983) e, postumo, Pouizìa (1992); fu uno dei principali collaboratori della rivista "La Valaddo", di cui fu anche direttore dal 1973 sino alla sua morte.

(50)Pietro Antonio Bruna-Rosso (1896-1990), originario di Elva in Val Maira, ha scritto racconti e poesie (leggibili su "Coumboscuro" e su "Novel Temp") ed ha pubblicato nel 1980 il Piccolo dizionario del dialetto occitano di Elva; ha inoltre pubblicato insieme al compaesano Piero Raina il libro I Figli dei briganti.

(51)Giovanni Raina, nato nel 1917 ad Elva, ha pubblicato un libro di memorie intitolato Vito gramo; Giacomo Dalmasso (1892-1963) di Limone Piemonte, poeta quasi sconosciuto, ha pubblicato su "Coumboscuro" la Zansoun dli Zouvvi 'd Limoun; Gabriele Giavelli, originario di Ferriere in alta Valle Stura e scomparso nel 1966, ha pubblicato alcune poesie su "Coumboscuro"; Domenico Raso (1921), originario di Ostana, fu parroco della parrocchia di Santa Margherita di Paesana.

(52)Antonio Bodrero (1921-1999), originario di Frassino in Val Varaita, conosciuto anche come Barba Tòni Baudrier, fu uno dei più importanti autori in lingua occitana. Pubblicò numerose raccolte di poesie, tra cui Fraisse e Mèel (1965) e Soulestrelh Oucitan (1971). Fu occitanista fino al 1980, anno in cui ruppe i suoi rapporti con l'occitanismo militante passando al piemontesismo. Per un'edizione critica completa delle poesie e della vita di Antonio Bodrero si veda Diego Anghilante (a cura di), Antonio Bodrero. Opera poetica occitana, Bompiani, Milano, 2011.

(53)Sergio Ottonelli (1941-2011) di Chianale in Val Varaita, poeta ed etnografo. Alcune delle sue poesie sono state pubblicate su "Coumboscuro".

(54)Naoko Sano, op.cit., p.62.

(55)Dopo Pacotto i presidenti furono due docenti dell'Università di Torino: Corrado Grassi, fino al 1968, e poi Giuliano Gasca Queirazza, che fu anche Vice Presidente della Ca dë Studi Piemontèis .

(56)F.Bronzat, 30 ans d'occitanisme III; Gianpiero Boschero, L'Escolo dòu Po è morta.

(57)Per approfondimenti sullo statuto, sulla vita associativa dell'Escolo e sui Rescountre si veda:

Franco Bronzat, 30 ans d'occitanisme II  e 30 ans d'occitanisme III.

(58)Franco Bronzat e Fredo Valla, entrambi protagonisti della nascita dell'occitanismo nei primi anni Settanta ed ancora oggi impegnati nella tutela della lingua, testimoniano che i Rescountre furono fodamentali per la loro presa di coscienza etno-linguistica: "Allora, nel 1968, c'è stato un Rescountre a Fenestrelle, in val Chisone. Io sono andato, è stata la prima volta che ho udito qualcuno di un'altra valle parlare quasi nella mia stessa lingua. Ho capito che non c'era solo la mia valle che parlava questo patois, ma c'erano altre persone che parlavano questa lingua", Franco Bronzat in Naoko Sano, op.cit., p.70. "Della questione occitana ho sentito parlare nei primi anni Sessanta, quando si è iniziato a parlarne nelle valli. Ci sono stati i Rescountre Piemount-Prouvenço, tutte queste manifestazioni. Ci sono stato la prima volta quando si è fatto a Sampeyre, quando si era parlato anche di Magdalena Jovenal. La mia famiglia andava, allora andavo anch'io e frequentavamo queste cose (...). Naturalmente la mia famiglia era abbonata a "Coumboscuro", allora esisteva solo quello", Fredo Valla, ivi, p.71-72.

(59)Gianpiero Boschero, "Lou Temp Nouvel", N.54, 2001, p.1.

(60)La dedica è posta in alto in copertina: "Dedicato ai piccoli montanari di Valle Stura", "Coumboscuro", N.1, 1961, p.1; Nel N.2, 1962, p.1, la dedica è posta in basso in copertina.

(61)Sergio Arneodo ricorda in un'intervista: "Buratti ha detto: «Bon, c'è la rivista "Coumboscuro" che sostituisce tutto ciò che manca all'Escolo dòou Po». Quando siamo arrivati all'Escolo dòou Po abbiamo avuto la fortuna di avere già il nostro giornale, era uscito il secondo numero. Allora che fare? Eravamo sicuri, eravamo convinti che l'Escolo dòou Po avrebbe continuato il suo cammino. E già c'era stata qualche obiezione, qualcuno che non era tanto entusiasta perché non era della sua valle. (...) I comuni delle valli della provincia di Torino sovente non erano entusiasti; alcuni non erano molto convinti", in Naoko Sano, op.cit., p.73-74. Come vedremo, nel 1968 alcuni provenzalisti della provincia di Torino fonderanno "La Valaddo", una rivista per i patoisanti delle valli Chisone, Germanasca e alta Dora.

(62)"Coumboscuro", N.3, 1962, p.1. E sul medesimo numero, a p.2: "Da questo numero facciamo posto all'Escolo dòu Po, il giovane sodalizio sorto nell'agosto dello scorso anno ai piedi del Viso, nel convegno piemontese-provenzale di Crissoolo, per valorizzare e restituire alla loro vera luce, nel nome del grande Federico Mistral, le parlate di origine provenzale delle nostre valli. Nessun impegno di ufficialità, nessuna prestesa di sistematicità. Il nostro non è che un gesto spontaneo, inteso ad aiutare e stringere più saldmente quell'amicizia, sotto il segno di un bene ideale – la poesia dei patois e delle natie tradizioni – che sta molto a cuore a tutti noi. Pubblicheremo di volta in volta qualche saggio del ricco materiale disponibile, cedendo un po' di spazio agli amici della Escolo, secondo le nostre modeste possibilità".

(63)La carica di manteneire ricalca quella prevista dallo statuto del Felibrige voluto da Mistral (http://it.wikipedia.org/wiki/Felibrismo#Definizione_dei_paesi_di_lingua_provenzale), come anche il nome escolo riprende la suddivisione del territorio provenzale ideata dai felibristi. Sergio Salvi spiega: "I felibristi divisero l'Occitania in mantenenço (dall'omologo provenzale dell'italiano «mantenere») corrispondenti ai vari dialetti. Le mantenenço, vere e proprie regioni dialettali, si suddividevano poi in escolo (scuole) che ne erano le province", op.cit., p.32-33.

(64)Bernardino Matteodo, Breve storia dei movimenti occitanisti in Italia, "Valados Usitanos", N.1, 1977, p.6.

(65)Cfr., ad esempio, Per la glori dou terraire, "Coumboscuro", N.2, 1962, p.1: "parei nousauti de mountagno se sentén tuci unì, tuci fraire, e fourmén na grando famiho". Sul N.3, nel presentare l'Escolo dóu Po, Arneodo dice che essa è nata "nello spirito di un sincero e francescano amour du terroir", p.7.

(66)Cfr."Coumboscuro", N.2, 1962, p.3.

(67)"Coumboscuro", N.4, 1963, p.3.

(68)"Coumboscuro", N.3, 1962, p.3.

(69)"Coumboscuro", N.6, 1963, p.3.

(70)"Il reclutamento di tipo locale praticato nelle truppe alpine ha provocato larghi vuoti tra i giovani di queste valli, appartenenti per lo più alla Divisione alpina «Cuneense» che subì peredite elevatissime durante la Campagna di Russia. Gravi furono anche le conseguenze della guerra partigiana durante la quale molti centri, anche importanti, furono distrutti o devastati, con perdite umane assai elevate sicché vi sono oggi delle località, in queste valli, che presentano una visione desolante per la quasi totale dispersione della popolazione locale (...). A parte i centri frequentati da masse sempre più numerose ed entusiaste di turisti, di villeggianti, di alpinisti e di sciatori, i paesi e le frazioni lontane dalle linee di comunicazione appaiono desolatamente privi di giovani e di bambini e gli uomini validi, alla tradizionale emigrazione temporanea in Francia, hanno aggiunto oggi quella definitiva Oltralpe o nelle città industriali della pianura piemontese", C.Grassi, op.cit., p.15-16. Grassi sottolinea inoltre che la decadenza culturale e linguistica della montagna è strettamente collegata alla sua crisi economica, seguita allo sviluppo agricolo-industriale dei centri subalpini, ivi, p.26.

A proposito dell'avanzata del piemontese, Grassi spiega che esso è "la lingua delle relazioni commerciali (...). In piemontese parlano di solito il medico, il veterinario, il farmacista e il parroco"; egli distingueva due momenti fondamentali: "Il primo momento deve coincidere con i rapporti più antichi tra montagna e pianura: quello dovuto allo svernamento delle greggi e dei pastori valligiani nelle fattorie della pianura, quello del commercio di tipo più modesto nei paesi posti allo sbocco delle valli e, più tardi, quelli creati con l'emigrazione temporanea dei montanari nei centr agricoli della regione subalpina come lavoratori stagionali. Il secondo momento deve essere invece più recente nella quasi sua totalità ed è stabilito dai rapporti dovuti all'amministrazione, sia civile che ecclesiastica (...) e da quelli stretti durante il servizio militare o comunque dovuti a presidi militari piemontesi nelle località di confine di particolare importanza strategica, dell'assorbimento di mano d'opera montanara nei centri industriali prossimi allo sbocco delle valli e, da ultimo, del sempre più fitto contatto delle popolazioni valligiane con villeggianti ed alpinisti piemontesi", ivi, p.17.

(71)"Coumboscuro", N.4, 1963, p.3.

(72)"Coumboscuro", N.2, 1962, p.3.

(73)"La Valaddo", N.2, 1969, p.2.

(74)"La Valaddo", N.1, 1968, p.15.

(75)Si veda ad esempio gli articoli di F.Bronzat, fondatore, insieme a Guido Ressent, della rivista: "Combatteremo e denunceremo tutto ciò che causerà rovina alla nostra valle: le speculazioni edilizie, lo sfruttamento irrazionale e disordinato ed è più che necessario, quindi difendere il capitale natura". "La Valaddo", N.2, 1969, p.2; "tutti contestano, e nel più logico dei diritti; quindi perché non si dovrebbe protestare anche noi! (...) Bisogna levare in alto la nostra voce, urlare più forte che si può", Salviamo la natura, "La Valaddo", N.2, 1969, p.8-9. Le tematiche dell'occitanismo militante – la salvaguardia della natura, lo spopolamento crescente delle valli, l'emigrazione obbligata dei montanari verso la pianura e le grandi città in cerca di lavoro, il problema del turismo irrispettoso dell'ambiente - ricorrono sulle pagine dell rivista: si veda ad esempio: F.Bronzat, Montagna: ieri e oggi, "La Valaddo", N.3, 1969, p.4-5; Bruno Peyronel, Rispettare la flora alpina, ivi, p.2-3; Indagine sul piano di sviluppo delle valli, "La Valaddo", N.5, 1973, p.1-2; Mauro Perrot, Uno sguardo al passato e Verso la fine?, "La Valaddo", N.17, 1977, p.2 e p.7.

(76)"La Valaddo", N.7, 1973, p.2.

(77)"La Valaddo", N.23, 1979, p.1.

(78)Nel 1972 l'editoriale annunciava di voler promuovere gli studi sulla cultura e la lingua locale, ribadendo la propria identità di rivista apolitica: "Il periodico, apartitico e aconfessionale, si presenta al lettore come una rivista di cultura valligiana, ma al tempo stesso vuole essere un giornale aperto ai problemi di attualità vitale per le nostre vallate. Si propone quindi di tutelare e di valorizzare il patrimonio storico e artistico, geografico e naturale delle nostre Valli e di favorire ogni indagine avente per oggetto i caratteri distintivi della regione nel linguaggio e nelle tradizioni popolari; ma anche di promuovere studi, iniziative e ricerche culturali, economiche e socio-ambientali utili ad un'approfondita conoscenza delle comunità alpine. (...)", "La Valaddo", N.1, 1972, p.1. E nel 1980 riafferma la propria apoliticità: "Gli scopi dell'Associazione sono, dunque, eminentemente culturali, e ciò la differenzia sostanzialmente dalle altre associazioni o movimenti similari che, pur affermando di operare in chiave linguistica e culturale, sembrano anteporre ai problemi della lingua e della cultura provenzale i problemi politici e socio-economici delle popolazioni valligiane, operando anche in senso politico vero e proprio. Ciò non significa tuttavia che "La Valaddo" non possa farsi carico dei problemi e delle ansie di riscatto socio-economico delle popolazioni valligiane. Di tali problemi e di tali ansie essa può farsi portavoce e paladina senza che ciò la porti ad operare al di fuori del proprio statuto il quale, all'art.1, chiaramente stabilisce che "l'Associazione non ha carattere politico (in senso partitico) né confessionale"", (6)Scopi e finalità de La Valaddo, "La Valaddo", N.29, 1980, p.1.

(79)"La nostra associzione è apolitica e aconfessionale", Alex Berton in Luisa Pla-Lang, Luisa Pla-Lang, op.cit., p.151.

(79)Alex Berton in Luisa Pla Lang, op.cit., p. : "La nostra rivista è apolitica e aconfessionale"

(80)"Sul termine non ci siamo mai fossilizzati. Non condividiamo in pieno il comportamento di Coumboscuro, in quanto guerra contro i mulini a vento. D'altra parte però il termine occitano è improprio e per questo noi usiamo la definizione di occitano-provenzale alpino. L'ideale sarebbe stato lingua d'oc, perché avrebbe compreso tutte le lingue appartenenti a questo ceppo linguistico"Alex Berton nell'intervista si Luisa Pla-Lang, op.cit., p.150. "Noi accettiamo di buon grado la terminologia proposta da Telmon e quin di patouà, dialetto, lingua minoritaria, etc., per noi hanno tutti uno stesso identico valore, purché si intenda con tali termini la lingua del posto", ivi, p.152.

(81)Berton specifica che "noi degli Escartons abbiamo una particolare storia briansonese, Coumboscuro ha un legame con la bassa Provenza"; e poi: "Noi siamo sì un'associazione apolitica però è chiaro che difendiamo il nostro individualismo e il federalismo mistraliano", ivi, p.150-151.

(82)Nell'editoriale del N.30 del 1980 Ezio Martin spiega che "un errore del movimento è quello di essersi avviato senza una preparazione di coscienza a livello nazionale, che, invece, è necessaria prima di parlare di politica", p.1; la redazione, in seguito alle critiche di alcuni lettori a questo articolo, specifica: "Il risveglio etnico e culturale risulta, per noi de La Valaddo, essere fattore indispensabile a supporto di tutte le iniziative capaci di provocare la crescita della nostra gente e delle nostre valli, comprese quelle tendenti a favorirne lo sviluppo socio-economico (...). La posizione de La Valaddo è di cristallina limpidezza: provocare il risveglio etnico e culturale dei valligiani perché ogni iniziativa di promozione socio-economica poggi su delle reali e ferme convinzioni e non sia invece frutto di scelte altrui, o, peggio, di neo colonialismi soffocanti gli ultimi aneliti delle popolazioni autoctone", Ancora sull'autonomia delle valli provenzali, "La Valaddo", N.31, 1981, p.2. E nel 2003 Alex Berton racconta: "Il rapporto con il M.A.O. lo abbiamo rotto nel modo più totale. Innanzitutto perché il M.A.O. si scontra con le nostre realtà storiche. (...) Fontan è un personaggio negativo e senza alcun legame con il territorio propugnatore di ideologie nazionalistiche strampalate", Luisa Pla-Lang, op.cit., p.151.

(83)Ezio Martin, nell'introduzione a L'angle da patois, "La Valaddo", N.2, 1969, p.10.

(84)Sebbene lo statuto del M.A.O. che ne stabiliva la nascita ufficiale fu approvato nel 1971, nel 1968 apparve il primo volantino firmato dal movimento.

(85)Canciani e De La Pierre, op.cit., p.53.

(86)A.Genre, Ancora sulla grafia. Risposta a F.Bronzat e C.Rabo.

(87)Cfr."Coumboscuro", N.35, 1971, p.8.

(88)Fiorenzo Toso, Dalla glottonimia alla glottopolitica: la scelta tra "occitano" e "provenzale" dalle motivazioni storico-culturali alle polemiche ideologiche, in M.Arcangeli, C.Marcato, Lingue e culture fra identità e potere, Bonacci ed., Roma, 2009, p.319-320.

(89)Incontro Piemonte-Provenza svoltosi a Roreto Chisone il 26 e 27 agosto 1972, "La Valaddo", N.3, 1972, p.11.

(90)"Questa ambiguità (nel voler sostenere, accanto alla cultura occitana delle valli, anche quella piemontese) che aveva i suoi momenti di massima celebrazione negli annuali Rescountre Piemount-Prouvenço, portò alla morte l'associazione col nascere dei primi fermenti politici nel campo occitanista. Sono infatti le contestazioni ai Rescountre a metterla in crisi all'inizio degli anni Settanta, e, dopo un tentativo di revisione dello statuto, andato a vuoto, essa cessò di fatto ogni attivtà, anche se formalmente non fu mai disciolta", Dino Matteodo, Breve storia dei movimenti occitanisti in Italia, "Valados Usitanos", N.1, 1977, p.5.

(91)Fredo Valla in Naoko Sano, op.cit., p.72.

(92)F.Bronzat, 50 anni di letteratura e non nelle valli occitane, op.cit., p.86.

(93)Fredo Valla in N.Sano, op.cit., p.80. Anche Franco Bronzat partecipò al Festival di Avignone: "Eran dequò los primieris pas que fasia l'occitanisme dins las Valadas; los contactes abo lo monde de l'autre caire de las desboinàa eran totjorn qualquaren d'extraurdinari com pròpi dins 'quel an lo viatge fait en Avinhon per lo Festivald'Oc avia portat d'occitanistas com Fredo Valla, JanPeire de Bosquier e mi a conoisser la richèssa de la cultura occi tana e los espacis adont cesta era encara viva mesme se un pauc arcatàa", F.Bronzat, 30 ann occitanisme III ).

(94)F.Bronzat, op.cit., p.92.

(95)Dino Matteodo, Breve storia dei movimenti occitanisti in Italia, op.cit., p.8.

(96)Cfr.Fiorenzo Toso in Pla-Lang, op.cit., p.132-133.

(97)S.Salvi, Le lingue tagliate. Storia delle minoranze linguistiche in Italia, Milano, Rizzoli, 1975, p.173.

(98)Programma del Movimento Autonomista Occitano, 1968.

(99)"Il movimento approva e sostiene tutte le lotte di liberazone nazionale del mondo, si dichara in primo luogo solidale con le lotte democratcamente condotte dalle altre sei nazionalità mnoritarie incluse nello Stato italiano: francese, tedesca, retoromanza, slovena, sarda e maltese e si pronuncia per una collaborazione pacifica tra tutte le nazioni sulla base dell'assoluto rispetto dell'indipendenza di cascuna di esse", Programma del Movimento Autonomista Occitano, 1971.

(100)Dino Matteodo, op.cit., p.11.

(101)Dino Garnero, Che cos'è il C.A.O.A., "Lou Soulestrelh", N.1, 1973, p.4.

(102)Chi siamo e che cosa vogliamo, "Lou Soulestrelh", N.1, 1971, p.1.

(103)Lafont era a favore di un intervento a livello politico e sociale - una "rivoluzione regionalista" - all'interno della lotta per il socialismo in direzione di un'ampia regionalizzazione dello stato su base etnica. Essa è vista come l'unica soluzione in gradi di porre termine al sottosviluppo economico, al "colonialismo interno" cui sono soggette le province occitaniche, ed alla "doppia alienazione etnica e culturale da un lato ed economica e regionale dall'altro" che caratterizzava la loro popolazione. Le idee del C.O.E.A., che si basavano sulle teorie di Lafont, si scontravano con quelle nazionalistiche del P.N.O.: essi erano infatti a favore di una lotta regionalista da attuare contro il centralismo francese in un più ampio contesto di impegno federalista europeo, per una "Europa dei popoli" e delle regioni. Cfr.Degioanni, op.cit., p.186-187.

(104)D.Anghilante, L'Occitania vive ancora, "Lou Soulestrelh", N.1, 1971, p.2.

(105)Franco Bronzat, Discorso sulla situazione delle valli occitane, in "Lou Soulestrelh", N.1, settembre 1971, p.5.

(106)Ibid. Si veda anche l'articolo di Gustavo Malan L'occupazione e le Valli: i pendolari, in "Lou Soulestrelh", N.2, 1972, p.1.

(107)Si vedano ad esempio l'articolo di Tavio Cosio, I fan de n'ort un chanabìe (= Fanno di un giardino un immondezzaio), in "Lou Soulestrelh", N.1, settembre 1971, p.6 e l'articolo in occitano L'ei pa ei tourismo que deven far la guero, in "Lou Soulestrelh", N.1, 1972, p.6.

(108)M.A.O., Proposte del M.A.O. agli elettori Occitani, in "Lou Soulestrelh", N.2, 1972, p.4.

(109)Malan e Boschero, Autonomisti, Socialisti e M.A.O., in "Lou Soulestrelh", N.2, 1972, p.4.

(110)A.Bodrero, Lettera del segretario generale del M.A.O. al giornale; G.Malan e G.Boschero, Osservazioni di altri autonomisti, in "Lou Soulestrelh", N.3, 1972, p.3.

(111)U.D.A.V.O., Dichiarazione Programmatica, in "Lou Soulestrelh", N.2, 1976, p.2. Si proponevano inoltre alcune soluzioni economiche nei campi dell'artigianato, dell'industria, dell'agricoltura, del turismo e dei servizi.

Nello statuto dell'associazione del 1974, si legge: "è scopo dell'associazione promuovere l'autonomia delle valli occitane della Regione Piemonte"; nel programma del medesimo anno sono spiegati gli scopi dell'associazione: "promuovere l'autonomia politica e amministrativa delle valli (...) caratterizzate dall'uso della lingua occitana, mediante l'istituzione di distretti alpini" (art.1), "potenziare la cultura originale delle nostre valli" (art.2), "affrontare organicamente i problemi economici e sociali" (art.3) e "agire in un contesto internazionale, particolarmente europeo" (art.4).

(112)Gianpiero Boschero commenta così, nel 2000, la delusione delle speranza di quegli anni: "Purtroppo la risurrezione dell'Occitania francese era un'illusione, una speranza senza fondamento", Gianpiero Boschero, Il nome della rivista, "Lou temp nouvel", N.51, 2000, p.4-5. Per approfondimenti si veda Che cos'è Novel Temp.

(113)L'associazione Lou Soulestrelh aderirà ufficialmente all'I.E.O.nel 1979 (Deliberazione n.9 del 27/1/1979).

(114)Antonio Bodrero, Soulestrelh òucitan, 1971, p.1. Per un'edizione critica completa delle poesie di Antonio Bodrero si veda Diego Anghilante (a cura di), Antonio Bodrero. Opera poetica occitana, Bompiani, Milano, 2011.

(115)Dino Matteodo, op.cit., p.10.

(116)Esce Ousitanio Vivo, "Ousitanio Vivo", aprile 1974, N.1, p.1.

(117)Si vedano ad esempio: La montagna occitana: ai problemi occitani, soluzioni occitane (N.1, p.2); Libertà per i popoli oppressi (N.2, p.3); Le lotte di liberazione nazionale nel mondo (N.4, p.1); Spopolamento. Ricerche sulla situazione demografica nella valli occitane (N.3, p.3); Lega italiana per l'articolo 6 per i diritti delle minoranze linguistiche (N.10, p.1);Occitanismo come azione politica (N.15, p.1); Fremes Usitanes: La vito es decò nosto, lücen per nosto liberasiùn (N.18, p.1); Essere donne nelle valli occitane (N.29, p.1); La scuola nella valli occitane (N.,28, p.1); Riflessioni per la decolonizzazione occitana(N.34, p.1); Paesana lancia il «suo» turismo (N.39, p.2); Irlanda del Nord: una lotta di liberazione nazionale (N.44, p.1); Le autonomie basca e catalana (N.45, p.1).

(118)"Ousitanio Vivo" dedicò a questo problema una rubrica intitolata Le lotte di liberazione nazionale nel mondo; si vedano inoltre gli articoli citati nella nota precedente.

(119)Che cos'è l'occitania, "Ousitanio Vivo", aprile 1974, N.1, p.1 e 5.

(120)Gianpiero Boschero, Il nome della rivista, "Lou temp nouvel", N.51, 2000, p.2-3.

(121)"Per quanto ci è stato possibile, dal 1975 ci siamo occupati di cultura e di politica in sedi distinte e su giornali diversi. Ne è prova il fatto che creammo la rivista culturale Novel Temp quando ancora pubblicavamo il giornale politico e socio-economico Lou Soulestrelh. Dopo la cessazione di questo giornale, quelli che tra noi hanno continuato ad occuparsi di politica attiva, lo hanno fatto in collaborazione con il Movimento Autonomista Occitano, con altri raggruppamenti politici o autonomamente", N.17, 1981, p.1.

(122)"Novel Temp", N.1, 1975, p.1.

(123)Cfr."Novel Temp", N.1, 1975, p.2.

(124)"Aquest travài d'estudi e de reprouposto dla culturo poupoularo es fach en diresioun prougresisto e pa per retournar arìe ai temp passà, a la mizerio de n'iage, a l'oubedienso senso descousioun an aquihi que coumandàven, ai prepoutense di omme sus i freme e di grant sus i minà. A la fin finalo, i Ousitanisto vòlen chavar deforo da la tradisioun tout acò que sierv per fa vive miéih i omme d'encùi e de deman", Gianpiero Boschero, I perqué dla reprouposto dla muzico poupoularo, "Novel Temp", N.13, 1980, p.23.

(125)"Novel Temp", N.51, 2000, p.3. La seconda parte della citazione è tratta dall'art.3 dello statuto dell'associazione.

(126)"Novel Temp", N.6, p.5.

(127)Lettera aperta a Novel Temp, "Valados Usitanos", N.3-4, p.17.

(128)"Novel Temp", N.8, 1978, p.5.

(129)Nell'editoriale del N.16 di "Novel Temp" la redazione critica duramente la nuova grafia adotatta da "Valados Usitanos" a partire dal N.8 del 1981; sul N.17 riprende l'argomento e la accusa di voler copiare l'impostazione "culturalista" di "Novel Temp". Infine, sul numero successivo, chiude la discussione sulla grafia: "Pensiamo che sia nostro dovere dedicarci ad attività più utili, evitando di perdere altro tempo a correre dietro a Valados Usitanos per smentirne le affermazioni non vere. Per questi motivi ci sembra inutile esaminare e replicare alla altre precisazioni ed affermazioni (...).

Oggi Valados Usitanos lavora per la morte della nostra lingua, creando divisioni tra gli occitanisti e suscitando sfiducia tra gli abitanti delle Vallate sulla possibilità di ripresa della nostra cultura. Ogni discorso sulla grafia con Valados Usitanos è pertanto chiuso", N.18, 1982, p.4.

(130)Nel N.17 la redazione di "Novel Temp", dopo le discussioni sulla grafia con "Valados Usitanos", chiede al M.A.O. di differenziarsi da "Valados Usitanos", dal momento che "fino a poche settimane or sono, Valados Usitanos e M.A.O. hanno coinciso nelle persone, almeno ai livelli dirigenziali, e nelle scelte importanti (ad esempio la grafia)", p.4. Si schiera quindi, nonostante alcune richieste, a favore del M.A.O.: "Noi riteniamo che per la soluzione dei gravi problemi delle nostre Valli sia necessaria la presenza di un movimento politico occitanista ed autonomista (...). In questo momento, riteniamo che tale ruolo possa essere svolto dal M.A.O.", ivi, p.6. Tuttavia, nel N.22 del 1984, i rapporti arrivano ad un punto di non ritorno, ancora una volta a causa delle grafia: "Nel volantino di presentazione della proposta di legge (...), pubblicato nel luglio 1982, il M.A.O. usò la grafia delle y e delle k di Valados Usitanos, nonostante la nostra fermissima e preventiva opposizione. (...) In seguito il M.A.O., segnatamente la sua dirigenza, accentuò il processo involutivo verso l'identificazione con l'associazione Valados Usitanos, tanto che attualmente i due gruppi ci appaiono come le due facce della stessa medaglia. (...) Il nostro giudizio sul M.A.O.è quindi notevolmente mutato rispetto alla primavera del 1982: non riteniamo più che il M.A.O.sia in grado di svolgere il ruolo del movimento politico occitanista ed autonomista che è necessario per la soluzione dei gravi problemi delle nostre valli; in altre parole, se gli ideali politici occitanisti ed autonomisti saranno portati avanti dal solo M.A.O., saranno destinati all'insuccesso", p.3.

(131)"Lou Temp Nouvel", N.53, p.4. Negativo è anche il guidizio su François Fontan, personaggio centrale per la nascita del M.A.O. e per le sue prime ideologie politiche.

(132)Franco Bronzat, 50 anni di letteratura e non nelle valli occitane, ed.Chambra d'Oc e Fusta Editore, Saluzzo, 2011, p.142.

(133)"Novel Temp", N.3, 1977, p.3.

(134)"Alcuni lettori hanno osservato che la nostra rivista è poco accessibile a chi non abbia una buona conoscenza dell'occitano. Per facilitare la comprensione dei testi abbiamo quindi indicato in nota la traduzione delle parole più difficilmente comprensibili", ibid.

(135)La redazione prosegue: "Piuttosto cercheremo di contenere gli esperimenti di normalizzazione per non disorientare e richiedere eccessivo sforzo ai lettori. Invece domandiamo e insistiamo affinché tutti coloro i quali usano la grafia dell'Escolo dòu Po lo facciano osservando tutte le regole, per l'unitarietà della produzione letteraria. Siamo convinti che non sia più il tempo dell'improvvisazione", "Novel Temp", N.6, 1978, p.5.

L'invito a scrivere scegliendo una delle due grafie sopra citate era già stato pubblicato nell'editoriale del primo numero.

(136)L'invito a collaborare è più volte ribadito dalla redazione, a partire dal primo numero: chiunque è invitato a scrivere, studiosi e dilettanti, nella speranza che la lingua sia usata dal maggior numero di persone possibile: "Totas las votz seriosas trobaren luèia sus la paginas dal Novel Temp, sensa anar tròp apres a las questions de grafia", N.1, 1975, p.2; "Agli studiosi, agli studenti, agli appassionati che svolgono ricerche sulle valli Occitane, chiediamo di metterci a conoscenza dei loro lavori", N.3, 1977, p.3.

(137)Si veda ad esempio: Il carnevale a Blins, N.5, 6, 7, 8; Alcuni aspetti magico-religiosi del Carnevale in Val Varaita, N.10; Lo Carnaval a Sant-Didèir-de-Velai e Feste tradizionali della Valle Maira, N.11; I documenti della Bahìo conservati nell'archivio comunale di Sampeyre (1698-1962), N.28-29; Le Mascarade di Lemma in Val Varaita, N.32; Il tentativo di soppressione della Baìo del Preit di Canosio, N.38; La Baìo di Sampeyre nelle descrizioni e nelle immagini dei primi anni del 900, N.55; Li Loup de La Chanal, un carnevale alpino e le altre feste dell'anno, N.56.

(138)"Novel Temp", N.34, 1988, p.2. Si veda anche Minoranze etniche nel dirittto interno e internazionale sul N.13; Minoranze etnico-linguistiche: gli italo-albanesi, sul N.19; L'esperienza autonomistica in Sardegna, N.23.

Nel N.53 l'editoriale segue il percorso della legge "Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche" (482/99) dal concepimento all'approvazione.

(139)Gli studi sulla musica e sulle danze popolari vengono pubblicati a partire dal primo numero e ancora oggi rappresentano uno dei settori di interesse della rivista. Si vedano ad esempio: Canzoni di Barbo Chezarin e Barbo Bernadin Levet della Valle Varaita sul N.1; nel secondo numero uno studio di Luigi Testa sulle canzoni popolari; Cenni sulle danze della media e alta valle Po sul N.8; Valour, estudi e reprouposto di danse poupoulare ousitane sul N.9; Strumenti antichi per danze popolari in Val Po sul N.11; Qualche osservazione sul "pinfër" di Martiniana sul N.12; I perqué dla reprouposto dla muzico poupoularo sul N.13; Strumenti musicali nella pittura del medioevo e Lî vioulouniste d'la Val Sen Martin sul N.16; Nuovi documenti musicali di Juzep da'Rous sul N.43; Alcune precisazioni sulla vita di Juzep da'Rous sul N.45; Semitoun de noste valade. Rassegna di suonatori di fisarmonica diatonica e semitonata delle Valli Occitane sul N.47; Sturmenti musicali popolari, uno studio ricco di fotografie, sul N.53; L'aze d'alegre sul N.55 e molti altri ancora.

(140) Gli obiettivi sono indicati nell'articolo I perqué dla reprouposto dla muzico poupoularo: "per far créise lou sabé de l'omme, perqué i danse an na valour culturalo ente lour, que val per nouzàouti, ma que val tanben per touto la culturo; per repourtar enté nosti pais la vito culturalo e sousialo qui s'ero perdùo; per far descuerbe a la gent de 'n serten endrech sio ousitanità", "Novel Temp", N.13, 1980, p.23.

(141)"Novel Temp", N.11, 1979, p.8.

(142)"Novel Temp", N.45, 1994, p.2-3.

(143)Ivi. In questo numero la redazione auspica nuove collaborazioni con gli occitani del versante francese.

(144)Il nome della rivista, op.cit., p.4-5.

(145)Redazione, Una nuova voce per l'occitanismo militante in "Valados Usitanos", N.1, 1977, p.3-4.

(146)Dino Matteodo, Lotta linguistico-culturale e lotta politica in "Valados Usitanos", N.2, 1978, p.6.

(147)"L'errore più grave che si può commettere è quello di separare la lotta linguistica e culturale da quella politica ed economica. È stata questa un'esperienza comune a molte nazionalità, e non è stata risparmiata, soprattutto in passato, nemmeno quella occitana. Il Felirismo, infatti, oltre ad imporre una connotazione prettamente regionalistica e «provenzale», ha fatto di questa separazione la sua linea ieologica: a che risultati abbia portato questa strategia, basta la quasi scomparsa del movimento felibrista a dimostrarlo. Anche i suoi «epigoni» italiani, come il movimento di "Coumboscuro", hanno dovuto invertire la marcia e, in qualche modo, entrare nel vivo dei problemi delle valli per poter continuare a sopravvivere.", ibid.

(148)"Noi ci occupiamo di cultura riconoscendo alla politica e alla sociologia tutta l'importanza necessaria. Siamo sicuri che il nostro lavoro si integra bene con quello di coloro i quali trattano gli altri problemi. Il loro lavoro senza il nostro, in ultima analisi, rimarrebbe privo di giustificazioni culturali, linguistiche e scientifiche", Drant prepaus in "Novel Temp", N.6, 1978, p.5.

Si veda anche Lettera aperta a "Novel Temp", in "Valados Usitanos", N.3-4, 1978, p.17-18. Gli stessi argomenti ricorrono nell'editoriale del medesimo numero: "Occuparsi di cultura oggi significa, ne siamo certi, non limitarsi soltanto alla ricerca di vecchie canzoni e danze, alle pubblicazioni di dotte biografie, di poesie e racconti a "nosto modo". Non basta cioè dedicarsi alla ricerca del "tempo passato", nemmeno se i prodotti di questa ricerca vengono poi riproposti dinamicamente in chaive di recupero e di presa di coscienza.

Fare lavoro culturale è soprattutto "azione" fra la nostra gente, dall'interno dei suoi problemi materiali, che sono certamente quelli di una rivitalizzazione della nostra cultura, della nostra lingua ecc., sono soprattutto quelli della difesa materiale delle nostre comunità, del rinvigorimento della nostra economia, della ricostruzione faticosa ma necessaria di un tessuto sociale e culturale nelle valli. Occorre quindi confrontarsi senza indugi con i problemi economici e sociali della nostra gente. Fare finta che questi problemi non esistano (e, peggio ancora, delegarli agli altri) significa ridursi a fare dell'occitanismo da salotto. Che fare, allora? (...)Essere fra la gente, come ora, per parlare, discutere, proporre, ma in modo meno episodico. Portare fra la nostra gente i canti e le danze, vecchie e nuove, ma accentuare il lavoro di sensibilizzazione etnica e sociale, la presa di coscienza della nostra condizione di colonizzati.

Tutto questo va fatto alla luce del sole, esplicitamente, dicendo con chiarezza chi siamo e cosa vogliamo: militanti occitanisti che si battono per la decolonizzazione della propria terra e per l'autonomia politica, economica e amministrativa della stessa, contro il colonialismo culturale, economico e politico che ci soffoca a poco a poco, che ci obbliga all'emigrazione, all'abbandono dei nostri paesi, per poterci più facilmente – domani - ridurre all'assimilazione totale" in "Valados Usitanos", N.3-4, 1978, p.4-5.

(149)François Fontan è tra i collaboratori della rivista nei N.1 e 3-4. Nell'epitaffio pubblicato sul N.5, Fontan è descritto come "fondatore del P.N.O. E del M.A.O., padre dell'occitanismo politico", "per tanti occitanisti il maestro che ha insegnato tutto o quasi sulla nostra terra, i nostri diritti, il nostro futuro", in "Valados Usitanos", N.5, 1980, copertina.

(150)Citando il libro di L.J.Calvet Linguistica e colonialismo, Dino Matteodo commenta: "non dobbiamo dimenticare che esse (le sue affermazioni) sono tanto più vere in un contesto europeo (e in particolare italiano) dove la colonizzazione ha perso quelle caratteristiche di repressione fisica , per utilizzare invece quegli strumenti di pressione ideologica come la scuola, i mass-media, etc., sostegni sempre più indispensabili alla colonizzazione economico-politica"; Matteodo prosegue più avanti: "Ed è così che, se per la prima volta ci avviamo verso un decentramento della programmazione e della gestione, per le nostre valli questo decentramento si arresta nella confinante pianura piemontese e pone le premesse politiche e istituzionali per quell'integrazione ed assimilazione linguistico/culturale che dovrà fare di noi occitani delle persone "finalmente civili e al passo coi tempi""; e infine, in chiusura: "Alla base di tutto deve esserci una forte presa di "coscienza nazionale occitana" ra la popolazione, presa di coscienza che si fondi sulla consapevolezza della molteplicità e dell'interdipendenza dei fattori di colonizzazione. Suscitare questa presa di coscienza è il compito principale degli occitanisti, dei loro movimenti politici, delle loro associazioni culturali, e di tutti quegli occitani che lavorano come pubblici operatori, nelle scuole come nelle amministrazioni", op.cit., p.6-10.

Nell'editoriale del N.3-4 ritornano le espressioni "decolonizzazione" e "colonialismo culturale".

(151)Redazione, editoriale di "Valados Usitanos", N.3-4, 1978, p.4.

(152)"Valados Usitanos" si definisce nel N.3-4 una "rivista aperta anche ai problemi delle nazionalità minoritarie, delle minoranze linguistiche disperse e dei loro problemi specifici", Gianpaolo Giordana, Le lingue «citate» in "Valados Usitanos", N.3-4, 1978, p.19.

(153)Redazione, Uno sguardo all'Europa, in "Valados Usitanos", N.1, copertina.

(154)L'intervento è stato pubblicato su "Valados Usitanos", N.3-4, 1978, p.6-13. Si vedano anche Le minoranze etnico-linguistiche dello Stato italiano, ispirato a Le lingue tagliate di Sergio Salvi, in "Valados Usitanos" N.1, 1977, p.15-38; Sardegna: una legge per la tutela della lingua sarda: luci e ombre, in "Valados Usitanos", N.2, 1978, p.46; sulla minoranza ialo-albanese Le lingue «citate» in "Valados Usitanos", N.3-4, 1978, p.19, etc.

(155)Per le discussioni tra le associazioni Lou Soulestrelh e Valados Usitanos si veda: "Novel Temp", N.16, 1981, p.11-7; N.17, N.1981, p.4-5; N.18, p1982, p.1-4; "Valados Usitanos", N.10, 1981, p.4-7; N.11, 1982, p.5-6).

Per le discussioni tra M.A.O.e "Novel Temp" si veda: "Novel Temp", N.22, 1984, p.2-3.

(156)"Valados Usitanos", N.17, 1983, p.3.

(157)"Valados Usitanos", N.8, 1980, p.3; si veda anche "Ousitanio Vivo", N.64 bis, 1981, p.4.

Già nel N.2 del 1978 si legge su "Valados Usitanos" di un ""timore, politicamente errato e che riscontriamo sopratt in una parte di militanti del MAO – di creare confusione fra due sigle (MAO e VALADOS USITANOS) : anche qui abbiamo detto più volte che non è così, che la paura della confusione nasconde altre paure, che queste paure suonano offesa al buon senso ed alla capacità della nostra gente di distinguere tra il lavoro politico puro e semplice e il lavoro socio-culturale".

In un'intervista, Gianpaolo Giordana, oggi figura-leader di "Valados Usitanos", spiega: "Per quanto concerne la domanda sui rapporti con il M.A.O., devo dire di averne fatto parte, per un non lungo periodo di anni. Poi le cose sono mutate, il discorso sulle autonomie si è via via ridotto, la dirigenza "storica" del movimento ne ha cambiato l'indirizzo. C'è stato un periodo, all'inizio degli anni Ottanta, abbastanza drammatico, quando la maggiornaza degli appartenenti alla nostra associazione dovette difenderne l'autonomia da una sorta di "golpe" ispirato dalla dirigenza del M.A.O. che avrebbe voluto assicurarsene il controllo. Il tentativo fallì e tante persone (interne, ma anche esterne alla nostra associazione) lasciarono il M.A.O.", in Luisa Pla-Lang, op.cit., p.170.

(158)I dieci anni della rivista, in "Valados Usitanos", N.28, 1987, p.2-3.

(159)Cultura, culturalismo, culturalisti..., in "Valados Usitanos", N.34, 1989, p.8-9.

(160)C'è ancora una presenza politica occitanista?, in "Valados Usitanos", N.43, 1992, p.2-3.

(161)Dino Matteodo in Naoko Sano, op.cit., p.90.

(162)Ivi, p.88.

(163)F.Bronzat, 50 anni di letteratura e non, op.cit., p.180.

(164)Si veda ad esempio "Valados Usitanos", N.64, 1999, p.1.

(165)Si veda ad esempio: Fiorenzo Toso, Patrimoni linguistici e lingue minoritarie: la prospettiva europea e quella italiana scarica il documento ; Tullio Telmon, La sociolinguistica e le leggi di tutela delle minoranze linguistiche in "Lingue e Idiomi d'Italia", 1, 2006, p.38-47; Tullio Telmon, L'impatto della legge di tutela delle minoranze linguistiche storiche sulle istituzioni e le negatività, in C.Consani e P.Desideri, Minoranze linguistiche. Prospettive, strumenti, territori, 2007, Roma, p.310-326.

(166)"Esiste un patois di Pragelato, un patois di Oulx, che sono dei patois provenzali alpini. Noi non abbiamo mai utilizzato il termine "occitano". Siamo obbligati a utilizzarlo dalla legge italiana. Abbiamo inserito "della parlata occitano-provenzale alpina"", Alex Berton redattore de "La Valaddo", in N.Sano, op.cit., p.142.

L'associazione di Coumboscuro promosse negli anni Novanta la campagna, supportata da stampini e manifesti sparsi in tutte le valli, intitolata "Lo sai che l'Occitania non esiste?"; Sergio Arneodo spiega: "Sai che in Italia è stata approvata la Legge 482 del '99. All'interno di questa legge, sono state riconosciute come "minoranze linguistiche-storiche", "le popolazioni parlanti la lingua occitana" e non hanno inserito "le popolazioni parlanti la lingua provenzale". La Consulta Provenzale è nata perché non accetta che il termine "occitano"rappresenti tutte le valli delle Province di Cuneo e Torino. In pratica nella legge è contemplato solo l'occitano. Noi abbiamo chiesto che entri anche il termine "provenzale"", ivi, p.142.

(167)Ivi, p.132.

(168)Sul N.50 de "Lou Temp Nouvel" è stata pubblicata una lettera firmata dalle associazioni E Kyé, La Valaddo, Lou Soulestrelh, Coumboscuro e dalla Società di Studi Valdesi in cui si legge: "Il progetto rischia di risultare, così com'è formulato, l'espressione degli interessi ristretti, ideologici e discutibili di un solo gruppo associativo, che fa riferimento diretto ad un movimento politico, denominato MAO, di natura nazionalistica ed antieuropea; mentre l'area alpina interessata presenta un insieme di altre associaz etno-culturali, operanti nella medesima zona e ispirate a concezioni diverse".

(169)"Ho incominciato a fare musica verso gli anni Settanta. C'era tutta una nuova creazione musicale occitana in Occitania Grande, si organizzavano festival di musica occitana. Io, che avevo già mio padre che componeva canzoni in occitano, ho incominciato a cantare e girare per le valli, in tutte le valli. Sono stato praticamente il primo cantautore delle valli occitane, perché a quel tempo nessuno si sognava di andare in giro a cantare in occitano. Ho iniziato a cantare canzoni di mio padre, non molte canzoni tradizionali, ma di mio padre o di mia composizione", Dario Anghilante in Naoko Sano, op.cit., p.96.

(170)Cfr.ivi, p.106.

(171)Ivi, p.110.




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Toso, Fiorenzo 2011, Quando il linguista diventa eponimo. Alcune riflessioni sull’“abilitazione” dell'occitano nelle valli del Monregalese, in Frevel, C., Klein, F.J. e Patzelt, C. (a cur.), Gli uomini si legano per la lingua. Festschrift für Werner Forner zum 65. Geburtstag, Stuttgart, Ibidem Verlag 2011,

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Periodici e riviste:

-"A Vaštéra. Šcartari de gènte briašche" (1998 / 2009).

-"Coumboscuro" (1962 / 1980).

-"La Beidana" (1985 / 2004).

-"La Valaddo" (1968 / 1990).

-"Lou Soulestrelh" (1971 / 1976).

-"'Ltò Almanach" (2008).

-"Novel Temp" / "Lou temp nouvel" (1975-2011).

-"Oncino voù rëcordàou" (2000 / 2008).

-"Ousitanio Vivo" (1874 / 1996).

-"Primalpe" (1982-1984).

-"Rivista Italiana di Dialettologia", 4, 1978-80.

-"'R nì d'aigüra" (1985-1986)

-"Valados Usitanos" (1980 / 2011).