La cabaçço è l'oggetto comunemente identificato come gerla realizzata con l'intreccio di vimini, ma anche, secondo una definizione più precisa, come la "cesta a forma di cotto rovesciato, usata specialmente nei paesi di montagna per il trasporto di roba varia. Si porta sulla schiena assicurata alle spalle con due cinghie". Così si legge sul Garzanti in riferimento ad un oggetto che ormai riposa nei fienili o nelle soffitte, ma che fino a qualche decennio fa è stato indissolubilmente legato alla civiltà contadina alpina costituendone uno dei simboli materiali più importanti. La cabaçço ha rappresentato l'insostituibile ed indispensabile attrezzo del quale il montanaro si è giornalmente servito per il trasporto di diversi materiali in particolar modo in luoghi aspri, non adatti al transito di carri trainati da ammali ed allo scorrimento dei bers. Compagna di fatica inseparabile, la cabaçço veniva impiegata per ënreà lou tsamp, per trasportare su un chapìe le pietre (meticolosamente raccolte all'interno dello stesso campo al fine di aumentarne l'area coltivabile) ed ancora, per portare il letame che sarebbe poi stato utilizzato per concimare il campo.

   Le gerle venivano costruite nelle stalle durante le veglie invernali, così da averle pronte all'uso al sciogliersi dell'ultima neve per avviare i lavori primaverili. In ogni famiglia c'erano uomini capaci a costruirle: a seconda del costruttore e quindi della sua ingegnosità e fantasia, le gerle potevano assumere forma diversa, più arrotondata o più a cono o con intrecci particolari. Ad esempio, nelle gerle della borgata Pasquìe è più marcata la forma a cono, rispetto a quelle di Narlonc che sono meno strette e più a forma di botte. A volte gli abili artigiani si scambiavano il lavoro e poteva succedere che chi realizzava con maggior dimestichezza una gerla di dimensioni ridotte prestasse la sua manodopera, che sarebbe poi stata ricambiata, a chi era più abile nella costruzione di manufatti dalle dimensioni maggiori.

   Oggi purtroppo l'arte del saper costruire la cabaçço sta praticamente scomparendo. Molti bambini di Oncino hanno però modo di conoscere questo oggetto, anche se mai usato, in quanto il cabaçot è stato regalato loro da Fredou 'd Pessi, l'unico ad Oncino che tuttora realizza gerle.

 

   N'ai fai dë cabaççe! La pounto di dé i të bruzo a fa cabaççe tou lou dzourn e la cabaçço la fas pa ënt al dzourn: talhà lou bosc e fa tout!

   Lei faxërian tout l'uvern, ënt i ëstabi a vëlhà. Mi lou pi quë ai ëmparà l'é da Pier Martin, da Piettrou 'd Pert a Co' di Sere e da moun barbo Jacou. Oourei agù set o uëts ann, moun barbo al më lei coumënçavo, alouro më butavou achì e cant sbalhavou al më courëgio. Pourtërian lei ramme dzalà ënt l'ëstabi, përqué lou bosc ent l'ëstabi al rëstavo pu umit e al së travalhavo pu bën, al s'ëschapavo pa.(Allisio Giuseppe Pessi)

 

   Pourtà la cabaçço

   Anche i più piccoli, già in tenera età, venivano abituati a portare la gerla sulle spalle; ovviamente una di dimensioni ridotte, avvertendo però, fin da subito, quella sensazione di sofferenza e di sacrificio dovuta alla scarsa comodità e alle corde taglienti che facevano forza sulle spalle, disagi a cui ben presto si sarebbero adattati. Le testimonianze che seguono ci dimostrano che già a cinque o sei anni si dava quel piccolo, ma prezioso contributo necessario per il compimento dei lavori all'aperto.

 

   La drudzzo la pourtarian bë la cabaçço. Avian dë cabaçot, përnëian dzò sëmpe quëlo pi isutsso. Ai pourtà tou l 'istà, sai pa së anavou dzò a ëscolo o pa. Ën viadze o du për matin, ma povro mare më prëparavo lou barounét e amoun ai Cumun. Sai quë bonanimo dë moun pare ar l'éro isù a sbardà e m'avìo di "Bravo, n'avën gu për lou Cumun achì dëçài e ënën dërdé për ilai". Lh'éro no ribbo da mountà! Lhi prà lh'avën scaze sëmpe ëndrudzà tuts, s'ëndrudzavës pa lhi vënìo pa prou d'erbo.(Aimar Anna Jouloumin)

 

   Péno qu'éres bon a travalhà, a siës o set ann, pourtavës la cabaçço. Lhi primi viadze i më tiravo për tero. Lei meinà i pourtavën no trëntà b'ën cabaçot pëchit. Cant moun peirin pourtavo leisù dai Canavou ënt al anavo a sëmënà al më tsardzavo no trënta e faxìou dzò lou viadze coumà lh'aouti, l'éro dzò lou viadze coumà lh'aouti, l'éro dzò no trëntà pourtà vio.(Allisio Giuseppe Pessi)

 

   Lou darboun rumavo, faxìo co salhì lei peire, alouro bë lou rastél dësfaçërian lei dzarbouniere e culhariàn lei pèire, co bë lou cavanh e la cabaçço: faxariàn lei cavanhà e butaiàn ënt la cabaçço, cant nh'éro prou anariàn vouidalo. Cochì la dounavo travalh!

   Anërian culhì drudzzo amoun për la mountanho ënt lhi bërdzìe i butavën lei fée, al founç di Gourdzàç. Bë no palo faxëriàn dë baroun e pé pourtërian içai ënt lei cabaççe.(Aimar Adriana Jouloumin)

 

   La cabaçço utilizzata per il trasporto del letame o della terra era poi adibita esclusivamente al trasporto di questi stessi materiali. Normalmente non era grandissima, così da non eccedere nel carico. L'operazione più faticosa, quando si era da soli, era quella di mettersi la gerla carica in spalle: una volta preparata, si teneva in equilibrio, infilando prima una spalla nella corda e poi, sempre facendo attenzione a non rovesciare il carico, infilando l'altro braccio nell'altra spallina. A questo punto, trovandosi seduti, ci si doveva alzare carichi come somari, aiutandosi eventualmente con il manico del tridente. La manovra era agevolata dall'elevata pendenza del terreno. Tuttavia, per eliminare queste difficoltà, nei campi vicini all'abitazione, per ënreà lou tsamp (cfr. nota l), si usava portare un cavalletto, ossia un treppiede in legno, munito di un appoggio su cui si collocava la gerla carica di terra per potersela caricare sulle spalle più comodamente. Alcuni usavano il treppiede anche nella stalla per salhì la drudzzo.

   Vi era poi la cabaçço della spesa, pulita e bella bianca, anch'essa non troppo graade, utilizzata appunto per portare alimenti. Con questa gerla a spalle, ci si recava spesso a piedi a Paesana al mercato del venerdì per la spesa e per vendere burro e uova, scrupolosamente sistemati e separati da un pezzo di legno per non subire danni. Oppure si raggiungevano i famigliari impegnati nei lavori dei campi o nella fienagione, per portare loro la colazione o il pranzo (polenta con latte e brouç).

 

   Meirino i butavo foro lei bestie, i faxìo roustì la poulento së la brazo e pré i butavo tout ënt al suaman bianc 'd télo e lh'anavo val a la Vilo; ma bastavo pa la Vilo, fin al Crouzaç, pu aval di Prie, dran dal piloun. Cant i rubavo, sai pa a l'ouro qui rubavo, peirin bonanimo dixìo "polenta desiderata". I travalhavën ilen e i vënìën amoun içì, amoun dë séro e aval dë matin. (Allisio Vincenzo Saouze)

 

   La cabaçço dell'erba era di dimensioni più grandi, proprio per contenere una maggior quantità di foraggio, considerata la sua ridotta densità.

   Insomma, anni di sacrificio e di sudore hanno visto intere generazioni con la cabaçço së lei spalle, dentro la quale sono passati anche molteplici materiali pesanti utilizzati per la costruzione delle case, come sabbia, calce, e pietre.

 

   Ai co pourtà drudzzo ënt la cabaçço, apré a Galò, ma l'éro miëlh la drudzzo quë la sabbio. Anaian përne la sabbio ilen al bial për fa la meizoun.(Mattio Domenica Pergrò)

 

   La cabaçço i faxìo da cuno (la gerla con funzione di culla)

  La gerla poteva all'occorrenza trasformarsi anche in culla, infatti, quando la mamma era occupata nei lavori all'aperto, deponeva il figlioletto in fasce all'interno della cabaçço sistemata nei campi all'ombra di una pianta. È questo un ricordo vivo nella memoria di molte persone. "I më pourtavo a fëënt la cabaçço" sono appunto le parole contenute nella canzone "Mëndio" che bene rievoca peculiarità del passato. Abitualmente si verificavano casi in cui anche donne incinte andavano nei campi per dare il loro ultimo contributo prima del lieto evento, facendo il tragitto con un figlio per mano e con il più piccino, di pochi mesi, portato a spalle nella grande culla dondolante ad ogni passo (erano tempi che non conoscevano il "collocamento in maternità"!).

 

   Ma mare i nou a pourtà tutte ënt la cabaçço: moun pare avìo fai propi la cabaçço bianco për lei meinà, belo lardo a la çimmo. Pi quë l 'é d'istà, cant lh'anavën a lei Béoule a fa fën.(Aimar Maria Patrissi)

 

   Ma mare, cant érou pëchit, i m'à sëmpe pourtà ënt la cabaçço, da la Vilo a Bounét e da Bounét a la Vilo. Érou péno neisù e i më couidzavo ënt la cabaçço, dësout dë fën o carcozo, pre couatà be no cuberto e i më pourtavo aval. I pourtavën findia la cuno ënt i prà, pré quél qu'avìo dzò dë meinà grandin, un cunavo e dëmouravo l 'aoute.(Allisio Giuseppe Pessi)

 

   Anche i fratelli maggiori, in caso di necessità, tentavano il trasporto dei più piccoli nella gerla, trasporto che non sempre giungeva a buon fine senza imprevisti.

 

   Cant lh'éro lhi tedesc un mountavo lou dësvëlharìn a l'aoute: lh'à lhi tedesc, lh'à lhi tedesc, quë faxëncou, scapëncou? Partën, Louigi ënt la cabaçço; lh'à ën vioulét për anà a la fountano dë la Ruà, achì ëdtsout dë Fantoun e chì l'éro drets, scarà e avën dounà lou rubat a Luigi ënt la cabaçço.

(Allisio Vincenzo Saouze)

 

Fa cabaççe (realizzare gerle)

   Per realizzare una gerla è necessario preparare il legno che si va a tagliare sempre a "luna buona", cioè a luna in fase calante.

   L'attrezzatura necessaria è rappresentata da un seghetto, una roncola, un coltello, un coltello a due manici e un martello.

   Il basamento in legno denominato founç in genere è di frassino, in quanto più resistente e forte, di forma rettangolare o trapezoidale. Nel founç si praticano quattro fori e vi si infilano dal basso verso l'alto i quattro montanti denominati . Questi sono più larghi alla base, così da trasformarsi in punti di arresto e di sostegno capaci di reggere tranquillamente il basamento con sopra l'intero carico. Per completare lo scheletro si incastrano nel founç dall'alto in basso (in fori più piccoli) e tra un e l'altro, numerose stele, cioè lamine piatte normalmente sempre di frassino, equidistanti l'una dall'altra, sempre in numero dispari per esigenze di tessitura. Gli elementi orizzontali della trama, che si intrecciano tra una stelo e l'altra si chiamano cospie, cioè lamine molto più sottili, strette e lunghe rispetto alle stele, ricavate in genere da rami di nocciolo o di salice, legni più leggeri che non appesantiscono più di tanto la gerla.

 

   Moun pare al faxìo cabaççe dë gourin rou. Al pëlavo lh'ooulanhìe për fa lei cospie e pé al faxìo la riggo bianco ënt al meç. (Aimar Maria Patrissi)

 

   Dopo aver intrecciato cospie per un'altezza di circa 10-15 cm, si applica all'interno, legata al fondo, una fascia circolare di legno o di ferro con funzioni di guida; in questo modo si può procedere più agevolmente alla forma dell'intreccio, con le stele sempre allineate fra loro. A questo punto però, man mano che si sale la circonferenza di base aumenta, quindi diventa necessario impiegare nuovi montanti ai suoi quattro angoli; è cosi giunto il momento di pounalhà, cioè mettere i pounalh che sono praticamente delle stele aggiuntive di lunghezza variabile con una parte appuntita, la parte appunto che viene infilata nelle cospie già intrecciate. Il pounalh quindi non parte dal founç e viene applicato soprattutto agli angoli per dare alla gerla la forma voluta.

   Quando l'intreccio, a forma di cono arrotondato, raggiunge l'altezza desiderata, si applica all'esterno un orlo di rifinitura denominato orle, che coincide in genere con un ramo di nocciolo curvato a cerchio intorno al bordo della gerla. Le estremità del ramo vengono tagliate a cuneo e unite tra loro in corrispondenza della parte anteriore della gerla denominata ëstsino, la parte cioè che poggia sulla schiena, la quale deve essere il più piatta possibile per non creare fastidio durante il trasporto. L'orle viene fissato con del filo di ferro (in tempi più remoti si usava un rametto di legno) intrecciato a spirale in modo da bloccarlo contro stele e pounalh appositamente forati. Il filo di ferro fatto passare prima in un senso e poi nell'altro diventa quindi doppio, così da formare degli incroci ad x.

   In ultimo, all'interno della gerla, dal lato che poggia contro la schiena, si applica un supporto di legno, largo quasi quanto la gerla stessa, forato in due punti. A questi due fori e ai due fori praticati al founç vengono quindi fissati i passanti di sostegno rappresentati da due cinghie o due corde che, una volta indossate a spalle, servono a reggere e trasportare il carico con le braccia libere. Proprio quest'ultimo particolare permetteva alle donne di fare maglia durante il tragitto con la gerla a spalle.

   La costruzione della gerla è così terminata. Ma veniamo alle parole di Fredou che, proprio mentre intreccia le cospie, ci rivela passo dopo passo le malizie utili alla costruzione della cabaççe e volentieri ci descrive i vari passaggi lavorativi:

 

   Lhi pè dë la cabaçço i tenën lou founç; carcun i lhi dëmandën lhi cap. I soun dë fraise përqué ar I 'é pu dur e lhi pè restën pu fort. A chaval i dovrën lou castanhìe.

   Lhi pè bë l'arest lh'intrën pëchit amoun dëdin. Lei stele i soun dë gouro parélh la cabaçço i resto pu lëdziéro, ma cant gavës lhi pè të resto co toutte lei stele alouro lei dovrës.

   La gouro lh'ì courto, i fai pa lei cospie londze coumà l'ooulanìe, i vai bën për lei stele.

   Për fa lei cospie talhà lei ramme sëmpe a luna bono. Së prën l 'ooulanhìe, përqué al 1'à menou group e lei ramme i soun pu londze. Dëgarà sëmpe la rammo qu'é ën pou pu scuro, la cospio i së gavo pu bën quë l 'aouto charo. Quële scure i së travalhën pu bën, i saoutën pa tant quë lh'aoute dë la plalho vérdo, pu charo. Da no rammo scuro n'ën gavà uëts, përqué gavà lei cat primme su e pre gavà ëncà lei catre aoute dësout. Ënveche quëlo dë la plalho charo, n 'ën gavà mac catre, lh'aoute dësout i valën pa nën. Ma la pi forto l'é la primmo quë lh'ì sal riount. Pé lhi gavës toutto la baveuiro bë lou cooutél, parélh la cospio i s'ëschapo pa. Carcune i së gavën sutile e cant i së gavën tan spësse, bë lou cooutél i së spiatlissën, përqué cant i piego dëdin i së dev pa roumpe, e së lh'ì spësso i së roump. Lou pu mal fa le lhi primi vir La cospio, së la giountës bën, së nacors pa. Lou pëcà, ënt l'é giountà, al së vé dë dëdin. Sar quë lei stele sëssën toutte ferme a soun post, apré cant i manqën, lei  pounalhës tacà ai pè: doue o catre ënsëmmou. Lei stele pu i soun sërà e menou i së roumpën, parélh la cabaçço i duro dë mai. Apré, cant siou amoun cat dé, lhi buttou no fourmo dëdin qui la slardzo, sënò la coumandou pa.

   Lei stele dë dran sar qui siën pi spësse përqué apré lhi vën lei corde. Pre, pi amoun, serou lei stele quë lhi doune ën paou dë guëddou riount a la cabaçço. L 'aoute vir ai pounalhà dë dran e euiro pounalhou dëreiri: sëmpe du për part e sëmpe tacà a lhi pè (lhi mountant). Sar sëralo qui reste forto.

   Vas sëmpe avanti parélh fin a l'orle.

   L'orle l'é no rammo rioundo d'ooulanhìe, la pieguës a la .fourmo dë la cabaçço; i tën sërà. Dran buttou l'orle e pre talhou lei stele e lhi pounalh qui passën amoun. Për giountalo i së talho a subiét e i së vën sëmpe giountà sal dë dran quë resto ën paou pu piat. Për fërmà l'orle i faxìën lhi përtù a lei stele bë no mëccho pëchitto e lhi pasavën ën gourin o no cospio. Euiro buttou lou fil dë fere.

   Për lei corde buttoun'asét dë dëdin quë tene tutto l'ëstsino, lou fourou e faou pasò la cordo achì e al founç.

 

Testimonianze:

 

Fredou 'd Pessi (Allisio Giuseppe n. 1940): reg. Oncino anni 2000, 2001, 2002, 2003

Anno d'Jouloumin (Aimar Anna n. 1927): reg. Oncino marzo 2003

Driano 'd Jouloumin (Aimar Adriana n.1931): reg.Oncino anni 2001, 2002, 2003

Chensin 'd Saouze (Allisio Vincenzo n.1933): reg. Oncino luglio 2000

Mëquin Pergrò (Mattio Domenica n. 1913): reg. Oncino agosto 2002

Iouccho 'd Patrissi (Aimar Maria n.1928): reg. Oncino anni 2002 - 20