Ai piedi di quel muro,
in fondo a quel gran campo,
il ciliegio selvatico
fa ombra al paesano.
I suoi bei fiori della primavera,
guarniscono la campagna,
i suoi frutti, dolci e succosi,
lo guarniscono e lo fanno rosso.
Fa piacere mangiarli,
quando uno è stanco,
dopo aver ben lavorato
quel campo ben riparato.
All’improvviso un’immagine ritorna in mente, soave, netta, come un quadro. Su, ai piedi di un grande campo, quel ciliegio selvatico, bianco per il colore dei suoi fiori, rosso per quello dei suoi frutti, dolci e gustosi, nostalgica e infiammata quando l’aria incomincia a raffreddarsi e quieta sotto la prima neve, che cade come crusca. Su, alla borgata. Come il ciliegio, un uomo ha deciso di sbocciare e di affacciarsi alla poesia, dono e ispirazione fra le più belle e spontanee da sempre partorite dall’uomo. Riccardo Culturi nasce nel 1939, in Alta Valle della Dora, a Fenils, frazione di Cesana Torinese. Maestro di sci e poeta contadino, da molto tempo lavora a favore della cultura del suo luogo e al preservamento della memoria, impegnandosi e collaborando a molte attività, alla ricerca e alla pubblicazione di importanti lavori e pubblicando articoli su riviste. Il libro “Il mio Paese, la mia lingua e la mia gente”, edito dall’associazione Chambra d’oc, raccoglie un buon numero di poesie, scritte fra il 1981 e il 2019 nella parlata del suo paese e rese in grafia Escolo dou Po, nel modo schietto della sua gente, senza arrivare a mordere le parole, ma selvaggio, incapace di contenere l’attaccamento, l’amore per il suo paese, la sua lingua e la sua gente.
Mi sembra un sogno,
trovarmi qui quella conca,
dove il vento si riposa, tranquillo,
e il sole posa nell’erba
i suoi mille lumicini che fanno brillare
erba e fiori come diamanti.
Un uccellino posato sul ramo
dondolandosi canta,
canta la sua canzone che ben sa
e anch’io con lui canto,
canto quella canzone dimenticata
che adesso alla memoria è ritornata.
Il sentimento per la natura è il primo che sorge spontaneo dal cuore del poeta. Le stagioni, che mutano il paesaggio e regolano la vita della gente, il sole, che illumina tutto e fa nascere un altro giorno, l’inverno, con la sua neve così cara ad uno sciatore. Tuttavia c’è anche l’inquietudine per il tempo che beffardo scorre inesorabile, la nostalgia e la tristezza per un mondo che è passato, la “razza di gente e dimenticata che non c’è più”, la desolazione per l’uomo che non fa abbastanza attenzione a ciò che fa e insensibile pensa solo a comprare ciò di cui ha bisogno, “senza pensare da dove viene”. Sembra un sogno trovarsi in una conca dove il vento si riposa, se si pensa a ciò che è stata la perdita dell’identità nelle proprie valli. Ciò nonostante, senza sosta, uno continua a prendersi cura del proprio ambiente, del forno laggiù “che abbiamo aggiustato, con amore e volontà”, interessato a salvare un pezzo di storia delle proprie montagne. Ma un uccellino canta la sua canzone. Anch’egli canta assieme, quella canzone dimenticata, che ora ritorna in mente, davanti al quadro che si trova di fronte, quando il sole si posa sull’erba, ma anche di fronte allo sconvolgimento del paesaggio naturale e umano, al girone opprimente che chiude porte un tempo aperte, al potere prepotente e maldestro con il suo disastro, la sua televisione e la sua narrativa sempre più lontana dalla realtà. In un mondo che “è un pallone, / gira il mondo, / girano le nazioni, / cambia la vita / di tutte le popolazioni”. L’uccellino è volato lontano, lasciando soltanto la memoria. Da quale vento è stato portato, in quale paese sarà andato? Nel frattempo, tutto attorno avanza il progresso.
Una volta, quando la nostra campagna era lavorata,
un vecchio proverbio diceva:
che il buon Dio ci risparmi
dalla neve novembrina
e, a maggio, dalla brina.
Ora che tutto è cambiato
tutto si basa sugli sci,
non è mai troppo presto quando viene.
Tutti aspettano quel momento,
di vederla cadere come la crusca.
Cercano di farne,
ma bisogna riuscirci.
Poi non è la stessa neve
di quella che viene dal cielo,
quella è come seta,
quella è proprio neve.
Egli prova tristezza nel vedere, passeggiando per la campagna, grossi mucchi di ghiaia e pietroni, usciti dalla terra dissodata, costati lavoro e sudore. Senza disperazione, ironico, conclude: “Ma, dopo tutto, sei solo un mucchio / di grosse pietre e ghiaia” e, più seriamente, immagina lo sguardo dei vecchi, se ritornassero indietro, se potessero rivedere i luoghi in cui hanno vissuto, con i loro terreni, tutti persi “le loro case ben aggiustate, / senza le bestie ad abitarle”. Con tutto quel gran progresso, “in un mondo che muore di fame”, cosa si lascerà a coloro che verranno? Ora non vale la pena temere la brina e sperare di rivedere il mondo che si è vissuto, quando l’inverno è ormai giunto, quando tutto è dovuto e anche il saluto ai vecchi non si fa più: “ai giovani dar tutto / senza far loro pesare niente, / il mondo finirà in un niente”. Seta sembra quel bianco che ormai ha coperto le cime e per un po’ non vorrà andarsene, abbeverando e nutrendo il mondo. Il clima e il paesaggio cambiano, mentre la natura, per tutti, grida il suo dolore, come nella poesia “Papavero”, dove “il sole dell’estate piange, / lacrime brucianti di sangue” e resiste, facendo sembrare più umano ciò che pian piano se ne va. Pensieri viaggiano lontani, in un’ora di calma, di sogni calmi, accarezzati solo da una brezza, nell’autunno che con i suoi mille colori giunge presto e la vita che avanza verso il suo inverno e fa sentire soli.
In un bel cielo blu da cartolina,
nuvole rosa, senza paese, corrono;
come i pensieri sotto il cappello
di un paesano, in un istante.
Il sole è ancora caldo sulla montagna,
il freddo della notte, fa rossi, gialli e bianchi
alberi e cespugli, cambia la campagna,
è l’autunno che si fa avanti.
Nuvole senza paese corrono, come i nostri pensieri
che, in un’ora calma d’autunno, viaggiano
nella mia testa tranquilla: lontano,
aspettando l’inverno che non tarda.
Sogni calmi,in un’ora calda di sole,
solo un briciolo di vento mi accarezza,
aria fresca dell’autunno che avanza
nella natura, mi fa sentire
solo!
La solitudine, il sentimento che per forza porta al vuoto, fino all’estremo, ma come una fredda brezza solletica il viso risvegliando i pensieri. E il tempo, frettoloso, “che ora si è allargato / in un lago torbido e grigio, / da dove escono all’improvviso / figure, parole, gesti e ricordi”, un grande lago formatosi col tempo da dove tutto nuovamente fuoriesce. Così, da egli sorge quel pensiero tenero e fiducioso che porta l’essere umano ad essere più umano: “Rimaniamo assieme fin che possiamo, / facciamoci coraggio e non pensiamoci, / facciamoci coraggio, restiamo uniti, / e non pensiamo al tempo a venire”. È difficile accettare la vecchiaia, i giorni che si fanno più lunghi, la memoria da cui riemergono tutti i ricordi, difficile affacciarsi al tempo in cui tutto bisogna lasciare. Forse tutti gli amici che lo hanno lasciato “hanno corso troppo in fretta. / Chissà! Chissà!”. Ma non è ancora il tempo. Il ciliegio continua a fiorire nella borgata di Fenils e anche d’inverno la sua linfa continua a scorrere. Il ciliegio che nessuno ha dovuto piantare, pensando egli stesso all’avvenire, è cresciuto da solo, e non se ne sta ozioso, è ancora lì. I suoi rami vogliono crescere, trovare luce, sbocciare ancora. “Vicino è il tempo dove tutto bisogna lasciare”. Importante e prezioso è il contributo che egli ha saputo donare alla sua terra, la sua lingua e la sua gente. È fin troppo ciò che ha fatto. Bisogna ringraziarlo ora che il suo sole splende ancora.
Lunga è la notte per chi non dorme.
Lunga la giornata per chi ha dolore.
Lontani i giorni belli passati.
Vicino è il tempo dove tutto bisogna lasciare.
https://www.youtube.com/watch?v=53Yl6uT1kAE&list=PLBCB5B8A612621EFC&index=12
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