Nòvas d'Occitània    Nòvas d'Occitània 2023

invia mail   print document in pdf format Rss channel

Nòvas n.226 Genoier 2023

Il ciliegio di Fenils

La ceresiera de Fenils

a cura di Peyre Anghilante

italiano

Ai piedi di quel muro,

in fondo a quel gran campo,

il ciliegio selvatico

fa ombra al paesano.


I suoi bei fiori della primavera,

guarniscono la campagna,

i suoi frutti, dolci e succosi,

lo guarniscono e lo fanno rosso.


Fa piacere mangiarli,

quando uno è stanco,

dopo aver ben lavorato

quel campo ben riparato.


All’improvviso un’immagine ritorna in mente, soave, netta, come un quadro. Su, ai piedi di un grande campo, quel ciliegio selvatico, bianco per il colore dei suoi fiori, rosso per quello dei suoi frutti, dolci e gustosi, nostalgica e infiammata quando l’aria incomincia a raffreddarsi e quieta sotto la prima neve, che cade come crusca. Su, alla borgata. Come il ciliegio, un uomo ha deciso di sbocciare e di affacciarsi alla poesia, dono e ispirazione fra le più belle e spontanee da sempre partorite dall’uomo. Riccardo Culturi nasce nel 1939, in Alta Valle della Dora, a Fenils, frazione di Cesana Torinese. Maestro di sci e poeta contadino, da molto tempo lavora a favore della cultura del suo luogo e al preservamento della memoria, impegnandosi e collaborando a molte attività, alla ricerca e alla pubblicazione di importanti lavori e pubblicando articoli su riviste. Il libro “Il mio Paese, la mia lingua e la mia gente”, edito dall’associazione Chambra d’oc, raccoglie un buon numero di poesie, scritte fra il 1981 e il 2019 nella parlata del suo paese e rese in grafia Escolo dou Po, nel modo schietto della sua gente, senza arrivare a mordere le parole, ma selvaggio, incapace di contenere l’attaccamento, l’amore per il suo paese, la sua lingua e la sua gente.


Mi sembra un sogno,

trovarmi qui quella conca,

dove il vento si riposa, tranquillo,

e il sole posa nell’erba

i suoi mille lumicini che fanno brillare

erba e fiori come diamanti.


Un uccellino posato sul ramo

dondolandosi canta,

canta la sua canzone che ben sa

e anch’io con lui canto,

canto quella canzone dimenticata

che adesso alla memoria è ritornata.


Il sentimento per la natura è il primo che sorge spontaneo dal cuore del poeta. Le stagioni, che mutano il paesaggio e regolano la vita della gente, il sole, che illumina tutto e fa nascere un altro giorno, l’inverno, con la sua neve così cara ad uno sciatore. Tuttavia c’è anche l’inquietudine per il tempo che beffardo scorre inesorabile, la nostalgia e la tristezza per un mondo che è passato, la “razza di gente e dimenticata che non c’è più”, la desolazione per l’uomo che non fa abbastanza attenzione a ciò che fa e insensibile pensa solo a comprare ciò di cui ha bisogno, “senza pensare da dove viene”. Sembra un sogno trovarsi in una conca dove il vento si riposa, se si pensa a ciò che è stata la perdita dell’identità nelle proprie valli. Ciò nonostante, senza sosta, uno continua a prendersi cura del proprio ambiente, del forno laggiù “che abbiamo aggiustato, con amore e volontà”, interessato a salvare un pezzo di storia delle proprie montagne. Ma un uccellino canta la sua canzone. Anch’egli canta assieme, quella canzone dimenticata, che ora ritorna in mente, davanti al quadro che si trova di fronte, quando il sole si posa sull’erba, ma anche di fronte allo sconvolgimento del paesaggio naturale e umano, al girone opprimente che chiude porte un tempo aperte, al potere prepotente e maldestro con il suo disastro, la sua televisione e la sua narrativa sempre più lontana dalla realtà. In un mondo che “è un pallone, / gira il mondo, / girano le nazioni, / cambia la vita / di tutte le popolazioni”. L’uccellino è volato lontano, lasciando soltanto la memoria. Da quale vento è stato portato, in quale paese sarà andato? Nel frattempo, tutto attorno avanza il progresso.


Una volta, quando la nostra campagna era lavorata,

un vecchio proverbio diceva:

che il buon Dio ci risparmi

dalla neve novembrina

e, a maggio, dalla brina.


Ora che tutto è cambiato

tutto si basa sugli sci,

non è mai troppo presto quando viene.


Tutti aspettano quel momento,

di vederla cadere come la crusca.

Cercano di farne,

ma bisogna riuscirci.


Poi non è la stessa neve

di quella che viene dal cielo,

quella è come seta,

quella è proprio neve.


Egli prova tristezza nel vedere, passeggiando per la campagna, grossi mucchi di ghiaia e pietroni, usciti dalla terra dissodata, costati lavoro e sudore. Senza disperazione, ironico, conclude: “Ma, dopo tutto, sei solo un mucchio / di grosse pietre e ghiaia” e, più seriamente, immagina lo sguardo dei vecchi, se ritornassero indietro, se potessero rivedere i luoghi in cui hanno vissuto, con i loro terreni, tutti persi “le loro case ben aggiustate, / senza le bestie ad abitarle”. Con tutto quel gran progresso, “in un mondo che muore di fame”, cosa si lascerà a coloro che verranno? Ora non vale la pena temere la brina e sperare di rivedere il mondo che si è vissuto, quando l’inverno è ormai giunto, quando tutto è dovuto e anche il saluto ai vecchi non si fa più: “ai giovani dar tutto / senza far loro pesare niente, / il mondo finirà in un niente”. Seta sembra quel bianco che ormai ha coperto le cime e per un po’ non vorrà andarsene, abbeverando e nutrendo il mondo. Il clima e il paesaggio cambiano, mentre la natura, per tutti, grida il suo dolore, come nella poesia “Papavero”, dove “il sole dell’estate piange, / lacrime brucianti di sangue” e resiste, facendo sembrare più umano ciò che pian piano se ne va. Pensieri viaggiano lontani, in un’ora di calma, di sogni calmi, accarezzati solo da una brezza, nell’autunno che con i suoi mille colori giunge presto e la vita che avanza verso il suo inverno e fa sentire soli.


In un bel cielo blu da cartolina,

nuvole rosa, senza paese, corrono;

come i pensieri sotto il cappello

di un paesano, in un istante.


Il sole è ancora caldo sulla montagna,

il freddo della notte, fa rossi, gialli e bianchi

alberi e cespugli, cambia la campagna,

è l’autunno che si fa avanti.


Nuvole senza paese corrono, come i nostri pensieri

che, in un’ora calma d’autunno, viaggiano

nella mia testa tranquilla: lontano,

aspettando l’inverno che non tarda.


Sogni calmi,in un’ora calda di sole,

solo un briciolo di vento mi accarezza,

aria fresca dell’autunno che avanza

nella natura, mi fa sentire

solo!


La solitudine, il sentimento che per forza porta al vuoto, fino all’estremo, ma come una fredda brezza solletica il viso risvegliando i pensieri. E il tempo, frettoloso, “che ora si è allargato / in un lago torbido e grigio, / da dove escono all’improvviso / figure, parole, gesti e ricordi”, un grande lago formatosi col tempo da dove tutto nuovamente fuoriesce. Così, da egli sorge quel pensiero tenero e fiducioso che porta l’essere umano ad essere più umano: “Rimaniamo assieme fin che possiamo, / facciamoci coraggio e non pensiamoci, / facciamoci coraggio, restiamo uniti, / e non pensiamo al tempo a venire”. È difficile accettare la vecchiaia, i giorni che si fanno più lunghi, la memoria da cui riemergono tutti i ricordi, difficile affacciarsi al tempo in cui tutto bisogna lasciare. Forse tutti gli amici che lo hanno lasciato “hanno corso troppo in fretta. / Chissà! Chissà!”. Ma non è ancora il tempo. Il ciliegio continua a fiorire nella borgata di Fenils e anche d’inverno la sua linfa continua a scorrere. Il ciliegio che nessuno ha dovuto piantare, pensando egli stesso all’avvenire, è cresciuto da solo, e non se ne sta ozioso, è ancora lì. I suoi rami vogliono crescere, trovare luce, sbocciare ancora. “Vicino è il tempo dove tutto bisogna lasciare”. Importante e prezioso è il contributo che egli ha saputo donare alla sua terra, la sua lingua e la sua gente. È fin troppo ciò che ha fatto. Bisogna ringraziarlo ora che il suo sole splende ancora.


Lunga è la notte per chi non dorme.

Lunga la giornata per chi ha dolore.

Lontani i giorni belli passati.

Vicino è il tempo dove tutto bisogna lasciare.


https://www.youtube.com/watch?v=53Yl6uT1kAE&list=PLBCB5B8A612621EFC&index=12

occitan

Ou bâ dë quëllë muràllho,

ou pê dë qué gran chan,

la sëriziérë sòouvajjo

fai oumbro ou paizan.


Sâ bèlla floû dë la primmo,

garnisan la campannho,

sou frouissë, dousou e goutoû,

lë garnisan e lë fan roû.


La fai plazéi lou minjâ

can vun i fatigà,

can agueirë bien travalhâ

qué chan bien abrità.


Tot d’un crep un’imatge torna en ment, suava, neta, coma un quadre. Amont, a lhi pè de un grand champ, aquela ceresiera sarvatja, blanca per lo color de sas flors, rossa per aquel de si fruchs, dòuç e gustós, estantosa e enflamaa quora l’aire taca a esfreisir e quieta dessot la premiera neu, que chei coma de bren. Amont, a la ruaa. Coma la ceresiera, un òme a decidat de descoconar e de s’aprochar a la poesia, don e inspiracion entre las pus bèlas e espontàneas da sempre acojaas da l’òme. Riccardo Culturi nais ental 1939, en Auta Val Dueira, a Fenils, fraccion de Cesana. Mèstre d’esquí e poèta païsan, despuei de temp trabalha a favor de la cultura de son luec e dal preservament de la memòria, en s’engatjant e en collaborant a ben d’activitats, a la recèrcha e la publicacion d’importants trabalhs e en publicant d’articles sus de rivistas. Lo libre “Moun paî, ma lëngo e ma gen”, editat da l’associacion culturala Chambra d’òc, recuelh un bòn numre de poesias, escrichas entre lo 1981 e lo 2019 dins lo parlar de son país e renduas en grafia Escolo dou Po, dins lo biais franc de sa gent, sensa arribar a mòrder las paraulas, mas sarvatge, sensa poler contenir l’estachament, l’amor per son país, sa lenga e sa gent.


La më sëmblo un pantai,

më troubâ isì din quëllë founzo,

ountë l’aouro s’arpaouzo, tranquillo,

e lë sourè poouzà dins l’èrbo

soû millë lumin quë fan brillhâ

perbo e floû coumà dë diaman.


Un uzelin poouzà sû la brancho

an si balansan ou chanto,

ou chanto sa chansoun quë bien ou sà

e mai mi abou ié a chantou,

a chantou quëllë chansoun isublià

quë veuiro a la memouaro î tournà.


Lo sentiment per la natura es lo premier que salh espontàneu dal còr dal poèta. Las sasons, que chambion lo païsatge e règlon la vita de la gent, lo solelh, que illúmina tot e fai nàisser un autre jorn, l’uvèrn, abo sa neu tan chara a un esquiaire. Pasmenc lhi a decò l’inquietuda per lo temp que esbefiós escor inexorable, lo regret e lo magon per un mond que es passat, la “raso dë gen pardùo” e desmentiaa que lhi es pas pus, la desolacion per l’òme que fai pas pro atencion a çò que fai e insensible pensa masque a achatar çò dont a besonh, “sënso pënsâ d’ontë la ven”. Semelha un sumi se trobar dins una fonza ente l’aura se repausa, se un pensa a çò qu’es istat la pèrda de l’identitat dins sas valadas. Boquò, sensa relam, un contínua a se prene soanh de son ambient, dal forn ailaval “quë nouz aven arënjà, abou amor e vourountà”, interessat a salvar un tòc de l’istòria de sas montanhas. Mas un aucelet chanta sa chançon. Decò el chanta ensem, aquela chançon desmentiaa, que aüra torna en ment, derant al quadre que se tròba denant, quora lo solelh se pausa sus l’èrba, mas decò derant a l’estravirament dal païsatge natural e uman, a la rueida oprimenta que sarra de pòrtas un bòt dubèrtas, al poer prepotent e malbiaissut abo son ravatge, sa television e sa narrativa sempre pus luenha da la realitat. Dins un mond que “l’îs un paloun, / viro lë moundë, / viran lâ nasioun, / cinjo la vitto / dë toutto poupoulasioun”. L’aucelet s’es envolat luenh, en laissant ren que la memòria. Da qual vent es istat menat, dins qual país serè anat? Entrementier, tot a l’entorn avança lo progrès.


Un cò, can notro campannho èro travalhà,

un vièu prouverbë ou dizìo:

quë lë Boundìo nou prëzervë

da la neo nouvëmbrino

e ou mei dë mai da la brino.


Veuiro, quë tout a cinjà,

tout së bazo sû lou sî,

l’i jamai proù vittë can i ven.


Touttou atëndan qué moumen,

dë la veirë ceirë coumà dë bren.

I cerchan dë nan fâ,

ma la vënto lh’aribà.


Peui l’î pâ la meimë neo

dë quëllo quë ven dou sê,

quëllo i l’î coumà dë seo,

quëllo l’î proppi dë neo.


L’òme pròva tristessa dins lo veire, en se promenant per la campanha, de gròs barons de peiretas e rochassons, sortits da la tèrra desgerpia, costats de trabalh e de suor. Sensa desperacion, irònic, conclui: “Me, aprê tout, tu sia maquë un baroun / dë grosa peira e geiroun” e, pus seriosament, imàgina l’esgard di vielhs, se tornesson arreire, se polguesson reveire lhi luecs ente an viscut, abo lors terrens, tuchi perduts, “lora meizoun bien arënjâ, / senso lâ bestia a laz abitâ”. Abo tot aquel gran progrès, “din sé moundë quë mùe dë fan”, çò que un laissarè an aquilhi que venerèn? Aüra val pas la pena crénher la brina e esperar de reveire lo mond que un a viscut, quand l’uvèrn d’aüra enlai es arribat, quora tot es degut e mesme lo salut a lhi vielhs se fai pas pus: “a lou jouvë lou donâ tout / sënso lou fâ pëzâ ren, / lë moundë fënirè dins paren”. De sea semelha aquel blanc que d’aüra enlai a coatat las cimas e per un pauc volerè pas se ne’n anar, en abeurant e en norrissent lo mond. Lo clima e lo païsatge uman chambion, dal temp que la natura, per tuchi, cria sa dolor, coma dins la poesia “Pavòou”, ente “lë sourè dë l’ità plouro, / lëgrimma brulanta dë san” e resist, en fasent semelhar pus uman çò que plan planet se ne’n vai. De pensiers viatjon luenh, dins un’ora de calma, de sumis calms, careceats masque da un’aureta, dins l’auton que abo sas milas colors arriba lèu e la vita que avança vèrs son uvèrn e fai sentir solets.


Dins un bè sê bleu da cartolina,

nëbbla rozo, sënsa paî, couran;

coumà lou pënsâ dësous la caplino

d’un paizan, dins un istan.


Lë sourè î ëncà chaou sû la mountannho,

la frei dou neui, fai roùiou, jaounë e blac

aoubrë e boueisoun, cinjo la campannho,

l’î l’outeun quë së fai aran.


Nëbbla sënsë paî couran coumà noutrou pensâ

quë, dins unë ouro calmo d’outeun, viajjan

dins ma teto tranquillo: leun,

an atënden l’ivêr quë tardë pâ.


Pantai calmou, d’unë ouro chaoudo dë sourè,

mac unë brizo d’aouro me carëséo,

aouro frësco dë l’outeun que avanso

din la naturo, më fai sëntë

sourët!


La solituda, lo sentiment que per fòrça mena al vueit, fins a l’extrèm, mas coma una bisa gatilha lo morre, en revelhant de pensiers. E lo temp, pressat, “quë veuiro ou s’îz alargì / dins un laquë troublë e grî, / d’ountë sortan a l’amprouvizo / figuro, paròlla gesta e souvënî”, un gran lac se format abo lo temp d’ente tot torna salhir. Coma aquò, da l’òme nais aquel pensier grinós e confiant que mena l’èsser uman a èsser pus uman: “Rësten ansen tan quë nou ouien, / fazense couragge e pënsenlhi pâ, / fazense couragge, rësten unî / e pënsen pâ ou ten qu’à da vënî”. Fai mal far acceptar la vielhessa, las jornadas que se fan pus lònjas, la memòria d’ente remonton tuchi lhi recòrds, difícil s’esguinchar al temp ente tot chal laissar. Benlèu tuchi lhi aquilhi amís que l’an já laissat “i l’an courgù trô vittë. / Quisà! Quisâ!”. Mas es pas encara lo temp. La ceresiera contínua a florir dins la ruaa de Fenils e bèla d’uvèrn sa saba contínua a escórrer. La ceresiera que degun a degut plantar, en pensant ela mesma a l’avenir, es creissua da soleta, e ista pas de bada, es encà aquí. Sas branchas vòlon créisser, trobar de lutz, tornar descoconar. “Proce i lë ten ountë la vënto toû leisâ”. Important e preciós es lo contribut que el a sabut donar a sa tèrra, sa lenga e sa gent. Es fin tròp çò que a fach a son país. Chal lo remerciar aüra que son solelh resplend encara.

Lonjo î la neui par qui deur pâ.

Lonjo la journà par qui à mâ.

Leun soun lou joû bèllou pasâ.

Proce i lë ten ountë la vënto toû leisâ.



https://www.youtube.com/watch?v=53Yl6uT1kAE&list=PLBCB5B8A612621EFC&index=11


Condividi