Penso di averlo sempre conosciuto. Viso scavato e rugoso, naso un po’ adunco, l’occhio vivo, di capelli non ne aveva più molti e quei pochi erano già bianchi. Magretto e sempre mal vestito, a parte il giorno in cui andava a ritirare la pensione, fare la spesa e andare a messa e per il giorno di San Giovanni, ecco il ritratto dell’Enrí Còc. Già suo padre, m’hanno raccontato, era soprannominato Còc; in realtà il suo nome di famiglia era Charrier.
In paese l’Enrí passava per essere uno stupidotto, come dire un uomo un po’ tardo, che vive alla sua maniera, alla giornata, senza badare agli altri.
Quando suo padre morì l’Enrí si trovò proprietario di un terzo del patrimonio, il restante agli altri due fratelli, Pierre e Marius.
Piere era sposato e viveva non lontano di li, dalla Gleisolle; abitava, passato il torrente del Roan, a Piccolo Faetto; Marius invece era emigrato in Francia, a Parigi, dove si era sposato con una bretone ma con questa non andava d’accordo.
L’Enrí, l’unico rimasto nella casa del padre, mandava avanti la campagna e pure quella di Marius ch’era in Francia.
Pare che il buon uomo una volta non fosse come lo conobbi io. A sentire qualcuno della borgata, doveva essere persino un bel ragazzo, vigoroso ma in seguito rovinato dalla guerra, quella del quindici. Era della classe 1897 ed era tornato con lo spirito stravolto e la mente confusa. Non era più lui da quando una bomba aveva centrato in pieno la ridotta dove era accantonata la sua compagnia e aveva visto morire i suoi camerati. Dopo la guerra il ritorno era stato penoso,la sua valle come tutta l’Europa avevano conosciuto dei momenti tragici. Solamente il suo comune aveva avuto più di settanta morti, dei giovani che non avrebbero fatto famiglia e una grande miseria aveva colpito un po’ tutti. Riprendere la vita con i suoi ritmi e il tempo, avevano infine sanato le ferite di questo conflitto mondiale. Ma tante lacerazioni non possono guarire. Se qualcuno gli chiedeva qualcosa, rispondeva senza errore: què portandosi la mano all’orecchio per sentire meglio. Quella bomba gli aveva portato via pure l’udito.
Effettivamente era sordo come una bèna1 e nell’insieme il personaggio più curioso della borgata.
Non aveva mai trovato il tempo per sposarsi e qualcuno, maligno, linguacce che mormoravano cattiverie, diceva che non ci aveva mai pensato. Ma era falso. Ci aveva pensato e dopo notti insonni si era deciso.
Aveva nel cuore e negli occhi una bella ragazza di qualche anni più giovane che conosceva da quando andava a scuola giù a Villaretto. Una bella giovinetta ma non si era mai osato di dirle che gli voleva bene. Gli occhi ridenti e chiari, portava ancora le trecce, un bel visetto che aveva sempre desiderato baciare e accarezzare.
« si, mi sposerò nel più breve possibile» aveva pensato e così, un mattino all’alba partì per ordinare un letto a due piazze da un falegname amico di Perosa. Il giaciglio terminato , l’aveva fatto portare sino a Villaretto con un carro e dopo l’aveva portato sino a Gleisolle nella sua camera.
Ora quel letto è ancora la , appoggiato al muro della sua camera sopra la stalla, dove non è mai stato montato per il semplice motivo, che giaciglio acquistato, non aveva mai trovato il coraggio di chiedere a quella fanciulla, che nel segreto del suo cuore amava se volesse sposarlo.
L’Enrí non era sicuramente cattivo e la gente ne approfittava. So che gli avevano sottratto l’orologio che suo padre gli donò quando partì per la guerra, e non so cos’altro.
Sicuramente un uomo particolare. Quando gli altri tornavano per la cena, lui partiva al pascolo della sua vacca. La teneva attaccata ad una corda e andava. All’epoca la strada che sale a Gleisolle non era asfaltata e la polvere, soprattutto d’estate, si posava sull’erba che cresceva li vicino.
L’Enrí partiva con la pila, una scopetta e mentre la vacca mangiava scuoteva via la polvere. Quante volte, nello scuro, salendo da Villaretto me lo sono trovato davanti, lui e la sua vacca.
Per metter via qualche soldo vendeva il vitello; vendeva pure i suoi conigli bianchi albini dagli occhi rossi.
La sua stalla era piena di porcellini d’India, di tutti colori e ogni tanto qualcuno finiva nella padella. La stalla serviva per tenere la vacca, i conigli, , i porcellini, qualche gallina, la sua tavola ( un banco da falegname sul quale lavorava qualche pezzo di legno e si faceva qualche attrezzo), una sedia con la seduta di paglia intrecciata, un ceppo, il mucchio del letame e il suo letto e pure una stufa, per scaldarsi e cucinare.
Piantava patate per ultimo e le toglieva quando poteva, alle volte alla fine di ottobre, faceva il fieno e pure un po’ di barbarià 2. Tuttavia quando si trattava di batterlo qualcuno lo aiutava.
Un suo terreno, vicino a casa, confinava con quello di mio padre. Qui aveva un bel frutteto con meli, pruni e piante di amarene e tutti ne approfittavano. Sapete che la frutta rubata è sempre la migliore!
Un anno, me lo ricordo bene, era venuta a trovarci mia zia con i miei cugini. Il più piccolo poteva avere tre o quattro anni. Era d’estate. L’Enrí se ne arrivò con una scodella in mano coperta da un pezzo di carta. Pensammo avesse portato qualche uovo da vendere. Mia madre gli acquistava sempre qualcosa. Beh, in quella scodella cosa c’era? Un bel rospo con una zampa legata a un cordino. « L’ho portato per i bambini, così giocano » ci disse. L’abbiamo ringraziato, sicuramente ma il rospo, una volta slegato, l’abbiamo lasciato andare nel ruscello che passa a fianco di casa mia.
Verso la fine della sua vita ebbe, poverello, un brutto colpo. Suo fratello ogni tanto tornava da Parigi a trovarlo e si fermava almeno una settimana e un altra da Piero.
Un anno, aveva appena divorziato dalla moglie, aveva dato all’Enrì un testamento con il quale lo lasciava erede della sua parte di casa e dei terreni che aveva avuto in eredità e che l’Enrì aveva sempre curato.
Cosa dire, quel buonuomo ha ringraziato suo fratello e poi , bisogna dirlo, suo fratello non aveva figli.
Un giorno giunse la notizia della morte del fratello. L’Enrì venne da me per chiedermi se potevo interessarmi alla successione.« D’accordo lo faccio volentieri» gli dissi.
Mentre stavo facendo le pratiche giunse dalla Francia un uomo che dal nome di famiglia era del nostro comune ma nato lassù. In somma, il Marius aveva redatto un altro testamento, più recente,col quale lasciava la sua parte a questa persona, figlio di una signora che lo aveva accudito nei suoi ultimi anni di vita.
Per l’Enrí vedersi portar via quel poco che utilizzava fu un vero disastro. Tuttavia nella vita bisogna ingoiare amaro e sputare dolce.
Da questo punto la vita di Enrí cambio molto.
Frattanto io partii per il servizio militare e quando tornai per qualche licenza, lo salutai e chiacchierai con lui brevemente. Sapevo che non stava bene ma null’altro.
Per le vacanze di Natale ebbi la la licenza detta ordinaria, di una decina di giorni. Si era a cena quando sentimmo bussare alla porta. Aprii la porta, era Enrí, pallido come uno straccio che ci chiedeva aiuto. Lo facemmo sedere vicino al camino, freddoloso si strofinava le mani gelate. Mia madre gli preparò un brodo caldo e poi l’accompagnammo a casa. Non aveva un pezzetto di legna da parte. Subito gli portai una carrettata di legna e gli accesi la stufa e il giorno dopo chiamammo il medico per farlo visitare. Ma la sua vita era alla fine. Non ci fu alcuna soluzione.
Dopo qualche giorno dovetti tornare in caserma e dopo poco lui se ne andò. Era il cinque di gennaio. Quando fu ora di dividere i suoi averi, tutti i parenti si fecero vivi per raccogliere quel poco che c’era. Lasciò anche i suoi sudati risparmi allo Stato, non fu infatti possibile ritirarli dalla posta poiché molti eredi abitavano in Francia, quasi tutti anziani, e per quel poco che c’era non avrebbero affrontato il viaggio.
Ora che le feste di Natale si avvicinano e tutti sono presi dagli acquisti, nello spendere e a pensare ai pranzi, ricordarsi di quel piccolo uomo che ha chiuso i suoi occhi proprio nei giorni in cui il sole riprende forza e le luci festose rallegrano i nostri villaggi, mi crea una grande pena. .
Dopo tutti questi anni che è stato sepolto tante cose sono cambiate, Nessuno vive ancora com’è vissuto lui, tribolando su poveri campicelli, tagliando l’erba con la falce, portando tutto sulla schiena, morendo in una stalla, vicino al mucchio di letame, dove per far arrivare il medico vicino al letto dovemmo stendere a terra delle assette. Tuttavia vi è ancora troppa povertà in questo mondo.
Quando vado al cimitero per vedere i miei cari, passo anche davanti alla sua tomba e dico una preghiera per un uomo che non ha avuto una grande fortuna. Guardo la sua fotografia e sembra che mi dica: « Dove sono sto bene ed è sempre Natale ».
1Bèna = cabaça/ çabaca = it. gerla
2Miscela di segale e frumento
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