Primo giorno di riprese. Da Sofia abbiamo raggiunto l’antica Preslav, prima capitale cristiana della Bulgaria. Eretta sul finire del IX secolo dallo zar Simeone a imitazione di Costantinopoli - la New York del tempo - oggi è un ammasso di rovine. Guardando verso l’orizzonte nella nebbia del primo mattino cerco un miraggio, provo a immaginare la vita di corte e lo scriptorium in cui prete Cosmà scrisse il trattato contro gli eretici Bogomìli. È per lui che siamo qui!
Ripasso gli appunti. Bogomìli perché seguaci del pope Bogomìl: significa “amico di Dio”. Predicava il Dualismo, cioè la separazione fra un Dio Buono e uno Maligno.
La Bulgaria si era cristianizzata da meno di un secolo, una conversione forzata imposta dallo zar Boris; l'ispirazione bizantina aveva introdotto costumi più rilassati rispetto alla precedente integrità pagana e barbarica.
La magia del miraggio svanisce davanti all’arditezza di certe ricostruzioni delle parti crollate. L’effetto è quello di un pugno nello stomaco. Un tratto delle antiche mura ricostruito con pietre nuove, bianche, perfettamente squadrate, copia conforme forse, ma non veritiera; suona stonato, cacofonico, interferisce e copre il colloquio fra me, la macchina da presa, sfera di cristallo, e il passato.
Da piccolo volevo fare l'archeologo. In fondo un po' archeologo lo sono anche in questo film, benché le tracce dei Bogomìli e dei Catari non siano da cercare sotto terra, ma piuttosto fra le carte. Sono queste le occasioni in cui vorrei la macchina da presa capace di fare trasparire l'invisibile, il passato nascosto, celato nelle pietre, disperso nell'aria, in un'alba o in un tramonto, nel fiume che scorre, nella quiete di un paesaggio.
Alla fine mi sono lasciato convincere. Già prima di partire per la Bulgaria, cercando di dare una forma, una linea narrativa coerente a questa storia senza luoghi e memorie concrete, dovendoci muovere solo in un universo di racconti e ricordi, ho dovuto fare i conti con la necessità di dare un’immagine concreta, registrabile e riproducibile che guidasse lo spettatore nella ricerca. Dopo molto esitare ho deciso di accogliere la suggestione di Elia e Andrea, i miei collaboratori più stretti, e mettermi in scena, guidare io in prima persona questa rappresentazione. In fondo parlo di me, parlo di mio padre, parlo di ciò che sino a oggi so. Quando sento il segnale di inizio registrazione, invece di entrare in una parte, sprofondo nelle mie riflessioni.
Fa molto freddo questa mattina, il sole non scalda e ogni superfice è madida di rugiada. Le mura posticce, come di cartapesta, i nastri bianchi e rossi da cantiere a delimitare quella che un tempo fu la basilica dalla cupola d’oro, le colonne ricostruite in plexiglass, i cartelli in inglese: forse anche questo carattere fasullo in realtà può comunicare qualcosa, forse proprio questa forzatura storica può raccontare la condanna all’oblio di chi ha percorso prima di me questi selciati. Forse è una metafora, è l’impossibilità di capire davvero a pieno e a fondo quello che non c’è più. Forse in fondo sono anch’io un Bogre, come diceva mio padre, e inseguo quello che non c’è più, sforzandomi di credere che un tempo tutto questo sia stato vero.
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