“Metto parole sopra un’aria lieta / graziosa e lieve, e le sgrosso e le piallo, / così saranno veritiere e certe / quando ci avrò passato su la raspa...”. È recente la notizia che la Regione Occitania ha deciso di lanciare come nuovo marchio di promozione della zona di Gaillac, nel dipartimento del Tarn, il nome di “Toscane Occitane”. Dopo la nostra delusione per la creazione di tale regione amministrativa – ufficialmente Région Occitanie-Pyrénées-Méditerranée –, ultimo colpo alla coscienza di un’ “Occitania” e risultato di un sogno infrantosi di fronte alla realtà che i suoi confini non coincidono né storicamente né tantomeno linguisticamente con ciò che viene definito territorio occitano, in ragione proprio della sua lingua, il fatto in questione pone problematiche ancora più “psicologiche”. Pare infatti che la neoregione, partorita dal ventre della madrepatria con il suo solito sguardo che non perde mai l’occasione di creare territori per quanto possibile sempre più indistinti, ma anche nel caso contrario, più centralizzati – per esempio, dove è finita la Guascogna? E il Limosino? Spariti, confusi fra le acque della neoregione Nouvelle Aquitanie –, soffra di una crisi d’identità. Niente di nuovo nell’Exagone. Ma questa iniziativa è quanto mai rivelatrice dello stato di minorità – questo sarebbe il vero l’elemento da analizzare e su cui lavorare – in cui vuole ostinatamente continuare a vivere la minoranza occitana. Uno stato che traspare perfino dal suo cuore, dalle terre di Gaillac.
“Fieramente ancorata alla sua storia, dotata di un’arte di vivere singolare e condivisa, con le sue città che hanno attraversato il tempo, i suoi vigneti generosi che producono nettari che deliziano chiunque, la Toscane Occitane non vi promette un mondo di meraviglie, ve lo offre!”. Un’idea “originale” – vedere bizzarra –, propagandistica, in fondo triste e priva di forza, di spirito, perché imitativa e referenziale, nel nobile tentativo di promuovere e valorizzare il proprio patrimonio, che testimonia il profondo e inscalfibile senso d’inferiorità di un popolo che la storia ha reso tale, ma che non riesce proprio ad alzare la testa. Come se, tolta la frase fatta iniziale, vaga e sovrapponibile un po’ a qualunque realtà simile, la regione di Séte – ovviamente per le sue divine ostriche che il mar mediterraneo rende più gustose ed il suo vento salino un’esperienza unica da godere – diventasse “la Bretagna del Sud”, per le sue spiagge bianche ed il suo splendido mare, la Sardegna “I caraibi d’Europa”, o in extremis, nella progressiva sisgregazione del loro tessuto sociale, per le loro montagne, ma soprattutto grazie alla polenta, anche le Valli Occitane riscattassero finalmente la propria identità e si presentassero come “Il Trentino Occitano”. Un’idea altrettanto malaugurata, tanto da divenire un caso istituzionale. Il presidente e l’assessore alle attività produttive e al turismo della Regione Toscana hanno dichiarato che “il furto d’identità è un reato”, definendo l’operazione “eccessiva e fuori luogo”, sottolineando come “se i francesi si spingono ad usare il nome della nostra terra per pubblicizzare una regione così importante significa che la Toscana vale davvero tanto, molto di più di quanto si possa credere” ed apostrofandola come una scelta “di indubbio pessimo gusto”. Essendo il progetto stato finanziato dall’Unione Europea, la Regione Toscana ha infine preso la cosa seriamente, presentando un’interrogazione alla Commissione Europea.
“Frame”, disconnessione, smarrimento, mancanza di una vera visione legata al proprio territorio, che non sia solo sorseggiare del buon vino fra città medievali e paesaggi collinari, esperienza che si potrebbe vivere anche in Provenza, in Spagna, in Grecia, in Germania o in Moldavia: colline, città medievali, buon vino... sempre naturalmente con “un’arte di vivere singolare e condivisa”. O direttamente in Toscana, così conosciuta ed apprezzata da tempo per i suoi paesaggi, le sue città, i suoi vini d’eccellenza e la cultura che ha saputo generare e propagare in buona parte del mondo. Anche la frase “fieramente ancorata alla sua storia” suona un po’ alla francese, sottile e propagandistica, una “bella frase”, inserita nel solito slogan “un’esperienza da vivere da soli, in famiglia o fra amici”. Davvero molto vago e “mainstream”, laisse tomber. Con quell’idea ottusa e fissa di guardare al patrimonio materiale, di considerarlo “facile” in quanto concreto, visibile, fruibile. Un patrimonio in fondo distruttibile, mutabile fino a cambiarne i connotati. Nondimeno, resta difficile immaginare che tutto questo patrimonio materiale – per la Toscana come per la regione di Gaillac – non sia il prodotto ed il risultato di un patrimonio immateriale unico, la cultura: di qualsiasi popolo, dalla yurta mongola ai tetti di lose o in paglia delle nostre valli, dal pesto ligure alla paella, alla seta. Qualcuno avrà pensato, messo mano alla cazzuola, raccolto erbe, prodotto o commerciato riso e pescato dei pesci, viaggiato e riportato in patria conoscenze. È il patrimonio immateriale, ciò che nasce dallo spirito dell’uomo, dal suo vivere, e crea un’identità, che andrebbe valorizzato, prima di cadere in una fantomatica, in quanto impossibile, pretesa ed inquietante “fluidità” che vuole tagliare radici e ponti e sfidare la natura, riuscendo solo ad allontanare, fino ad alienare, in modo informe, la società da sé stessa.
Nel 2008 si è svolto il progetto “L’Occitània a pè”, un viaggio di 1322 chilometri che ha portato sette camminatori ad attraversare l’Occitania intera, dalle Alpi ai Pirenei, per chiedere all’UNESCO che la lingua d’òc fosse iscritta al Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Lasciato l’altopiano del Larzac, superato il Mont Aigoal (il monte da cui provengono e che divide le acque) e valli strette e scoscese – il villagio di Valleraugue potrebbe essere tranquillamente uno “Stroppo Mediterraneo” – si è giunti a Minerve, Carcassone e alle Corbiéres. E poi i castelli catari, Foix, la Bigorre e infine Vielha, in Val d’aran: borghi medievali, castelli, paesaggi collinari, buon vino... in Occitania. “Sette camminatori nell’aria, la lingua per aratro” ci ha lasciato scritto su un bigliettino il poeta Michel Décor come augurio di buon cammino. Una frase densa di significato, alquanto lontana dalla scialba espressione inventata dalla Région Occitanie, inconsapevolmente più realista del re. Sono tante le suggestioni, le idee, i temi che potrebbero venire in mente in favore di una politica che guardasse con occhi limpidi al suo territorio, la regione di Gaillac, al centro di ciò che è stata la storia dell’Occitania, quella che tutti hanno studiato, ma purtroppo mai approfondito, e che giustamente lo stesso Presidente dell’amministrazione toscana, dimostrando, egli sì, conoscenza e rispetto, ha definito così importante.
“Metto parole sopra un’aria lieta / graziosa e lieve, e le sgrosso e le piallo, / così saranno veritiere e certe / quando ci avrò passato su la raspa...”. È ancora dalla linfa dei trovatori che si può ritrovare una strada, una nuova consapevolezza, un logos. Con le parole meravigliose di chi ha saputo dare alle terre d’Occitania un pensiero, un’identità, formare e restituire una comunità ancor oggi esistente, sebbene in pericolo, creando un dialogo e un ponte con il nostro tempo. Semplicemente, esprimendo liberamente il proprio sentimento e pensiero. “...ché Amore prontamente spiana e indora / il mio canto, che muove da colei / cui Pregio fa sostegno e tiene in rotta.”. “Pregio” e “Amore”, in maiuscolo. Parole che Dante, toscano d’eccellenza e “vate”, sapiente e maestro , ha saputo interpretare. Purtroppo, al contrario, le parole di questo “brand”, ormai scritte, incancellabili, sintomatiche di chi vorrebbe togliere i piedi dall’erba che stanno calpestando e forse in fondo si vorrebbe un altro – caso assolutamente da psicoanalizzare – rappresentano un triste e vile modo di manifestare l’amore per la propria terra da parte di un’istituzione ed una società che non sembra avere la forza ed il coraggio di guardare al proprio passato per stare nel presente, a partire dalla filosofia dalla quale è scaturita la preghiera dei catari e il canto dei trovatori, che certamente in questo non hanno avuto timore, né paura.
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