Armin Chiocchetti, giovane linguista e contadino per passione, è l’autore del libro »L Segnor de Dolèda e autre contìe« (Il Signore di Dolèda e altri racconti) pubblicato dall’Union di Ladins e dal Grop da Moena, insieme con l’Istitut Cultural.
Mātṛbhāṣā khud nahīm
marī thī
Use mārā gayā thā
A natural death it was not,
The mother tongue was slain
Na mort naturala no l’é stat,
la mare lenga i l’à copada
(Jacinta Kerketta, Death of the mother tongue)
Armin Chiocchetti è un giovane di 28 anni di Moena, anzi precisamente di Forno, che ormai da circa 10 anni risiede in Svezia. Si era recato in questo paese del Nord Europa per fare l’anno all’estero quando frequentva il Liceo in Fassa, e poi ha deciso di iscriversi all’Università di Uppsala per studiare linguistica e hindi. Dopo la laurea e il master ha ottenuto un dottorato di ricerca e si sta occupando della letteratura hindi.
Da poco è apparso “L Segnor de Dolèda ed altri racconti”, un libro scritto in ladino moenese e pubblicato nella collana “L Dragonzel” edita dall’Union di Ladins de Fascia e dall’Istitut Cultural Ladin. Una raccolta di scritti caratterizzata dal significato profondo e dal lessico assai curato, che dimostra una capacità nel dare spessore psicologico ai protagonisti e uno sguardo accorto, a tratti malinconico e pessimista, davvero sorprendente in un autore così giovane. Per saperne di più l’abbiamo contattato in Svezia, dove in questo periodo il buio regna sovrano.
Armin, come mai hai deciso di scrivere un libro di racconti in ladino?
Ho cominciato due o tre anni fa con il racconto “L Segnor de Dolèda”. Stavo scrivendo la tesi di linguistica sull’evoluzione fonetica del ladino fassano ed ascoltavo i materiali audio disponibili sulla Mediateca Ladina, nella sezione “Oujes” [voci], in particolare le testimonianze di Giòchele Stochier. Mi aveva colpito parecchio la parte dove Giòchele narra di quel vecchio che saliva sull’altura di Dolèda per cercare il mitico castello. Lo racconta in un modo molto bello, allorché lui stesso arriva sul luogo e vedendo questo anziano gli chiede: “Cosa stai facendo?” e l’altro gli risponde “Faccio il Signore di Dolèda!...”. Questo mi ha ispirato a scrivere il primo racconto. Poi ne ho scritto altri e mio padre mi ha detto che avrei potuto raccoglierli in un volumetto, così ne ho scritto ancora per avere più materiale.
All’inizio del racconto del “Segnor de Dolèda” c’è una citazione che sembra contrapporre il castello con la funivia: da dove viene?
[NB: sull’altura di Dolàda oggi si erge un pilone della nuova funivia Alba-Col di Rosc, scelta che alcuni hanno fortemente criticato]
Viene da una poesia che avevo scritto in quegli anni, ma poi non ne avevo mai fatto nulla. È qualcosa di distinto dal racconto, ma mi sembrava che potesse andare bene con questo racconto…
In apertura del libro invece c’è un’altra citazione, in hindi, inglese e ladino: ce la puoi spiegare?
Sono versi di una poetessa indiana, Jacinta Kerketta, che riguardano la morte della madrelingua. Dice ciò che penso anch’io, poiché tutto dipende da noi. Non si può parlare di morte naturale di una lingua, perché uno sceglie come parlare e se una lingua muore è perché le persone non la parlano più.
Nel libro usi un ladino molto bello e ricco, come sei riuscito a coltivarlo?
Per me scrivere nella parlata di Moena è naturale, mentre lo standard lo leggo ma non mi metterei mai a usarlo nella scrittura. Però, per quanto riguarda il lessico, mi chiedo spesso quale parola potrebbe andar meglio e allora vado anche a consultare i dizionari, non solo quello del moenese, ma anche gli altri, che sono più ricchi di vocaboli.
Tuo padre è stato per 40 anni direttore dell’ICL: che ruolo ha avuto nella tua concezione della realtà e della lingua ladina?
Sicuramente ha avuto una grande influenza, tutta la riflessione metalinguistica e metaculturale non sarebbe venuta da sé…
Nel libro ci sono espressioni relative al lavoro contadino e ai vecchi mestieri che dimostrano una buona conoscenza di quegli ambienti e anche della toponomastica… È strano per un giovane che vive in Svezia…
Quanto ai toponimi è una lunga storia, poiché quando avevo ancora 13 o 14 anni insieme con una persona di Forno volevo fare una carta del territorio e inserirvi tutti i toponimi della Valsorda, e per questo avevo cominciato a visitare di frequente gli anziani per farmi dire i nomi dei luoghi. Dopo la pubblicazione del Dizionario Toponimastico di Fassa [ed. ICL 2008], avevo scritto anche un articolo apparso su “Mondo Ladino”, con correzioni e rettifiche… Sì, la toponomastica è qualcosa che ho sempre coltivato, ed anche per il lavoro contadino ho sempre avuto una certa passione. Fin da bambino mi piaceva molto fare il fieno. C’era un contadino con cui avevo fatto amicizia e che mi ha trasmesso questa passione. Ancora adesso quando torno in valle in estate vado a fare il fieno. Lui non era molto vecchio, ma è morto presto… Poi andavo dagli anziani a farmi raccontare, e quando rientravo a casa la prima cosa che facevo era andarli a trovare, ma adesso molti non ci sono più.
Da dove hai ricavato i tratti psicologici dei protagonisti dei racconti, che dipingi così bene?
Eh già, ce n’è più d’uno di questi personaggi ispirati a gente che ho conosciuto, ma non ho messo il nome vero: sono tutti nomi di fantasia, tranne quello di Giòchele.
Dal libro esce parecchio il concetto del tempo che passa, mentre di solito i giovani vivono il momento; inoltre esce anche una visione un po’ pessimistica su come viene trattata la cultura e la lingua. Come mai?
Forse proprio perché ho sempre avuto questi contatti con persone anziane. Quanto ero un ragazzino credevo che ci fossero sempre stati, invece adesso molti sono morti, così uno si rende conto del tempo che passa. Quanto alla visione pessimistica ritengo che vediamo tutti che non c’è una grande amore per la cultura, non è una novità.
Pensi che ciò accada solo qui o è dappertutto uguale?
Forse è così un po’ dappertutto, ma io lo vedo più nella mia valle, perché mi sta più a cuore.
Dopo questo primo libro pensi di continuare a scrivere?
Scrivere mi piace, e dopo aver scritto un po’ uno acquista anche maggior sicurezza. Pensare di scrivere mi darebbe più piacere adesso che non le prime volte, anche se non sempre sono contento di quello che scrivo. Però ora mi manca il tempo.
Dunque aspettiamo che esca il secondo libro?
Se disponete di molta pazienza…
Ringraziamo Armin Chiocchetti per il dono che ha fatto alla comunità di Moena e di Fassa con i suoi racconti e ricordiamo che il libro si può acquistare presso la sede dell’Union di Ladins e (anche online) presso l’Istituto Ladino di San Giovanni, e che verrà dato gratuitamente a tutti gli abbonati alla rivista ”Nosha Jent”.
(intervista di Lucia Gross, per “La Usc di Ladins”, 4.12.2020; per gentile concessione)
commenta