La scelta di tradurre alcune novelle del Boccaccio è stata, per così dire, casuale; ho trovato in "Le minoranze linguistiche in Italia" di Tullio Telmon, Alessandria, 1992, una notizia interessante: già nel '500 era stata pubblicata da Leonardo Salviati, accademico della Crusca, una collezione di traduzioni dialettali della novella nona della prima giornata del Decameron; ed un'altra, di ben 703 dialetti, è stata pubblicata da Giovanni Papanti nel 1875.
A questo punto mi sono detta: se è stato possibile tradurre una novella del Boccaccio in molti dialetti, perché non tradurne qualcuna anche nella mia parlata occitana?
Avevo già tradotto in occitano, prima di cimentarmi con Boccaccio, "Le Petit Prince" di Saint-Exupéry, e "Le avventure di Pinocchio" di Collodi; ma la decisione di provare a tradurre qualche novella del Decameron è stata, più che per i testi sopracitati, una sorta di sfida: ho voluto saggiare le possibilità espressive della mia parlata in rapporto ad un testo complesso dal punto di vista sintattico, e, immaginavo io prima di affrontarlo, difficile da tradurre dal punto di vista lessicale, perché lontano dall'ambiente semplice e di vita quotidiana che la mia parlata interpreta.
La mia traduzione si è articolata in questo modo: lettura accurata e ripetuta del testo boccacciano, talora col soccorso del Dizionario del Battaglia, per i termini non più in uso attualmente.
Traduzione di getto, come se raccontarsi la novella durante la veglia nella stalla di mio nonno.
Naturalmente, anche in una traduzione che voglia essere un racconto scorrevole, c'è la necessità di fermarsi a valutare il termine o il modo di dire più appropriato, e magari anche di rivedere gli elementi grammaticali della lingua ricevente.
È risaputo che, nelle nostre parlate, i gerundi, le infinitive, la subordinazione di una o più proposizioni ad una reggente - cioè il periodare ipotattico - hanno un uso molto limitato, mentre tali costruzioni sono tipiche della prosa del Boccaccio.
Ho dunque scelto - o forse è la lingua ricevente che mi ha guidata - di frazionare i lunghi e complessi periodi boccacciani in periodi più brevi, usando la costruzione paratattica - accostamento di proposizioni coordinate - , e usando anche, ovviamente, le subordinate rette da congiunzioni, avverbi, preposizioni.
Certo è che la grande differenza di sintassi tra le due lingue ha comportato una variazione del ritmo narrativo.
Per quanto concerne le scelte del lessico: la mia parlata è legata al quotidiano, cioè al lavoro, alla vita familiare, ai rapporti sociali, ed ha, in questo ambito, tutto il lessico di cui ha bisogno. Ma per quanto riguarda i termini astratti è piuttosto limitata; non solo: non possiede, come è facilmente comprensibile, il lessico relativo a usi, costumi, professioni di altri ambienti sociali, oltre tutto lontani nel tempo.
Per prima cosa ho consultato i dizionari delle parlate della mia valle e delle valli viciniori, in cui ho trovato termini (che io non conoscevo) sorprendentemente calzanti; di questo sono grata agli Autori: Pons-Genre, Baccon, Perron, Masset, Baret, Bernard.
In seguito ho fatto ricorso a "Lou Tresor dóu Felibrige" di Frédéric Mistral, il quale Autore, con la ricca trascrizione di termini e di modi di dire tratti dalle varianti delle lingue d'Oc, mi ha dato la possibilità di trovare il termine più appropriato.
Affinché tale termine si inserisse a pieno titolo nella mia parlata, e risultasse comprensibile ai miei eventuali lettori, è stato scelto in ragione della sua appartenenza al campo semantico che è patrimonio dei locutori in occitano.
Inoltre, tale termine è stato sottoposto ad un "adattamento fonetico" , (questa è l'espressione usata dai linguisti), affinché i fruitori lo possano riconoscere come appartenente alla loro parlata.
Per quanto riguarda la scelta delle novelle, ho privilegiato quelle che hanno come tema motti arguti, inganni, beffe, burle, casi fortuiti, più una che tratta di un amore tragico, e alcune altre che trattano di amori ingannatori o venali.
Per concludere, propongo una breve riflessione sulle nostre parlate: intendo quelle delle Valli occitane del Piemonte occidentale e le varietà occitane d'Oltr'Alpe: hanno tutte la stessa nobile origine, derivando dal latino; e noi, locutori di una di esse, sappiamo (e constatiamo ogni volta che le usiamo) che, i numerosi elementi comuni che esse hanno, ci consentono una comprensione reciproca.
Quando noi valligiani ci serviamo di tali parlate per "baŗjaquiâ" tra di noi, o magari anche con i nostri cugini d'Oltr'Alpe, forse non ci ricordiamo che la nostra è una lingua antica che, anche nelle nostre Valli, e precisamente nelle Valli Valdesi ha lasciato, fin dal medioevo, delle testimonianze letterarie importanti: - cito fra tutte "La Nobla Leiçon", Poemetto medioevale valdese, redatto nella seconda metà del XV secolo - , e traduzioni di testi sacri, cui noi possiamo accedere grazie alla conoscenza delle nostre parlate, (quasi) senza l'ausilio di glossari.
La nostra lingua ci è anche di supporto nella comprensione della poesia dei "troubadours" e delle "trobairitz", espressa nelle lingue occitane d'Oltr'Alpe, fin dall' XI secolo.
Mi piace qui ricordare una delle più antiche testimonianze di un testo - un frammento - in lingua occitana: si tratta di un manoscritto redatto verso l'anno 880, che contiene un breve poemetto in latino - 15 versi - con relativa notazione musicale, il cui ritornello è in occitano.
Antiche dunque, e di nobile origine, le nostre parlate.
E tra queste c'è anche la mia, che viene dalla "Viérë d'Ouls", e a cui ho affidato, con grande coinvolgimento emotivo, la mia traduzione "d' inë vintéinë ëd counte ëd Boccaccio.
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