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Per i nostri monti - Luca Martin Poetto

Per nòstri brics

di Peyre Anglilante

italiano

Al tramonto, quando la luce cala, si prende il sentiero che esce dalla borgata e sale un pezzetto, appena fino al tornante, dove c’è il pilone, e a una piccola altura da dove, sul tappeto verde della foresta, si vedono le coste e le creste dell’inverso que si congiungono sulla punta del monte Albergian. Il cielo è rosso e la montagna si staglia, immobile. La notte è già scesa e bisogna tornare a casa. Da un po’ di tempo la notte è davvero buia e oggi non ho parlato con nessuno, tolto la stufa, soltanto il rumore delle due o tre macchine che si sono parcheggiate all’inizio della borgata sembrava il pianto di un bambino. Non fa nulla, sono di qui. Ridendo davanti al pianto, non si teme nessuno... Nell’ambiente in continuo cambiamento e sempre più fragile delle nostre valli, in questi anni, ciò nonostante non poche persone hanno continuato a restare, ad amare e a interessarsi al proprio patrimonio naturale e culturale. C’è anche chi è tornato, ha ritrovato le sue radici, e ha iniziato a parlare e perfino a scrivere nella sua lingua. È il caso di Luca Martin Poetto.

Al tramonto

quando arriva l’imbrunire,

se si allunga l’ombra

dietro la schiena

significa che si va verso il sole.

Se è vero che si nasce

tra lamenti piangendo,

ma con la gioia attorno;

il mio obbiettivo sarà di aver vissuto

in maniera di morire ridendo,

circondato dal pianto.

Sapete, le stelle si vedono meglio;

quando la luce si lascia sopraffare.

Nonostrante la notte sia scura,

senza rancore

non si teme nessuno.

Ogni essere umano, quando nasce, si ritrova in una culla, circondato da un clima, immerso in un mare. Gli occhi si aprono e iniziano a guardare attorno, le mani a tastare la materia, le orecchie a udire dei rumori e dei suoni e ad ascoltare voci delle voci che sovente si rivolgono ad esse. E quando i piedi iniziano a pestare il terreno, inizia l’avventura. L’ambiente, il paesaggio plasmano la percezione, la visione e quindi il modo di essere, di comportarsi di fronte alla realtà. A volte cullati, altre scossi o feriti dalla tormenta. I ogni luogo, ogni paese c’è un’aira differente, un profumo che foggia. E si sente, percepisce quell’aria, che si calda o pungente, umida o secca, che il tempo sia scuro o sereno. Nella culla si apre un mondo, una sensazione che qui, da noi, uno si porta, si carica, si trascina guardando le nostre creste, andando per i nostri monti.

I pastori dei tempi nuovi

conducono greggi novizie

ma lo fanno sciando

e all’alpeggio ci vanno d’inverno.

Le vecchie stalle ora ristoranti

in cui i maiali mangiano le loro ghiande.

Preferisco l’olezzo delle acque di scolo

che il buon odore

della colonia del colonizzatore

che provenga da monte come da valle.

E così, quando si sente odore di colonizzazione, da qualunque parte venga, bisogna pararsi, salvarsi, se olttre a ciò a un buon profumo. Non è facile respirare tutti i giorni l’odore del fieno e del letame, quando ci sono altri buoni sentori. Ai pastori dei nuovi tempi non piace l’olezzo delle acque di scolo. Ciò malgrando, qualcuno ancora manifesta la sua volontà di vivere nel suo clima, non farsi trasportare dal vento e tenere le radici ben profonde nella terra. Come dice nella presentazione Matteo Rivoira, professore di dialettologia all’Università di Torino, “Le poesie di Luca Martin Poetto si inseriscono senza difficoltà nel solco della tradizione letteraria occitana cisalpina. Egli ne riprende i temi e le linee di sviluppo e, tra questi, l’inevitabile evocazione della montagna...Estremità superiore di un’opposizione tra l’alto e il basso, tra le cime e la pianura, che innerva e sostanzia la produzione poetica di queste valli, perché è la stessa opposizione che attraversa la loro storia, soprattutto quella più recente”. Sullo sfondo, continua nel suo pensiero, “Sullo sfondo il crinale dei monti, che lungi dall’essere un confine invalicabile, è luogo di passaggio...”. Accanto a ciò, il sentimento che inevitabilmente prova il poeta di fronte alle sue montagne, con un’aria da trovatore.

Seta nera i tuoi capelli,

come i fazzoletti dei nostri costumi,

sono sparsi sul cuscino di buon mattino.

Donna delle mie montagne,

porgimi la tua mano, che lassù,

all’ora del crepuscolo,

godremo ancora del sole;

mentre tutto il mondo sarà ingoiato nell’ombra.

L’amore è un tema che ritorna nella poetica dell’autore, tornato su in Val Chisone nel villaggio della sua famiglia dopo un primo tempo vissuto a Torino, il quale ha appreso l’occitano dai nonni e dalla gente del luogo. Le ragazze, “portatrici di un sentimento sottile / che fa percepire la primavera”, viste come bagliori nella sera, come il ventre delle lucciole che accendono dentro. Il piacere, oltre che il modo, assai trobadorico nel cantare la gioia della propria ispirazione. “C’è tanto piacere nel comporre”, inizia una poesia. Il dolore nel vedere l’uomo “perdere la terra / e la montagna ridursi a gerbido assieme / al cuore della sua gente” e scendere sempre più in fretta il crepuscolo è alleviato dal coraggio e la speranza che la luce torni a splendere sui volti, le alture e i monti del suo paese. Ascoltando le storie del vissuto, respirando quell’aria. Un amore che si esprime anche in un sano naturale, vero patriottismo: “Le lacrime dalla guancia / cadono su questa mulattiera ripida / vivere qui è una colpa? / Figli della terra alta: / sapete come può essere bassa. / Voi andrete a valle come fa il nostro Chisone / che scende senza mai lasciare il suo posto. Fate attenzione che la sorgente rimane lassù”. Non bisogna abbassare lo sguardo, ma non possiamo fare altrimenti. siao quassù. È questa la nostra casa.

Lampi nel cielo

fanno della notte giorno

senza che ci sia il sole.

L’attesa del rimbombo

ma nulla;

nessun tuono.

Inquieto nell’animo

per un tentennamento della volta celeste

che si arresta in aria,

appena prima di cadere.

Talvolta uno pensa alle case restate al freddo, alle intere borgate in rovina, o a quelle del tutto cambiate e divenute eleganti luoghi turistici per sollazzarsi e guardare il paesaggio. Manca la slitta, la stalla, la vecchia stufa, la vita, gli odori e i canti che si udivano nelle osterie e le feste, così come le preghiere, la fiducia e la fede che caratterizzava la società di un tempo. Lampi nel cielo della notte giorno. E così, da un profondo sentimento, nasce una poesia. Forse è solo un sogno, ma che, in uno spirito di gioia, meraviglai e ricerca interiore, come è accaduto ormai quasi mille anni fa, varrebbe la pena di rivivere su nostri monti. Con il suono affascinante della ghironda, del violino, o di una fisarmonica, cantare l’amore per la nostra terra, la nostra gente e questo mondo che ci lascia sempre senza parole. Cercare qualcosa anche là dove non cè. Farsi trovatori per comunque trovare qualcosa.

Siamo sempre gli stessi

ma lo specchio cambia il volto,

sognamo di andarcene senza mai

sapere dove.

Il mondo ci lascia sempre senza parole,

per questo ci si fa trovatori:

per cercare qualcosa

anche là dove non c’è.

Un chiarore incomincia a irradiare. I prati sembrano verdi e vermigli come il dolce tempo di maggio, l’inverno le calende di maggio. La neve riluce e fa brillare il cielo al punto che il tempo sembra più caldo, se si chiudono gli occhi e si annusa l’aria. Ma non è chiudendo gli occhi che si vede splendere il sole. C’è un altra via, quando gli alberi iniziano a colorire, quando la neve ricopre le cime e le coste. Accorgersi che la felicità ci viene anche dal nostro paesaggio. Mettersi lì, davanti a un monte, a guardare le foglie che cadono e il profilo delle montagne, e ascoltare il vento che soffia. Un suono che, nel suo impeto, la sua pungenza, come una bourrèe, a volte sembra il canto di un trovatore.

Ora non vedo più splendere il sole,

tanto per me si oscurano i raggi,

ma non crediate che ciò mi scoraggi,

perché una luce d’amore m’inonda

come un sole, che dentro mi irraggia,

e quando l’altra gente mi scoraggia,

io invece mi rianimo e mi esalto,

non mi sconforto, non svilisco il canto.



I prati verdi tinti di vermiglio

mi pare di vedere come a maggio,

grazie all’amore che mi fa contento.

la neve è un fiore candido e vermiglio,

non è più inverno, ma calendimaggio,

perché la più gentile e più gioiosa,

il suo amore ha promesso di accordarmi,

sempre che poi non me lo disaccordi.



Bernard de Ventadorn

https://www.youtube.com/watch?v=enEGgZnoBtQ

occitan

Al tramont, quora la lutz baissa, un pren lo viòl que salh da la ruaa e monta una peceta, just fins al vòut, ente lhi a lo pilon, e a un pichòt truc d’ente, sal tapís vèrd de la forèsta, se veon las còstas e lhi crèsts de l’ubac que se jónhon sus la poncha de l’Alberjan. Lo cèl es rossenc e la montanha se destacha, immòbila. Boquò la nuech es já tombaa e chal tornar a maison. Da un pauc de temp la nuech es da bòn sombra e encuei ai pas devisat abo degun, gavat l’estua, ren que lo brui de las doas o tres veituras que se son parquejaas al començament de la ruaa semelhava lo plor de una mainaa. Fai pas ren, siu d’aicí. En rient derant al plor, un crenh pas ren... Dins l’ambient en contun chambiament e de mai en mai fràgil de nòstras Valadas, dins aquesti ans, pas mal de gent totun a continuat a restar, a amar e a s’interessar a son patrimòni natural e cultural. Lhi a decò qui es tornat, a retrobat sas raïtz, e a començat a devisar e mesme escriure dins sa lenga. Es lo cas de Luca Martin Poetto.

Al calabrun

ariba la bass’ora,

s’ilh s’eilonja l’ombra

derrèire l’eichina

la vòl dire qu’un marcha vèrs lo solelh.

Si l’es vèr que la se nais

entre planhs en plorent,

abo la jòi tot a l’aviron;

mon but sarè d’aguer viscut

en manièra de muorir en rient,

environat dal plor.

Sabatz, las eitièlas la se vean melh:

quand lo lum s’aclina.

Mesme si la nuèit siai sombra,

sença rancura

un crenh pas nun.

Chasque èsser uman, quora nais, se tròba dins una cuna, entornat da un clima, plonjat dins una mar. Lhi uelhs se duerbon e començon a se beicar a la viron, las mans a tastonear la matèria, las aurelhas a auvir de bruis e de sòn e a escotar de vòutz que sovent s’adreçon decò a elas. E quora lhi pè tacon a pistar un terren, comença l’aventura. L’ambient, lo païsatge plasmon la percepcion, la vision e donca lo biais d’essèr, de comportar-se derant a la realitat. De bòts cunats, d’autri truchats, sagalhats o blessats da la tormenta. Dins chasque luec, chasque païs lhi a un aire diferent, un perfum que faiçona. E un sent, aperceu aquel aire, que sie chaud o ponhent, úmid o sech, que lo temp sie borre o esclent. Dins lo brèç se duerb un mond. Una sensacion que aicí, en cò nòstre, un se pòrta, se charja, se charrea en beicant nòstri crèsts, en anant per nòstri brics.

Lhi pastres dals novèlis temps

ilhs endraion novèlis tropeaus

mas ilhs zo fan en s’eicarussent

e a l’alp ilhs lhi van d’uvèrn.

Los velhis tèits aüra de bonis restorants

dont los corrins malhon sos aglants.

Astimo mai la flaira dal boval

que la bona sentor

de la colonia dal colonisator

qu’al siai d’amont o d’aval.

E parelh, quora un sent la flaira de colonisacion, d’ont que vene, chal parar-se, gandir-se, se en mai d’aquò sent de bòn. Es pas fàcil respirar tuchi lhi jorns lo flat dal fen e de la druja, quora lhi a d’autras bònas sentors. Ai pastres di novèls temps agrada pas la flaira dal boval. Malgrat aquò, qualqu’un encara manifèsta sa volontat de viure dins son clima, pas se far menar da l’aura e tenir las raïtz ben fonas dins la tèrra. Coma ditz dins la presentacion Matteo Rivoira, professor de dialectologia a l’Universitat de Turin , “Las poesias de Luca Martin Poet la se pòlon betar sença problèma dins la rea de la tradicion literària occitana de las Valadas. El nen reprend las tematicas e las linhas de desvelopament e, per moien d’aiçòn, l’inevitabla evocacion de la montanha... Caira sobeirana d’una opausicion entre aut e bas, al mièi de las cimas e la plana, qu’ilh noiris la producion poetica d’aicèstas valadas, perquè es la mesma oposicion que traversia son istòria, sobretot aquela mai pròcha”. En fons, contínua dins sa pensaa, “En fons la lh’a las crests dals monts, que al contrari d’èsser una bòina, ilhs son es luòc de passatge...”. Da cant an aquò, lo sentiment que inevitablament pròva lo poèta derant a sas montanhas, abo un aire da trobador.

Sea nièra tos pièls, coma

los mochaors dals nòstres costumes,

ilhs sion deivelits sul cuissin de bon matin.

Fèmna de mas montanhas,

para-mè ta man, qu’eiqui-aut,

quand la sarè bass’ora,

nos rejoissarem enc’a dal solelh;

embé que tot lo mond sarè avalat dins l’ombra.

L’amor es un tèma que retorna dins la poètica de l’autor, tornat amont en Val Cluson dins lo vilatge de sa familha après un premier temp viscut a Turin, que a emprés l’occitan da si ieis e da la gent dal pòst. Las mendias, “portaüras d’un sentiment prim / que fai ja apercebre l’uprim”, vistas coma de lusors dins lo vèspre, coma lo ventre de las lusèrnas que aviscon dedins. Lo plaser, en mai que lo biais, pro trobadorenc dins lo chantar la jòi de son inspiracion. “Lh’a tant jòi dil trobar”, comença una poesia. La dolor ental veire l’òme “perdre la tèrra / e la montanha gerpir ensemp / als cuers de sas gents” e calar sempre pus fito la bass’ora es apasiaa dal coratge e l’esperança que la lutz torne resplénder sus las charas, lhi morres e lhi brics de son país. En escotant las estòrias dal viscut, en respirant aquel aire. Un amor que s’exprim decò dins un san, natural, verai patriotisme: “Las eigruemas de la jauta / las chaion sus cèsta draia rauta / viure icí es-la una fauta? / Filhs de la tèrra auta: / vos sabatz coma la pòl ésser bassa. / Vos anatz arrés aval coma al fai nòstre Cluson / qui descent sènça quitar sa plaça. / Fasatz à ment que la font la sobra iquì-amont”. Chal pas baissar l’esgard, mas polem pas far autrament, siem aicí amont. Es aquesta nòstra maison.

Eilucés dins al ciel

fan de las nuèit jorn

sènça que li siai’l solelh.

Un sobra agachent

l’eicraban, ma ren;

gis de tron.

Tracaçat dins l’esperit

pr’un trantalh de la vauta celèsta

que din l’aire

ilh s’arrèsta,

drèita drant chaire.

De bòts un pensa a la maisons que son restaas al freid, a las entieras ruaas abandonaas en roïna, o an aquelas dal tot chambiaas e devenguas d’elegantas lueias torísticas per se far plaser e agachar lo païsatge. Manca la lieia, la vòuta, lo potatgier, la vita, lhi odors e lhi chants que un auvia dins lhi òste e a las fèstas, parelh coma las preieras, la confiança e la fè que caracterizava la societat de un bòt. D’eslucis ental cèl fan de la nuech jorn. E coma aquò, da un profond sentiment, nais una poesia. Benlèu es masque un sumi, mas que, dins un esperit de jai, meravelha e recèrcha interiora, coma s’es passat de bèl avant esquasi mila ans fa, valeria lo còp tornar viure sus nòstri brics. Abo lo sòn encharmant de la viola, dal violon, o de un armòni, chantar l’amor per nòstra tèrra, nòstra gent e aqueste mond que totdia nos laissa sensa mots. Cerchar qualquaren bèla ente lhi a pas ren. Se far trobador per totun trobar qualquaren.

Nos siem totstemps los mesmes

ma dins lo miralh la chanja ‘l morre,

nos suèimem d’anar via luènh sença jamai

saber d’ont.

Totjorns lo mond nos laissa sença motz,

per çò que nos se fasem trobadors:

per cerchar qualquaren

bèle dont la lh’a pas ren.

Una clartat comença a ensolelhar. Lhi prats semelhon vèrds e vermelhs coma lo dòuç temp de mai, l’uvèrn calenda maya. La neu relui e fai brilhar lo cèl a la mira que lo temp semelha pus chaud, se un sarra lhi uelhs e funa l’aire. Mas es pas masque en sarrant lhi uelhs que un ve lusir lo solelh. Lhi a un’autra draia, quora lhi àrbol tacon a colorir, quora la neu coata las cimas e las còstas. S’avisar que lo bonaür nos ven decò da nòstre païsatge. Butar-se aquí, derant a un bric, a beicar las fuelhas que cheion e lo profil de las montanhas, e escotar l’aura que subla. Un sòn que, dins son vam, sa ponhença, coma una borrea, de bòts pareis lo chant d’un trobador.

Ara no vei luzir solelh,

Tan me son escurzit li rai;

e ges per aisso no-m esmai

c’una clardatz me solelha

d’amor, q’’ins el cor me raya;

e can autra gen s’esmaya,

eu melhur enans que sordei,

per que mos chans no sordeja.


Prat me semblon vert e vermelh

aissi com el doutz tems de mai;

si-m te fin’amors conhd’e gai:

neus m’es flors blanch’e vermelha

et iverns calenda maya,

que-l genser a la plus gaya

m’a promes que s’amor m’autrei,

s’aquer no la-m desautreya.


Bernard de Ventadorn