Pare che La Divina Commedia non smetta di stupire. Che, per la simbolicità degli eventi narrati, o la sublime capacità e conoscenza del suo autore, come una sorgente generosa e inesauribile, continui a calmare la sete dell’uomo. Come un gioco del destino, poi, è naturale che fra i tre regni visitati, o dimensioni, sia l’inferno il protagonista. Infatti, è di recente pubblicazione il volume “Lou viage – L’inferno di Dante in occitano”, edito da Primalpe, nella traduzione di Valter Giordano, studioso e appassionato di Dante originario della Valle Stura.
“Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura, / ché la diritta via era smarrita.” Capolavoro della letteratura (v’è chi direbbe ineguagliato) di profondissima concezione, la Divina Commedia fu scritta da Dante Alighieri, probabilmente fra il 1307 e il 1321, anno della sua morte. L’opera, come è noto, narra del viaggio immaginario compiuto simbolicamente nell’anno 1300 da egli stesso attraverso l’inferno, il purgatorio e il paradiso. Ma il suo percorso letterario non è terminato. Dopo secoli di traduzioni in molte lingue – nell’ambito di lingua d’oc quella in provenzale di Jean Roche nel 1967 – l’imponente opera del sommo poeta si è posata sulla scrivania di un uomo che, appassionato di essa (pare succeda a molti, da verificare gli studenti adolescenti), ne ha tentato la traduzione. Nella lingua che ha sempre parlato in famiglia, alla sua maniera, o meglio “a nòstra mòda”, alla nostra maniera (ma anche “nella nostra lingua”), come si diceva per definire l’idioma impiegato abitualmente nella vita sociale e familiare della valle in cui è nato.
Il lavoro di traduzione nasce innanzitutto dall’antica passione dell’autore per questo affascinante poema. Scrive Giordano, nella presentazione dal volume: “Ho iniziato a tradurre questi 34 canti, partendo da quelli che amavo di più: non mi ero ancora riproposto di tradurli tutti. La vita poi mi ha riportato ad ‘Itaca’…”, la casa dei suoi genitori, dove ha proseguito il lavoro, riuscendo a completare la traduzione dell’intera cantica. “Perché cotanto in noi ti specchi?”, chiede a Dante un dannato conficcato nel lago ghiacciato al fondo dell’inferno. Scrive Giordano: “In una fase ‘invernale’ della mia vita mi sono comportato come un qualsiasi albero non sempreverde. Le foglie erano volate via; non era il caso di rimpiagerle, dovendo affrontare la neve e il vento freddo”. Quando un individuo (o una società) entra in crisi, per guarire, per poter analizzare sé stesso ritorna sempre alle proprie origini, ai valori, alle basi. Così egli, per indagare, riconoscere ed affrontare il male nel suo cuore si è affidato “alle radici e ai rami”, che nel tempo si sono nutriti di linfa e oggi danno il buon frutto del loro faticoso percorso di rinascita.
La traduzione, molto personale nell’interpretazione dell’originale, schietta e scorrevole alla lettura e senza pretese letterarie, in quanto espressamente e volontariamente popolare, è accompagnata dal testo a fronte, gentile regalo al lettore che voglia consultarlo nel caso in cui, avendo poca dimestichezza con la lingua d’oc, si ritenga più a proprio agio con il colto fiorentino trecentesco del divin poeta. Molto interessante dal punto di vista linguistico, lo splendido dialetto della frazione Podio Sottano di Vinadio, in Valle Stura, anch’esso, come il poema di Dante, fonte generosa di termini ed espressioni, testimoni tanto della varietà quanto dell’unità della lingua d’oc, che il grande poeta italiano ebbe il merito di argomentare ed ufficializzare nel trattato De vulgari eloquentia. Un ulteriore regalo è il piccolo glossario dei termini particolari tipici del luogo, alcuni financo desueti, altri più popolari e diffusi, ma talvolta dal significato originale. Uno per tutti: il verbo musar nell’accezione di guardare fisso in viso, anziché di riflettere, come in Val germanasca, o di bighellonare, gingillarsi, come nell’occitano d’oltralpe e in francese. E i termini acabar, enairar, rúnia, sesir, cimalh, trimar? E l’òucha per il cimitero, per riproporre un raffronto fra le nostre valli? Ma quanti altri. La grafia del testo, scritta inizialmente “ad orecchio”, come dice l’autore nella presentazione, è stata curata da Andrea Celauro, il quale ha reso il testo in grafia concordata o “Escolo dou Po” e nella sua introduzione descrive ampiamente le caratteristiche riguardo alla stessa, le particolarità della lingua e le scelte operate nel lavoro di traduzione da parte dell’autore.
“O voi ch’avete li ‘ntelletti sani, / mirate la dottrina che s’asconde / sotto ‘l velame de li versi strani”. La felice notizia che abbia visto la luce un’opera così importante per la vitalità, la testimonianza e la memoria storica della lingua delle nostre valli, oltre che per l’intera cultura di lingua d’oc, pur esplorando gli inferi, è una schiarita in un cielo offuscato. Dal Pic dau Miegjorn, al Mont Ventoux, al Monviso, passando naturalmente dal Monte Argentera, un grande grazie a Valter Giordano da parte di tutti coloro che hanno a cuore la lingua occitana per questo prezioso lavoro, il quale, destinato a restare, porta non soltanto una tiepida brezza, ma un caldo vento d’estate, foriero di bel tempo nel panorama dell’editoria e soprattutto della cultura locale.
All’inizio del celeberrimo primo canto, dopo essersi ritrovato in una selva oscura, smarrito e con il cuore compunto di paura, il poeta giunge ai piedi di un colle. Alza lo sguardo e vede le sue spalle “vestite già de’ raggi del pianeta / che mena dritto altrui per ogni calle”. Si volge indietro, poi prosegue. “Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso, / ripresi via per la piaggia diserta, / sì che ‘l piè fermo sempre era ‘l più basso”. Una strada in discesa, eccome, che non sale diretta verso la luce e costringe a percorrere “un altro vïaggio”. Ma è Dante che sta parlando. Non resta che approfittare dell’occasione e seguirlo finalmente, passo dopo passo, verso dopo verso.
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