Da anni lamento quanto poco conosciuta sia, in Italia, la letteratura occitanica moderna e contemporanea. Ed è una vera perdita per la bellezza e per la varietà dei generi letterari in cui questa lingua si esprime. Ma finalmente è stato tradotto in italiano un romanzo di Joseph d’Arbaud, modello insuperato di prosa d’arte di una letteratura che mette al centro il rapporto tra natura e cultura, tra umano e non umano: La Bestia del Vacarés. Ho già trattato altrove di questo magnifico romanzo, il più suggestivo tra quelli che contribuirono a fare della Camargue una terra mitica, ultima patria possibile per un semidio pagano:
Il grande Pan è morto? Non nella Camargue misteriosa evocata da Joseph d’Arbaud ne La Bèstio dóu Vacarés / La bête du Vaccarès (1926), versione in provenzale e francese. Nutrito di cultura classica, per d’Arbaud (1874-1950) l’alieno non può che riaffiorare dalla memoria profonda, da quella paganità demonizzata ed esiliata tra antiche rovine, spelonche e foreste incantate.
La missione di d’Arbaud, come del marchese Folco de Baroncelli-Javon, intellettuali impegnati nella difesa di questo habitat naturale unico e della sua cultura, era salvaguardarlo dalle insidie di logiche del profitto che snaturavano l’equilibrio dei suoi spazi, immutati nel tempo. Patrimonio deltizio naturalistico da preservare, con tutto l’immaginario poetico che lo accompagna.
Misteriosa è l’esperienza di Jaume Roubaud, gardian che vive in questa vasta pianura acquitrinosa, e tormentato ne scrive nel suo livre de raison, a partire dal 1417. La preda che si era trovato un giorno ad inseguire non si era rivelata una semplice bestia, ma un fauno rifugiatosi in quell’estremo lembo di terra selvaggia. Il mandriano, scorgendone con orrore il volto d’uomo e le corna di un capro, lo aveva assimilato ad un demonio. Ma il semidio fuggiasco parla e rivendica nel Vacarés la sua patria elettiva:
«Questa terra è l’ultima in cui ho trovato un po’ di pace, e quella vastità sacra nella quale un tempo mi compiacevo a esercitare la mia giovane forza, quando signoreggiavo, padrone del silenzio e delle ore, maestro di quel canto sterminato che dagli insetti della piana sale verso le stelle, riecheggia e risuona nei gorghi dell’immensità. Qui, in mezzo ai pantani salmastri tagliati da spiagge sabbiose e lagune, ascoltando il muggito dei tori e il nitrito dei tuoi stalloni selvaggi, mentre di giorno, acquattato, guardavo il velo del miraggio ondeggiare sul calore della terra arsa di sale, e di notte la luna splendente e nuda danzare sull’acqua del mare, ho conosciuto per qualche tempo ciò che potrei definire felicità» (Pellerino, p. 53).
Poi, con le stremate energie della sua decrepitezza, la Bestia (così lo chiama il gardian) riafferma maestosamente, per l’ultima volta, l’antico dominio sul regno animale. Ed è così che, una notte, intere mandrie taurine della Camargue accorrono e concorrono, magnetizzate dal suono incalzante del suo flauto di canne palustri, verso la ridda vorticosa che orbita intorno al loro antico signore. Alla fine del romanzo, la Bestia, presaga che il suo tempo avrà presto termine, sarà inghiottita nel Grande-Abisso, bocca d’Averno della palude, dove l’ ‘alieno’ tornerà alla volontà che lo aveva generato, dopo la sua lunga erranza nel mondo degli uomini.
L’originalità e la grandezza della La Bestia del Vacarés riposa nell’aver convogliato tutta la wilderness della Camargue in una personificazione mitologica panica, che provoca nel mandriano un conflitto religioso molto profondo. Il riaffiorare della paganità, storicamente soffocata dalla fede cristiana, ma mai del tutto sopita nell’anima di un gardian, esprime bene lo spirito di una terra selvaggia. Dunque, questo faccia a faccia turba le certezze dell’uomo e popola la sua abituale vita solitaria di fantasmi e di ossessioni. Eppure, Jaume arriverà a maturare e confessare a se stesso la sua fratellanza misteriosa con l’Altro («Un timore, una fratellanza, un mistero; un rimpianto, anche un rimpianto», Pellerino, p. 130), un’alterità pagana che lui finisce per riconoscere nella comune religione della Natura. Così, dopo la sparizione del fauno, Jaume ne raccoglierà il testimone per la sua missione futura: la ricerca strenua di una patria eclissata dalla storia, anche se i segni della fine incombono sul suo destino. Come già conclusi:
La vicenda favolosa del gardian e del suo nume pagano è un magnifico dono dell’immaginazione di Joseph d’Arbaud, figlio di questo grande paese selvaggio insidiato dal disincanto della modernità e dell’accelerazione del progresso. Fiero e malinconico monumento a una lingua provenzale dalla nobile storia letteraria e alla sua cultura, erose da secoli di egemonia francese; presagio della sua fine.
Rosella Pellerino, di cultura e di lingua occitana, ha il merito di basare la sua traduzione sulla versione provenzale. La traduzione è elegante e discreta. Lascia sapientemente nella lingua di d’Arbaud i termini che tratteggiano la vita quotidiana in Camargue, l’allevamento del bestiame, la Natura con le piante e gli animali che la popolano, dotandoli di note precise e insieme suggestive. Correda la traduzione di cenni biografici sull’autore (pp. 17-20), la sua bibliografia (pp. 21-22) e la traduzione della Preghiera del mandriano (con testo a fronte pp. 24-27). Alla fine del volume, pone una Nota alla traduzione (pp. 133-135), e la bibliografia di cui si è avvalsa (pp. 137-139). Ci restituisce così, con accuratezza e semplicità, un grande libro che spero apra le porte alla conoscenza di una letteratura ancora tutta da scoprire.
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