Edizione 2011
Vincenzo Consolo - Premio Speciale

vive e lavora a Milano dal 1968.
Dopo le scuole superiori, si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano, ma si laureerà, dopo aver assolto
il servizio militare, con una tesi in filosofia del diritto all’Università di Messina.
Dopo la laurea si dedica all’insegnamento nelle scuole agrarie della Sicilia.
Nel 1968 vince un concorso in Rai e si trasferisce a Milano, dove svolge un’intensa attività giornalistica, con lunghi soggiorni nella sua terra di origine. Nel 1977 assume l’incarico di consulente editoriale per la narrativa italiana presso la casa editrice Einaudi.
Romanziere e saggista di fama internazionale esordì nel 1963 con La ferita dell’aprile opera ambientata in un paese siciliano nel periodo dalle lotte politiche del primo dopoguerra.
L’affermazione arriva nel 1976 con Il sorriso dell’ignoto marinaio, ricostruzione di alcuni eventi svoltisi nel Nord della Sicilia nel momento del passaggio dal regime borbonico a quello unitario culminati, nel maggio 1860, nella sanguinosa rivolta contadina di Alcara Li Fusi.
Il narratore di Lunaria (Premio Pirandello 1985), Retablo (Premio Grinzane Cavour 1988),
Il sorriso dell’ignoto marinaio, Le pietre di Pantalica, Nottetempo, casa per casa (Premio Strega 1992), L’olivo e l’olivastro (Premio Internazionale
Unione Latina 1994), lo scrittore civile de Lo spasimo di Palermo (Premio Brancati ) e di Nerò metallicò, stabilisce con il passato
un rapporto complesso attraverso una sperimentazione sul linguaggio «irradiato di dialettalità» e di commistioni fra le lingue, greco, arabo, toscano, spagnolo: una sperimentazione, com’egli stesso disse,
in una intervista del gennaio 1999: «che opera sulla sconvolgimento del codice linguistico dato, per cui la scrittura non diventa più necessariamente comunicativa, ma si complica».
Il suo modello linguistico è costantemente impegnato nella ricerca di originalità.
«Fin dal mio primo libro - ha dichiarato - ho cominciato a non scrivere in italiano.
Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi esiti.
Ma non è dialetto. È l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato, è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati. Cerco di salvare le parole per salvare i sentimenti che le parole esprimono, per salvare una certa storia».
La sua scrittura si allontana dal lessico italiano per arricchirsi di una pluralità dei lessici, in cui prevale l’attenzione all’italiano antico e al siciliano, oltre che una moltiplicazione di registri e di toni in cui si passa dal lirico al triviale, dal tragico al famigliare.
Considerato tra i maggiori scrittori contemporanei è un autore sui generis che ha sempre sperimentato nuove e originali forme di scrittura.
« Non si possono scrivere romanzi - ha rivelato - perché ingannano il lettore».
Ecco perché la sua ricerca letteraria è sempre tesa a una narrazione fortemente contaminata dalla poesia.
Gusto dell’ambientazione storica, fantasiosa e originale ricerca linguistica e passione civile, sono i tratti caratterizzanti della sua opera che si completa con alcuni saggi tra cui Nfernu veru. Uomini e immagini dei paesi dello zolfo (Edizioni del Lavoro, 1985),
La pesca del tonno in Sicilia (Sellerio, 1986), ll barocco in Sicilia (Bompiani, 1991).
Vide chi pote e vole e sape / dentro il retablo de le meraviglie, / magia del grande artefice Crisèmalo, / vide le più maravigliose maraviglie: / vide lontani mondi sconosciuti, / cittate d’oro, giardini di delizie, / regni di salute e d’abbondanza, / boschi verdissimi e sciumi trasparenti.
Vide solamente il bravo cristiano, / l’omo che fu tradito mai da la sua sposa, / la donna onesta che mai tradì il suo sposo.
L’omo innocente, giusto, virtuoso, / di mente tersa e core cristallino. / Vide il fanciullo ancor senza malizia, / la vergine fanciulla trasognata, / il vecchio saggio sciolto d’ogni cura, / la vecchia filatrice delle favole...
Retablo, Sellerio 1987
La volpe di donna Elisa
S’avissi ‘na mezza sciabula
O puru ‘na carrubina
Facissi ‘na ruvina
Facissi ‘un sacciu chi.
S’avissi un pignateddu
L’agghiu e puru lu Sali
Facissi un pani cottu
Sempre s’avissi ‘u pani.
Canto popolare siciliano
Tirava un vento di levante, vento che strisciava sopra i ghiacci dell’Etna, rotolava per la piana di Catania, increspava l’acque del Simeto e di Pergusa, sfiorava Morgantina e il Casale, mugghiava tra le pietre di Filosofiana e di Babbònia, s’abbatteva sopra Mazzarino. Neve era dentro il vento, sbruffava, vorticava, a terra si squagliava. Tempo di lupi, di sparvieri e di briganti.
(...)
Ma briganti comunisti si chiamavano gli Ansaldi, banditi per giustizia e indipendenza, in lotta contro lo Stato, contro baroni, proprietari e mafiosi. Simili a quelli di Centùripe, a quelli di Niscemi e di Sambuca. E Rocco si pensava un Testalonga, quell’antico bandito di Pietraperzia, che per sete di giustizia e di riscatto s’era attestato con la banda a Ratumeni.
A Ratumeni a li primi nosciuti
Si sparaggiaru già li so surdati.
Li baddi grossi e le baddi minuti
Cadianu comu grannuli quagghiati;
E Pidicuddu ci dissi a Rumanu:
Lassamu l’armi, e facimmula a manu.
(...)
Ma il popolo per prima mirò al Municipio
Che fu? Che fu? Che fu? Fu furia furente, furore che scorre e ricorre, follia che monta scema che trascorre, farandola frenetica, girandola che vortica, si sgrana nel suo cuore, si spiuma nell’ali di faville, si dissolve in scie in pluvia spenta di lapilli. Fu fu fu, fumo vaniscente umbra vapore tremolante di brina sopra erbe spine gemme. Vai, vah. Una valanga di pietre ti seppellirà. Sul tumulo d’ortiche e pomi di Sodoma s’erge la croce con un solo braccio, la forca da cui pende il lercio canovaccio. Chiedi pietà ai corvi, perdono ai cirnechi vagabondi, ascolta, non tremare, l’ululato. Ma tu lo sai, lo sai, sopravvivono soltanto la volpe e l’avvoltoio.
Le pietre di Pantalica, Mondadori 1988
Ratumemi
Gli uomini ripresero a lavorare con più lena. Solcavano con l’aratro, zappavano, rivoltavano, sarchiavano.
Uno, tra un colpo e l’altro di zappone, lanciava a smacco, in quella finzione di travagliare nella terra loro, come a fare da sé, dei compagni, rappresentazione comica di villani veri, villani che posseggono uno, due tumuli di terra, sui quali far poggiare il lor sentire, il lor parlare vero di villani, lanciava diri, motti, frasi.
Diceva:
«Cicerculi e tumminìa, terra conza e poi lassa fare a mia».
E rispondeva un altro:
«Santa Catarina pigghia la coffa e va’ a simìna».
E quindi il primo, a metafora di quello che stava loro succedendo:
«La roba cc’è, ma è mala spartuta».
E l’altro:
«All’omu dabbeni la fami l’allappa».
E un terzo, lì vicino:
«Quannu la fortuna nun ti dici jettati ‘n terra e cuogghi babbaluci».
«Contra la forza nun cci vali la raggiuni»
concluse il primo. E: «E basta vah! Finiamola con ‘sti proverbi vani degli antichi».
Le pietre di Pantalica, Mondadori 1988
E il dolore suo sembrò a Petro sorto non solamente dalla madre troppo presto assente, dal padre malinconico, piagato, da Serafina torpida, di pietra, da Lucia che sola e orgogliosa se n’andava per altra strada, ma da qualcosa che aveva preceduto la sua, la nascita degli altri. Era così per lui, per la famiglia o pure per ogni uomo, per ogni casa? Di questo luogo, di questa terra in cui era caduto a vivere, di ogni terra?
Oltrepassato San Francesco, andò spedito per la via Umberto, scansando i resti delle mule, le galline che vi ruzzavano, l’acque che qualche volta piovevano dai làstrici. In faccia alla casa dei Culotta, di là della ringhiera, davanti al catoio sotto palazzo Cìcio, era la Piluchera che china sventagliava nel buco della tannura e cercava d’attizzare la carbonella per i suoi decotti mattutini. Sentì passare, come ogni mattina, Piero Marano, e si girò a guardare, componendo lo scialletto, la vestina sopra i fianchi. Gli sorrise. Oltre la beveratura di porta di Terra, l’albergo di Barranco, davanti alla catena, dal balcone infiorato all’angolo della strada San Nicola, Petro si sentì chiamare.
«Ehi, ehi, picciottello...». Era la signora Centinèo, una delle sorelle del carnezziere.
«Un favore... Vieni, Sali» e indicò il portone.
Petro salì veloce la rampa ripida e si trovò in casa delle zitelle. Che l’attendevano all’impiedi sorridenti, accanto al tavolo, un boccale in mano, di quei di Santo Stefano, a smalto marezzato. La loro faccia tonda, piena di nèi, porri, tutta incipriata, incoronata dal tuppo pecioso dei capelli, assomigliava a quella bianca e stralunata di Pierrot sopra il ciscino d’una sedia.
«Bevi... Devi incignare questo» disse porgendogli il boccale.
«Sei il primo mascolo che vedemmo passare sulla strada...»
«Il primo...»
«Eh. Se beve una femmina, poi il boccale féte»
Petro bevve un sorso d’acqua, salutò e corse via, dicendo ch’era tardi per la scuola.
Nottetempo, casa per casa, Mondadori 1992
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Vincenzo Consolo - Premi Especial "Ostana Scritture in Lingue Madri" 2011
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