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Edizione 2011

Andrea Nicolussi Golo - Premio Nazionale

Andrea Nicolussi Golo - Premi Nacional (Lenga Cimbra)

Andrea Nicolussi Golo - Premio Nazionale
Nato nell’ottobre del 1963, a Trento, troppo tardi per vivere l’antico mondo perduto dei contadini di montagna, Andrea Nicolussi Golo ha appena avuto il tempo di respirare l’odore dei filò cimbri e l’aria densa di umori delle stalle nelle notti invernali.
Incline a saltare i pasti per giorni e giorni, si è nutrito fin che ha potuto solo di storie dolci e orrorifiche raccontategli dal “barba Måndo”.
Bambino quasi prodigio, commuoveva sino alle lacrime la sua maestra d’elementari con i suoi “temi”.
Ma ben presto la scuola sarebbe diventata il suo incubo più cattivo, è troppo... intelligente... sentenziavano sconsolati gli insegnanti,
non ci sta a sentire.
Cosi divenne frequentatore improbabile e irregolare di varie scuole pubbliche e private, alle quali i suoi poveri genitori lo iscrivevano, togliendosi il pane di bocca, nella speranza che un pezzo di carta gli spianasse la strada della vita, ignorando del tutto quanto lui invece amasse correre in salita. Unica cosa buona della sua gioventù il diploma di maestro di sci di fondo ottenuto con punteggi altissimi, ma presto fallì anche la strada dello sport.
Prova vari lavori in ambito socio assistenziale, lavorando dapprima in casa di riposo come animatore, poi in comunità alloggio per ragazzi adolescenti, ma per questo occorreva una scorza che Andrea Nicolussi Golo non riusciva a farsi, e, detto per inciso, non ci è mai riuscito.
Cosi per sopravvivere gli si aprono le porte grigie delle fabbriche.
Ha attraversato tutta la sua vita sino ad oggi scrivendo, in italiano e nell’antica lingua cimbra, senza mai nulla aspettarsi, sino a quando
il vecchio Aedo dell’altipiano, Rigoni Stern, non lo saluta con un cenno del capo e con noncuranza gli sussurra: «Bello quel suo racconto sul Natale».
È cosi, che la sorella, che aveva assistito al breve colloquio, quasi sottraendolo all’autore, decide di spedire il plico di fogli malamente stampati alla casa Editrice Biblioteca Dell’Immagine.
Giovanni Santarossa, patron della casa editrice, due giorni dopo cerca di mettersi in contatto con la sorella che, distratta era in Sicilia e aveva
il cellulare in Trentino.
Ma l’editore non si arrende e il libro di racconti, Guardiano di Stelle e di vacche (Edizioni Biblioteca dell’Immagine), con la prefazione di Mario Rigoni Stern, viene pubblicato.
Dopo l’infanzia trascorsa in malga e il periodo trascorso svolgendo, con orgoglio, la sua attività di operaio è oggi imnpegnato come operatore culturale presso l’Istituto Cimbro di Luserna/Lusérnar Kulturinstitut.
Da dieci anni scrive in lingua cimbra sui maggiori quotidiani locali del Trentino e su varie riviste; ha curato anche diverse traduzioni in cimbro (Lusérn: in an stroach ista gest... / Luserna: c’era una volta, a cura di Manuela Miorelli (Edizioni Dokumentationszentrum Lusérn, 2006)
e ha condotto laboratori di scrittura cimbra presso l’Università di Trento.
Recentemente è stato nominato coordinatore di un importante progetto, sostenuto dalla Regione Trentino-Sudtirol, per la stesura
di un vocabolario della lingua cimbra di Luserna e componente della Commissione per i neologismi.
Sempre nel 2010 ha vinto con la poesia Lem afta tschenk sait (Vivere a mano sinistra) il primo premio alla quinta edizione del Concorso nazionale di poesia per lingue minoritarie, Mendranze n poejia, di Livinallongo del Col di Lana (BL), con questa motivazione: «L’arrampicarsi e cadere come metafora del continuo rimando alle lingue ufficiali ed a quelle del cuore,
un intenso e lineare raffronto che porta il poeta alle vette più alte».
Accademico del Gruppo Italiano Scrittori di Montagna (GISM), appena gli avanza un po’ di tempo si diletta ad organizzare filò

I. Lüsan

C’è un solo modo per iniziare un racconto nell’antica lingua cimbra. Lüsan! Mille volte l’ho tradotto con il verbo italiano: “Ascolta” e ogni volta sentivo che non corrispondeva. Il significato semantico era diverso, ma non capivo in che modo. Poi un giorno, ho incontrato la più sacra delle preghiere, la più antica delle preghiere, la prima preghiera del Popolo Eletto: Shemà’ Israel A. Eloqenu A. Echad. Veaavtà et A. Eloqekha bekol levavekhà uvkol nafshekhà uvkol meodekha. Ascolta Israele il Signore è nostro D-o. Il Signore è uno. Benedetto il Suo nome glorioso per sempre. Allora, solo allora ho capito. Il mio popolo non ha canti, non ha danze, con cui festeggiare, il raccolto, perche non ha raccolti, ma racconta storie, e ogni storia è una Preghiera. Il mio popolo racconta Preghiere. Lüsan-Shemà’, la vicinanza è ancora più profonda quando la storia che segue è una storia di guerra, di “quella” guerra, La Grande, che non basteranno sette generazioni per togliercela dagli occhi e dal cuore.
Lüsan. Il povero Djitzle aveva combattuto sull’Isonzo. Dopo la prima frase, il mio vecchio Barba si interrompeva sempre e chiudeva gli occhi per trovare le parole, poi, quasi come parlasse con lo spirito di un vecchio amico riprendeva. Anche quel mattino, Djitzle era uscito dalla trincea per andare all’assalto, ma aveva trovato quasi subito una buca buona, dove nascondersi. Una volta sul fondo, aveva incominciato presto a coprirsi di terra e sassi, per proteggersi dalle schegge che volavano dappertutto. Così, semisepolto nel ventre della terra, si sentiva protetto, sentiva, che anche quel giorno avrebbe visto salire la notte, sì, anche per quel giorno avrebbe vissuto, a Dio piacendo. Nonostante l’inferno, dopo qualche tempo, il povero Djitzle si assopì, perche anche all’inferno prima o poi ci si abitua. Fu risvegliato da uno scarpone che gli si appoggiò tra la spalla destra e il collo, e poi da un altro proprio sopra la bocca dello stomaco. Era un ufficiale, un capitano, ma forse di più, un colonnello, non ricordava bene il mio Barba. Per un po’, nessuno dei due kaiserjäger profferì parola, parlavano per tutti le bocche dei cannoni. Ma in un momento di tregua, l’ufficiale gli si rivolse quasi implorante: “Rette di Fahne”. Salva la bandiera. Il piccolo Djitzle non si mosse. Allora l’ufficiale lo spintonò e con voce dura di chi aveva ripreso coscienza della propria condizione di privilegio gli ordinò: “Rette di Fahne!”. Ma ancora una volta il Djitzle rimase immobile. Dopo un po’ sentì la canna della pistola frugargli la nuca sotto all’elmetto, e quella voce sibilante che ripeteva: “Rette di Fahne”. Lentamente, che a morire c’è sempre tempo, il Paesano si scrollò della terra e dei sassi e sporse la testa oltre il ciglio. La bandiera del reggimento era là, a cinquanta passi da lui, e a cinquanta passi dalla trincea italiana. Il proiettile fischiò a due centimetri dall’orecchio sinistro. Il Djitzle si acquattò di nuovo sul fondo della buca. Questa volta, la canna della pistola lo graffiò e gli fece male. “Rette di Fahne.” Il Djitzle si sporse di nuovo. Il proiettile gli portò via la vernice dell’elmetto sulla destra. Il paesano tornò giù. Lo conosceva bene lui, il fante che aveva di fronte, la settimana prima gli aveva bucato due volte l’elmetto quando era uscito a prendere acqua sul fondo di una dolina, poi non ci riprovò più l’italiano. La voce del capitano ora rasentava la pazzia. “Rette di Fahne” era diventato l’urlo abnorme di un pazzo. Dopo tre anni di guerra sapeva bene il galateo Djitzle, il terzo colpo sbagliato era alto tradimento, e nessuno poteva permetterselo, nemmeno il più misericordioso tra i nemici. Si girò verso l’ufficiale, si tolse l’elmetto, gli piantò gli occhi negli occhi, appoggiò la fronte alla sua fronte e con calma glaciale sussurrò: “Rette di Balòttn mein Herr.” Finito di parlare, con tutta tranquillità il Djitzle usci dalla buca, con le spalle rivolte alla trincea italiana e si avviò verso le proprie linee, sapeva bene che dopo avergli risparmiato la vita per due volte, il fante non gli avrebbe sparato alla schiena.
Ora ragazzo, tu mi chiedi cosa sia successo dopo, se quell’ufficiale abbia deferito il nostro paesano alla corte marziale con l’infamante accusa di: “Fuga in fronte al nemico.” E allora io te la devo proprio raccontare fino in fondo questa storia.
Aveva fatto solo una ventina di passi, quel povero segnato di guerra, quando lo spostamento d’aria lo mandò con la faccia nel fango, e su di lui incominciarono a cadere pezzi di ogni sorta e di ogni dimensione. Legno, terra, sassi, ferro, e il Capitano... naturalmente i pezzi più piccoli erano i suoi, quelli del Capitano o colonnello non ricordava bene il mio Barba.
Il vecchio riapri gli occhi, respirò a fondo, caricò la pipa: “Rette di Fahne... Rette di Fahne... Rette di balòttn” ripeté piano, sottovoce a se stesso, e un’ombra di sorriso gli piegò le labbra, poi richiuse gli occhi e sospirò: SHEMÀ’ LÜSAN, e ricominciò ancora un’altra preghiera. Il mio popolo racconta preghiere e ascolta silenzi.

Lüsan

Lai asó makma åhevan zo kontara a stòrdja az pi biar: lüsan. Tausankh vert hånnez übarsetzt pin belesche verb: “Ascolta” ma ‘z hattmar nia parirt djüst, ’z hattmar hèrta eppaz gemenglt.
In an tage hånne getrofft daz hailegarste vo alln in gepet, daz eltarste gepet, daz earst gepet von liabarste folk: Shemà’ Israel A. Eloqenu A. Echad. Veaavtà et A. Eloqekha bekol levavekhà uvkol nafshekhà uvkol meodekha. Lüsan Israel, dar Hear iz ünsar Gott, er iz ummadar. Azta sai gebaiget soi nòm vor hèrta. Alora, lai alora hånne vorstånt. Moine laüt håm khummane kantzü, khummane tentz, zo vaira daz sèll boda khinnt gelest, ombromm da håm nicht zo lesa, ma da kontarn stòrdje, un aniaglana stòrdja iz a gepet. Lüsan-Shemà’ iz no nempar in an gepet balma kontart vo kriage, von sèll kriage, Daz Groaz, un simm djeneratziongen bartn nètt soin genumma zo nemmazaz auz von hèrtz un von hirn.

Lüsan. Daz arm Djitzle hatt auzgemacht ’z kriage affon Isonzo. Alle di vert, moi barba, dopo in earstn börtar hatt gespèrrt di oang vor dar iz vürgånt, un dena, sovl bidar hebat geredet pinn gaist von an altn tschell, hattar bidar ågeheft. In sèll morgas o, ’z Djitzle iz gesprunk auz vo dar trincea, ma squase subito hattz gevuntet a guatz loch zo lugarase. ’Z iz lai drinngesprunk un izzese augedekht pitt earde un khnottn, zo nemmase ar von splittarn boda soin geflattart atz alle di saitn. Asó, halbe bograbet drinn in körpar vo dar earde izzese gehöart sichar, oh ja, ‘z hebat no gesek khemmen nacht, ’z hatt gehöart, ke vor in sèll tage o beratz übarlebet, hèrta azta GottarHear hettaten geholft. Dopo a bailele daz arm Djitzle iz hiintschlaft, ombromm in letzarstn sachandar o, laise, laise, an lestn gebentmase. Allz in an stroach iz khennt darbekht von an månn boden hatt getretet afte akhsln un affon pauch. ’Z iz gest a kapitåno odar furse a kolonèll dar hatt nètt gedenkht garècht moi barba. Vor a senjele niamat hatt offegetånt ‘z maul, vor alle håmda geredet lai di kanü. Ma in an moment rue, dar ufitziar hatt khött in soldedle, squase gaülante: ” Rette di Fahne”. Daz arm Djitzle izzese nètt gemövart. Dar ufitziar izzese dartzünt, un hatten geschaft prüste: “Rette di Fahne!” Ma no a bòtta dar månn hatt nètt gemacht fenta. Dopo a pizzle ‘z Djitzle hatt gehöart kratzan in revolvar hintar, untar in èlmo, un bidar, visplante azpi a bippar: “Rette di Fahne”. Asó, laise, ke z’ soina getöatet izta hèrta zait, ünsar paeså hatt geheft in khopf un hatt auzgekukket. Di Bandiara iz gest sèmm, vürtzekh tritt vorå imen, un vürtzekh tritt vorå dar beleschan trincèa. Di khugl hatten gevisplt auz nå in oar afta tschenk sait, un ‘z Djitzle izzese bidar gehukht bahemme züntrest in loch. Disan stroach dar revolvar, hi in rukkn, hatten beagetånt: “Rette di Fahne!” ’Z menndle hatt bidar geheft in khopf un di khugl hatten vortgetrakk di varbe von èlmo afta rècht. Dar paeså izzese bidar nidargepükht. ’Z hatten gekhennt garècht in belesche soldato ’z Djitzle, di boch pellar hattzen gehatt geschozzt zboa vert in huat, baldar hatt geböllt nemmen bazzar, dena hattarda nemear provart. Dar ufitziar hatt parirt soin khennt narrat: “Rette di Fahne” hattar gelürnt azpi a billez virch. ’Z Djitzle hatt gebizzt kartza guat, dopo drai djar kriage, ke zboa vert makma machan fenta zo vela in schuzz, ma drai beratz eppaz kartza vil vor alle, un niamat tüanatz. Asó, izzese gekheart zuar in ufitziar un izzen abegenummp in èlmo un schauganten garade in di oang, hattzen khött: “Rette di balòttn mein Herr”. Dena sovl biz nicht berat gebest iz augestånt un izzese inviart zuar soin trincèan, ampò ‘z iz gest sichar ke dar belesche soldato hettaten nia geschozzt in rukkn.

Est du püable böllast bizzan bia ‘z izta gånt zo geriva disa stòrdja nèro, un asó muchedarse kontarn gåntz.

Dopo biane passan ’z Djitzle izzese gevuntet pinn schinkhan aubart un pinn snabl in tschokk, un von hümbl abe soinda gevallt tòkkn alladarsòrt, groase, khlummane, holtz, earde, khnottn, aisan, un dar kapitåno... di khlümanarstn soinz gest di tòkkn von kapitåno, odar kolonèll dar hatt nètt gedenkht garècht moi barba.

Dar alt hatt bidar offegetånt di oang, un izzen ingevüllt di pipa: “Rette di Fahne... Rette di Fahne... Rette di balòttn” hattar gevitschlt un a lècharle hatten gepükht ’z maul, dena hattar bidar gespèrrt di oang un hatt bidar ågeheft: SHEMÀ’-LÜSAN un hatt takart an åndarz gepet. Moine laüt kontarn gepet un lüsnen sbaing. Ombromm GottarHear hatt khött LÜSAN un nètt GLOABE!