Nell'ultimo numero di "Le cahiers de Max Roquette" sono state pubblicate 33 poesie inedite di Max Roquette, tradotti in francese da Joan Frederic Brun; un autore che, nell'ambiente occitano, non ha bisogno di presentazioni essendo stato uno delle voci poetiche e inteellettuali più importanti del suo tempo. Ve ne proponiamo una scelta con traduzione in italiano per i numeri di Nòvas di aprile e maggio 2021.
Per te
Per te, senza saperlo, vedevo presto
nel mattino il fremito delle cose.
Per te la mia mano raccoglieva il miele
il pane, il latte, e l’alito della rosa.
Non conoscevo, innocente in cammino,
il destino che attende ai quattro venti
ne gli ossicini che, nella sua mano,
tasta prima di gettarli nella polvere.
Raccoglievo della terra i tesori.
L’erba era sogno e fonte di paradiso,
e il serpente fuggevole, lingua bifida,
m’era musica e segno della favola.
Gettavo pietre nel fiume,
di un giunco facevo un ponte per le formiche.
E lento e lungo era il tempo
di guardarsi nell’acqua mite.
L’ombra dell’olmo m’era fraterna
e potevo restare a tempo perso
mischiato alla lunga meditazione dell’erba
al brusio di fuoco di uno sciame rosso.
Non attendere
Non attendere, non attendere
nessuno verrà mai
e nessuna voce risuonerà
nello buio pozzo della tua attesa.
Hai atteso la voce di un dio
hai atteso, canto di rinascita
la parola di un fratello.
Ma non ti è mai giunto
se non nel suo arrischiato linguaggio
il riso del vento fuggevole
quando mischia in un rantolo d’amore
le mille bocche dei pioppi.
Il tempo solo fugge tra le nuvole
Il tempo, la linfa delle tue vene,
ed apri i tuoi occhi smarriti
a contemplare il sangue perso
nei viali.
Non attendere, non attendere
Ogni minuto d’attesa
è canzone vana
è foglia morta nelle mani del vento
è cenere morta nel suo respiro
gettata via.
Ci sei solo tu, e poi.
Ci può sapere, chi saprà
cosa resterà di te,
passata la tua ombra.
Non attendere, non attendere
una sola verità, e poi
qualche parola infiocchettata
che uno sperso vento dipanerà,
in mezzo ai prati.
Canto di cuculo, canto di allodola,
delizia di un merlo nascosto
sotto le fronde.
Un giovane che sospende il passo
per ascoltarne il suono lieve
e nasconderlo nell’animo.
Canto di fronde.
Compro, compro, comprerò
Compro, compro, comprerò
tutto ciò che si trova sotto la mano,
montagne di cuoio, colli d’argento
e l’erba d’oro delle estati.
E i sogni della notte
che dormicchia fra i salici.
E il midollo del sambuco
E il canone degli uccelletti
e il fremito nuovo che si leva
accanto all’cqua fra i giunchi,
e il riso del bambino
perso nella selva dei sogni.
Le labbra socchiuse
della ragazza che sogna al domani
e il riso della vecchia
che si ricorda e si sovviene
e nei rivoli di un tempo
senza preoccuparsi cammina ancora.
Guida la mia mano, desiderio
nato nel profondo dei miei anni.
La neve del tempo vi perde la sua pena
e la sua schiuma, l’onda del tempo.
Io sono colui che compra, compra,
con per scudi nient’altro che parole
e il loro brusio nell’ala del vento.
Poiché sono il peso di ogni cosa
sulla bilancia del tempo chiuso.
Io compro, compro, comprerò
per risparmiare ciò che si guasta
sotto la ramazza di ogni giorno.
Per salvarlo dal vasto mare
che annega ogni essere nella sua notte
per rendergli ciò che lo fa essere
di fronte al riso del nulla.
In Parigi, la grande città
In Parigi, la grande città,
passano dritti gli uccelli
gli uccelli della notte scura
il cui viso è il mio specchio.
Uno specchio di cento anime.
Uno specchio di centomila anni.
Uno pecchio dove canticchia
l’acqua pura di mille fonti.
Gli specchi dell’odio
e gli specchi della gioia.
E la notte che si prolunga
li incarica della sua luce.
Dove vanno, dove si annegano
lungo il fiume di cento pioppi
lungo i palazzi dei Re.
Mille luci nella notte piena
fanno corteo ai cento specchi.
Dove corre la notte folle,
dove corrono i morti?
La notte nera nella sua veste
li raduna morti o vivi.
Oh luce della grande citta,
O miseria nel tuo splendore.
Povero casolare
Povero casolare del mio cuore
dolce notte abbandonata
ricca dei soli diamanti
del vivaio della sua onda.
Nuda più di una ragazza nuda
più liscia del marmo liscio.
Spoglia di ogni oro
e libera da ogni seta.
Cammini lentamente
nell’aperta distesa
senza preoccuparti dei numeri
né dei visi che hanno affisso
sul tuo pozzo coloro che son nulla.
Lasciali trasalire.
Lascia correre sulla loro schiena
le onde di una grande paura
e lo spavento dell’ansia.
Lascia al pastore delle tue ore
la felicità della tua grande pace.
Lasciali a poco a poco
Sprofondare nelle tue acque.
Lasciali mischiarsi
alle foci delle tue acque.
Lasciali dimenticarsi
nella distesa delle tue ombre.
Lasciali rinunciare a sé stessi
lasciali smarrire la loro anima.
Lasciali divenire tenui
come una nebbia mattutina.
Lasciali divenire di te
la parte più sconosciuta.
Lasciali, lascia la notte
perdersi nella tua grande sete.
L’uomo nella luna
Sono l’omino nella luna.
Vado con la lanterna in mano
per un campo di ossa bianche
in cerca di una pietra magnetica.
Ombra gettata sull’orizzonte
ramazzo lo spazio curvo.
Separo un regno di cenere
da un impero di neve.
E come un folle ago
brancolo qua e là.
Non saranno mai uguali
il regno e l’impero.
E mi dicono che son ebbro.
Forse lo sono davvero.
Ma di ben altro liquore
sgorgato da pietra di luna
è ebbro il mio sangue
da quando in terra lontana
a migliaia di leghe di qui
in parole mi hanno chiamato.
Un giorno
Un giorno tacerà.
Un giorno tacerà la voce di canto.
Un giorno smetterà di far udire
il drappello invisibile nel sentiero dei pioppi
il drappello cantante dei sogni in libertà.
Un giorno tacerà l’eco delle corde
ed il battere dei tamburini.
Un giorno non si udrà più
ll russare del fiume lontano
un giorno,
un giorno.
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