Una giornata - Luigi Pirandello
Una jornada - Luigi Pirandello
di Peyre Anghilante

Non riesco a riavermi dallo sbalordimento. Ma ciò che più mi impressiona è che non mi trovo addosso alcun segno della violenza patita; non solo, ma che non ne ho neppure un'immagine, neppur l'ombra confusa d'un ricordo.
Mi trovo a terra, solo, nella tenebra d'una stazione deserta; e non so a chi rivolgermi per sapere che m'è accaduto, dove sono.
Ho solo intravisto un lanternino cieco, accorso per richiudere lo sportello del treno da cui sono stato espulso. Il treno è subito ripartito. È subito scomparso nell'interno della stazione quel lanternino, col riverbero vagellante del suo lume vano. Nello stordimento, non m'è nemmeno passato per il capo di corrergli dietro per domandare spiegazioni e far reclamo.
Ma reclamo di che?
Con infinito sgomento m'accorgo di non aver più idea d'essermi messo in viaggio su un treno. Non ricordo più affatto di dove sia partito, dove diretto; e se veramente, partendo, avessi con me qualche cosa. Mi pare nulla.
Nel vuoto di questa orribile incertezza, subitamente mi prende il terrore di quello spettrale lanternino cieco che s'è subito ritirato, senza fare alcun caso della mia espulsione dal treno. È dunque forse la cosa più normale che a questa stazione si scenda così?
Nel bujo, non riesco a discernerne il nome. La città mi è però certamente ignota. Sotto i primi squallidi barlumi dell'alba, sembra deserta. Nella vasta piazza livida davanti alla stazione c'è un fanale ancora acceso. Mi ci appresso; mi fermo e, non osando alzar gli occhi, atterrito come sono dall'eco che hanno fatto i miei passi nel silenzio, mi guardo le mani, me le osservo per un verso e per l'altro, le chiudo, le riapro, mi tasto con esse, mi cerco addosso, anche per sentire come son fatto, perché non posso più esser certo nemmeno di questo: ch'io realmente esista e che tutto questo sia vero.
Poco dopo, inoltrandomi fin nel centro della città, vedo che a ogni passo mi farebbero restare dallo stupore, se uno stupore più forte non mi vincesse nel vedere che tutti gli altri, pur simili a me, ci si muovono in mezzo senza punto badarci, come se per loro siano le cose più naturali e più solite. Mi sento come trascinare, ma anche qui senz'avvertire che mi si faccia violenza. Solo che io, dentro di me, ignaro di tutto, sono quasi da ogni parte ritenuto. Ma considero che, se non so neppur come, né di dove, né perché ci sia venuto, debbo aver torto io certamente e ragione tutti gli altri che, non solo pare lo sappiano, ma sappiano anche tutto quello che fanno sicuri di non sbagliare, senza la minima incertezza, così naturalmente persuasi a fare come fanno, che m'attirerei certo la maraviglia, la riprensione, fors'anche l'indignazione se, o per il loro aspetto o per qualche loro atto o espressione, mi mettessi a ridere o mi mostrassi stupito. Nel desiderio acutissimo di scoprire qualche cosa, senza farmene accorgere, debbo di continuo cancellarmi dagli occhi quella certa permalosità che di sfuggita tante volte nei loro occhi hanno i cani. Il torto è mio, il torto è mio, se non capisco nulla, se non riesco ancora a raccapezzarmi. Bisogna che mi sforzi a far le viste d'esserne anch'io persuaso e che m'ingegni di far come gli altri, per quanto mi manchi ogni criterio e ogni pratica nozione, anche di quelle cose che pajono più comuni e più facili.
Non so da che parte rifarmi, che via prendere, che cosa mettermi a fare.
Possibile però ch'io sia già tanto cresciuto, rimanendo sempre come un bambino e senz'aver fatto mai nulla? Avrò forse lavorato in sogno, non so come. Ma lavorato ho certo; lavorato sempre, e molto, molto. Pare che tutti lo sappiano, del resto, perché tanti si voltano a guardarmi e più d'uno anche mi saluta, senza ch'io lo conosca. Resto dapprima perplesso, se veramente il saluto sia rivolto a me; mi guardo accanto; mi guardo dietro. Mi avranno salutato per sbaglio? Ma no, salutano proprio me. Combatto, imbarazzato, con una certa vanità che vorrebbe e pur non riesce a illudersi, e vado innanzi come sospeso, senza potermi liberare da uno strano impaccio per una cosa - lo riconosco - veramente meschina: non sono sicuro dell'abito che ho addosso; mi sembra strano che sia mio; e ora mi nasce il dubbio che salutino quest'abito e non me. E io intanto con me, oltre a questo, non ho più altro!
Torno a cercarmi addosso. Una sorpresa. Nascosta nella tasca in petto della giacca tasto come una bustina di cuojo. La cavo fuori, quasi certo che non appartenga a me ma a quest'abito non mio. È davvero una vecchia bustina di cuojo, gialla scolorita slavata, quasi caduta nell'acqua di un ruscello o d'un pozzo e ripescata. La apro, o, piuttosto, ne stacco la parte appiccicata, e vi guardo dentro. Tra poche carte ripiegate, illeggibili per le macchie che l'acqua v'ha fatte diluendo l'inchiostro, trovo una piccola immagine sacra, ingiallita, di quelle che nelle chiese si regalano ai bambini e, attaccata ad essa quasi dello stesso formato e anch'essa sbiadita, una fotografia. La spiccico, la osservo. Oh! È la fotografia di una bellissima giovine, in costume da bagno, quasi nuda, con tanto vento nei capelli e le braccia levate vivacemente nell'atto di salutare. Ammirandola, pur con una certa pena, non so, quasi lontana, sento che mi viene da essa l'impressione, se non proprio la certezza, che il saluto di queste braccia, così vivacemente levate nel vento, sia rivolto a me. Ma per quanto mi sforzi, non arrivo a riconoscerla. È mai possibile che una donna così bella mi sia potuta sparire dalla memoria, portata via da tutto quel vento che le scompiglia la testa? Certo, in questa bustina di cuojo caduta un tempo nell'acqua, quest'immagine, accanto all'immagine sacra, ha il posto che si dà a una fidanzata.
Torno a cercare nella bustina e, più sconcertato che con piacere, nel dubbio che non m'appartenga, trovo in un ripostiglio segreto un grosso biglietto di banca, chi sa da quanto tempo lì riposto e dimenticato, ripiegato in quattro, tutto logoro e qua e là bucherellato sul dorso delle ripiegature già lise.
Sprovvisto come sono di tutto, potrò darmi ajuto con esso? Non so con qual forza di convinzione, l'immagine ritratta in quella piccola fotografia m'assicura che il biglietto è mio. Ma c'è da fidarsi d'una testolina così scompigliata dal vento? Mezzogiorno è già passato; casco dal languore: bisogna che prenda qualcosa, ed entro in una trattoria.
Con maraviglia, anche qui mi vedo accolto come un ospite di riguardo, molto gradito. Mi si indica una tavola apparecchiata e si scosta una seggiola per invitarmi a prender posto. Ma io son trattenuto da uno scrupolo. Fo cenno al padrone e, tirandolo con me in disparte, gli mostro il grosso biglietto logorato. Stupito, lui lo mira; pietosamente per lo stato in cui è ridotto, lo esamina; poi mi dice che senza dubbio è di gran valore ma ormai da molto tempo fuori di corso. Però non tema: presentato alla banca da uno come me, sarà certo accettato e cambiato in altra più spicciola moneta corrente.
Così dicendo il padrone della trattoria esce con me fuori dell'uscio di strada e m'indica l'edificio della banca lì presso.
Ci vado, e tutti anche in quella banca si mostrano lieti di farmi questo favore. Quel mio biglietto - mi dicono - è uno dei pochissimi non rientrati ancora alla banca, la quale da qualche tempo a questa parte non dà più corso se non a biglietti di piccolissimo taglio. Me ne danno tanti e poi tanti, che ne resto imbarazzato e quasi oppresso. Ho con me solo quella naufraga bustina di cuojo.
Ma mi esortano a non confondermi. C'è rimedio a tutto. Posso lasciare quel mio danaro in deposito alla banca, in conto corrente. Fingo d'aver compreso; mi metto in tasca qualcuno di quei biglietti e un libretto che mi dànno in sostituzione di tutti gli altri che lascio, e ritorno alla trattoria. Non vi trovo cibi per il mio gusto; temo di non poterli digerire. Ma già si dev'esser sparsa la voce ch'io, se non proprio ricco, non sono certo più povero; e infatti, uscendo dalla trattoria, trovo una automobile che m'aspetta e un autista che si leva con una mano il berretto e apre con l'altra lo sportello per farmi entrare. Io non so dove mi porti. Ma com'ho un'automobile, si vede che, senza saperlo, avrò anche una casa. Ma sì, una bellissima casa, antica, dove certo tanti prima di me hanno abitato e tanti dopo di me abiteranno. Sono proprio miei tutti questi mobili? Mi ci sento estraneo, come un intruso. Come questa mattina all'alba la città, ora anche questa casa mi sembra deserta; ho di nuovo paura dell'eco che i miei passi faranno, movendomi in tanto silenzio. D'inverno, fa sera prestissimo; ho freddo e mi sento stanco. Mi faccio coraggio; mi muovo; apro a caso uno degli usci; resto stupito di trovar la camera illuminata, la camera da letto, e, sul letto, lei, quella giovine del ritratto, viva, ancora con le due braccia nude vivacemente levate, ma questa volta per invitarmi ad accorrere a lei e per accogliermi tra esse, festante.
È un sogno?
Certo, come in un sogno, lei su quel letto, dopo la notte, la mattina all'alba, non c'è più. Nessuna traccia di lei. E il letto, che fu così caldo nella notte, è ora, a toccarlo, gelato, come una tomba. E c'è in tutta la casa quell'odore che cova nei luoghi che hanno preso la polvere, dove la vita è appassita da tempo, e quel senso d'uggiosa stanchezza che per sostenersi ha bisogno di ben regolate e utili abitudini. Io ne ho avuto sempre orrore. Voglio fuggire. Non è possibile che questa sia la mia casa. Questo è un incubo. Certo ho sognato uno dei sogni più assurdi. Quasi per averne la prova, vado a guardarmi a uno specchio appeso alla parete dirimpetto, e subito ho l'impressione d'annegare, atterrito, in uno smarrimento senza fine. Da quale remota lontananza i miei occhi, quelli che mi par d'avere avuti da bambino, guardano ora, sbarrati dal terrore, senza potersene persuadere, questo viso di vecchio? Io, già vecchio? Così subito? E com'è possibile?
Sento picchiare all'uscio. Ho un sussulto. M'annunziano che sono arrivati i miei figli.
I miei figli?
Mi pare spaventoso che da me siano potuti nascere figli. Ma quando? Li avrò avuti jeri. Jeri ero ancora giovane. È giusto che ora, da vecchio, li conosca.
Entrano, reggendo per mano bambini, nati da loro. Subito accorrono a sorreggermi; amorosamente mi rimproverano d'essermi levato di letto; premurosamente mi mettono a sedere, perché l'affanno mi cessi. Io, l'affanno? Ma sì, loro lo sanno bene che non posso più stare in piedi e che sto molto molto male.
Seduto, li guardo, li ascolto; e mi sembra che mi stiano facendo in sogno uno scherzo.
Già finita la mia vita?
E mentre sto a osservarli, così tutti curvi attorno a me, maliziosamente, quasi non dovessi accorgermene, vedo spuntare nelle loro teste, proprio sotto i miei occhi, e crescere, crescere non pochi, non pochi capelli bianchi.
- Vedete, se non è uno scherzo? Già anche voi, i capelli bianchi.
E guardate, guardate quelli che or ora sono entrati da quell'uscio bambini: ecco, è bastato che si siano appressati alla mia poltrona: si son fatti grandi; e una, quella, è già una giovinetta che si vuol far largo per essere ammirata. Se il padre non la trattiene, mi si butta a sedere sulle ginocchia e mi cinge il collo con un braccio, posandomi sul petto la testina.
Mi vien l'impeto di balzare in piedi. Ma debbo riconoscere che veramente non posso più farlo. E con gli stessi occhi che avevano poc'anzi quei bambini, ora già così cresciuti, rimango a guardare finché posso, con tanta tanta compassione, ormai dietro a questi nuovi, i miei vecchi figliuoli.
Arranchat al sòm, benlèu per error, e campat fòra dal tren dins un’estacion de passatge. De nuech, e sensa ren embe mi.
Arribo pas a me repilhar da l’esbalordiment. Mas aquò que m’estona mai es que me tròbo pas a còl degun senh de la violença patia; ren masque, mas que n’ai nimanc un’image, nimanc l’ombra confusa d’un recòrd.
Me tròbo a tèrra, solet, dins l’escur d’una estacion desèrta; e sai pas a qui m’adreçar per sauber çò que m’es capitat, ente siu.
Ai masque entrevist un lanternin bòrnh, acorrut per sarrar lo portèl dal tren d’ente siu estat fòragetat. Lo tren es repartit d’abòrd. E d’abòrd es avalit dins l’estacion aquel lanternin, embe lo rebat vacilhant de son lume van. Dins l’estordiment, m’es nimanc passat per la tèsta de lhi córrer après per demandar d’explicacions e far reclam.
Mas reclam de çò que?
Embe un esglai infinit m’apercebo d’aver pas pus idea de m’èsser butat en viatge sus un tren. Me soveno pas pus gis d’ente sie partit, ente vane; e se da bòn, en partent, auguesse qualquaren embe mi. Me semelha pas ren.
Dins lo vueit d’aquesta orribla incertessa, an un bòt me pren lo terror d’aquel espectral lanternin bòrnh que s’es d’abòrd retirat, sensa far degun cas a mon expulsion dal tren. Es donc benlèu la costuma que an aquesta estacion én cale parelh?
Dedins la sornura arribo pas a ne’n reconéisser lo nom. La vila totun m’es certament desconeissua. Dessot las premieras òrras lusors de l’alba, pareis desèrta. Dins la vasta plaça lívida derant l’estacion lhi a un fanal encara avisc. M’apròcho an el; m’arrèsto e, pas encalant auçar lhi uelhs, esfraiat coma siu dal retun di miei pas dins lo silenci, me gacho las mans, las guincho per un vèrs e per l’autre, las sarro, las duèrbo mai, me tasto embe elas, me cèrcho a còl, decò per sentir coma siu fach, perque puei pas pus èsser segur nimanc d’aquò: que mi existe realament e que tot aquò sie ver.
Pauc après, en m’enfonzant fins al centre de la vila, veo de causas que a chasque pas me farion restar sesit da l’estupor, se un’estonament pus fòrt me ganhesse pas dins lo veire que tuchi lhi autri, ben que semblables a mi, se bojon aquí al metz sensa franc se’n prene garda, coma se per lor sien las causas mai naturalas e acostumaas. Me sento coma rabelar, mas decò aquí sensa avertir qu’én me face violença. Senon que, dedins mi, ignorant de tot, siu esquasi de tot cant retengut. Mas consídero que, se sai pas nimanc coma, ni d’ente, ni perqué lhi sie vengut, devo certament aver tòrt mi e rason tuchi lhi autri, que ren masque pareis lo sàpien, mas sàpien decò tot çò que fan segurs de pas s’enganar, sensa la mínima incertessa, tan naturalament persuaduts a far coma fan que m’atirariu de segur la meravilha, la reprension, benlèu mesme l’indignacion se, o per lor aspèct o per qualque lor gèst o expression, me butesse a rire o me mostresse estupit. Dins lo desir abramat de descurbir qualquaren sensa me’n far apercéber, me chal d’un contun cancelar da lhi uelhs aquela cèrta permalositat qu’en passant tanti bòts an lhi chans dins lors uelhs. Lo tòrt es miu, es miu, se ne’n compreno pas ren, se arribo pas encà a ne’n revenir. Chal que m’esfòrce a far lo mavís de n’èsser persuadut decò mi e que m’engenhe a far coma lhi autri, ben que me manque tot critèri e tota nocion pràctica, mesme d’aquelas causas que pareisson mai comunas e de bèl far.
Sai pas da que cant me repatar, que chamin prene, çò que me butar a far.
Possible totun que sie já tan creissut, en restant totjorn coma un filhet e sensa aver pas fach jamai ren? Aurei benlèu trabalhat en sumi, sai pas coma. Mas trabalhat ai de segur, trabalhat de lòng, e un baron. D’autre cant, pareis que tuchi lo sàpien, dal moment que tanti se viron me gachar e mai d’un bèla me saluta, sensa que mi lo coneisse. D’abòrd resto perplèx, se verament lo salut sie adreçat a mi; me beico da cant, me beico darreire. M’aurèn salutat per error? Mas no, saluton mi da bòn. Combato, embarrassat, embe una cèrta vanitat que voleria e pasmens arriba pas a s’illúder, e vau anant coma suspendut, sensa poler me liberar da un’estranja gena per una causa - lo reconeisso - da bòn mesquina: siu pas segur dal vestit que pòrto; me semelha dròlle que sie miu; e aüra me sòrt lo dúbit que saluten aquesta vèsta e non pas mi. E entrementier embe mi, gavat aquò aicí, ai pas pus d’autre!
Me cèrcho mai a còl. Una sorpresa. Estremat dins lo sacochet de la vèsta tasto coma una saqueta de cuer. La sòrto, esquasi segur qu’apartene pas a mi mas an aquesta vèsta pas mia. Es da bòn una vielha saqueta de cuer, jauna, destencha, eslavaa, coma chaüta dins l’aiga d’un beal o d’un potz e repeschaa. La duèrbo, o putòst ne destacho la part empegaa, e gacho dedins. Al metz di gaire papiers repleat, illesibles per las machas que l’aiga lhi a fach en diluent l’ancre, tròbo una pichòta mistà, enjaunia, d’aquelas qu’en gleisa én semon ai filhets, e estachaa an aquela, esquasi dal mesme format e decò ela esblavia, una fotografia. La desempego, la gacho. Òh, es l’image d’una jòlia filha en costum da banh, esquasi nua, embe tant d’aura dins lhi pèls e lhi braç levats vivament dins l’act de salutar. En la mirant, bèla se embe una cèrta pena, sai pas, esquasi luenha, sento que es d’ilhe que me ven l’impression, se ren pròpi la certessa, que lo salut d’aquilhi braç, tant vivament levats dins l’aura, sie adreçat a mi. Mas per tant que m’esfòrce, arribo pas a la reconéisser. Possible qu’una frema tan jòlia me sie polgua avalir da la memòria, emportaa da tota aquela aura que lhi despenchena la tèsta? De segur, dins aquesta saqueta de cuer chaüta un temp dedins l’aiga, aquesta image, butaa da cant a la mistà, a lo pòst qu’én dona a una calinhaira.
Torno cerchar dins la saqueta e, mai desconcertat qu’embe plaser, dins lo dúbit que m’apartene pas, tròbo dins un entrepaus secret un gròs bilhet de banca, vai sauber da quant de temp estremat aquí e desmentiat, pleat en quatre, tot abismat e aicí e ailai pertusat sal dòrs des repleaduras já frilaas.
Desprovist coma siu de tot, polerei m’ajuar embe aquò? Sai pas embe quala fòrça de convincion, l’image retracha dins aquela pichòta fotografia m’assegura que lo bilhet es miu. Mas lhi a de se fiar d’una testeta tan despenchenaa da l’aura? Metzjorn es já passat; cheio da la fam: chal que prene qualquaren e intro dins un òste.
Esmaravilhat, decò aicí me veo aculhit coma un’òste de regard, benvolgut. M’índicon una taula preparaa e m’arrambon una carea per m’envidar a prene plaça. Mas un escrúpol me reten. Fau signe al patron e, lo tirant en despart, lhi mostro lo gròs bilhet abismat. Estonat, el l’agacha; peniblament, per l’estat qu’al es, l’exàmina; puei me ditz que sensa dúbit es de granda valor, mas já depuei de temp fòra cors. Mas crenhetz pas: presentat a la banca da un coma mi, serè de segur acceptat e chambiat en d’autra pus pichòta monea correnta. Aquò disent, l’òste sòrt embe mi fòra de l’uis de la via e m’índica l’edifici de la banca aquí arrent.
Lhi vau, e decò en aquela banca tuchi se mostron aürós de me far aqueste favor. Aquel miu bilhet - me dison - es un di gaire pas encara rintrats a la banca, que depuei qualque temp dona pas cors se ren a de bilhets de talh mai que mai pichòt. Me’n donon d’aquilhi tanti que ne’n resto embarrassat e esquasi oprimut. Ai ren qu’aquela saqueta de cuer naufragaa. Mas m’exòrton a pas me confónder. Lhi a de remèdi a tot. Puei laissar aquilhi sòuds en depaus a la banca, en compt corrent. Fau mavís d’aver comprés, me buto en sacòcha qualqu’un d’aquilhi bilhets e un libret que me donon per tuchi lhi autri que laisso, e torno mai a l’òste. Lo minjar m’agrada pas; ai paor de pas poler-lo degerir. Mas deu já s’èsser espanteaa la vòutz que mi, se ren pròpi ric, siu pas pus paure de segur; e en efèct, en sortent da l’oste, tròbo una veitura que m’atend e un autista qu’embe una man se leva lo berret e embe l’autra me duèrb la portiera. Sai pas dont me mene. Mas coma ai una veitura, se ve que, sensa lo sauber, aurei decò una maison. Mas sí, una maison bèla, vielha, ente de segur tanti derant de mi an viscut e tanti viurèn encara après de mi. Da bòn son tuchi miei aquilhi mòbles? Me sento estrangir an aquò, coma un intrús. Coma la vila aqueste matin a l’alba, aüra decò aquesta maison me semelha desèrta. Ai já mai paor dal retun que farèn mi pas, en me bojant en tant de silenci. D’uvèrn, fai fito escur; ai freid e me sento fatigat. Me fau coratge, me bojo, duèrbo a cas un de lhi uis; resto estonat de trobar la chambra esclairaa, la chambra da liech, e, sus lo liech, ilhe, aquela jove dal retrach, viva, encara embe lhi braç nus vivament levats, mas aqueste bòt per m’envidar a lhi anar encòntra e m’aculhir entre lor, festosa.
Es un sumi?
De segur, coma dins un sumi, ilhe sus aquel liech, après la nuech, lo matin a l’alba, lhi es pas pus. Gis de traça d’ilhe. E lo liech, qu’es estat tan chaud dins la nuech, aüra a lo tochar es jalat coma una tomba. E lhi a en tota la maison aquela flaira que demora enti luecs qu’an pres de possiera, ente la vita es passia fai de temp, e aquel sens d’enuiosa flaquessa que per se sostenir a da manca d’abitudas útilas e ben reglaas. Ai totjorn agut orror d’aquò. Vuelh escapar via. Es pas possible qu’aquesta sie ma maison. Aquò’s una gargavea. De segur ai sumiat un di sumi mai absurds. Esquasi per n’aver la pròva, vau me gachar a un espech pendut a la paret denant e d’abòrd ai l’impression de near, terrifiat, dins un desvari sensa fin. Da quala luenchor mi uelhs, aquilhi que me semelha d’aver agut da mainat, agachon aüra, esbambats de terror, sensa poler se’n persuàder, aqueste morre de vielh? Mi, já vielh? Tan fito? E coma es possible?
Sento picar a l’uis. Ai un ressaut. M’anóncion que son arribats mi filhs.
Mi filhs?
Me pareis afrós que da mi sien polguts nàisser de mainats. Mas quora? Lhi aurei aguts ier. Ier ero encà jove. Es just que aüra, da vielh, lhi coneisse.
Intron en tenent per man de filhets, naissuts da ilhs. Corron d’abòrd me sostenir; amorosament me repròchon de m’èsser auçat dal liech; premurosament me buton setat, per que l’afan me quite. Mi, l’afan? Mas sí, lor lo san ben que puei pas pus istar en pè e que siu ben ben malate.
Assetat, lhi agacho, lhi escoto; e me semelha que m’isten fasent en sumi una galijada.
Já finia ma vita?
E mentre resto a lhi observar, tuchi tan plechs a l’entorn de mi, maliciosament, coma se devesse pas me’n avisar, veo esponchar sus lors tèstas, pròpi dessot mi uelhs, e créisser, créisser pas pauc, pas pauc de pels blancs.
Veietz, s’es pas una galijada? Já decò vos, lhi pels blancs.
E gachatz, gachatz aquilhi que tot just son intrats filhets da aquel uis: te aquí, es bastat que se sien aprochats a ma poltrona: son venguts grands; e una, aquela, es já una mendia que vòl se far larg per èsser admiraa. Se lo paire la ten pas, se campa s’assetar sus mi janolhs e embe un braç me cenh lo còl, en pausant sa testeta sus mon pitre.
Me ven lo vam de sautar en pè. Ma me chal confessar que da bòn puei pas pus lo far. E embe lhi mesmes uelhs qu’avion fai pas gaire aquilhi filhets, aüra já tan creissuts, resto a gachar tant que puei, embe tanta tanta compassion, d’aüra enlai darreire aquesti nòus, mi vielhs filhets.
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