La scelta - Luigi Pirandello
LA CHAUSIA - Luigi Pirandello
di Peyre Anghilante

Me lo vedo ancora innanzi vestito squallidamente di grigio, con un vecchio cappello stinto e tutto sbertucciato, in cui la testa secchissima sarebbe sprofondata intera intera, se non fosse stato per le orecchie che reggevano le tese: vi sprofondava tutta la fronte però, con le sopracciglia; così che la piccola faccia ossuta, angolosa pareva cominciasse da quel nasetto a becco e sfrogiato, da uccel ciuffagno, che rendeva così caratteristica la sua fisonomia. Si sforzava di tener continuamente tra i denti le labbra, come per mordere, castigare e nascondere un risolino tagliente, che gli era proprio; ma lo sforzo in parte era vano, perché questo risolino non potendo per le labbra così imprigionate, gli scappava per gli occhi, più arguto e beffardo che mai.
Era il mio ajo e si chiamava Pinzone.
Il dì dei morti è di festa pei fanciulli di Sicilia. La Befana (forse perché nelle case delle città e dei borghi dell'isola non c'è camini, per la cui gola ella possa introdursi) non fa regali laggiù. Li fanno invece i morti alla vigilia della loro festa, su la mezzanotte: i parenti o gli amici defunti recano in memoria di loro qualche monetina e dolci e giocattoli, soltanto però ai bambini savii. Più savie, a parer mio, dovrebbero esser le madri a non accender così, paurosamente, la fantasia dei figliuoli. Mia madre mi mandava senz'altro con l'ajo Pinzone alla fiera dei giocattoli.
Ricordo che pena febbrile, vibrante di mille desiderii mi costava la scelta in quella fiera.
Stordito dai clamori confusi, sguajati dei tanti bercioni mi voltavo di qua e di là perplesso e di ciascuno ascoltavo un tratto l'elogio della propria merce, mentre altre mani m'invitavano con vivacissimi gesti dalle baracche vicine e altre voci mi gridavano di non prestar fede a quel che l'uno mi decantava; così che avrei dovuto inferire che in nessuna parte avrei trovato il mio bene, che viceversa poi si trovava in ciascuna baracca.
Il vecchio Pinzone mi trascinava per un braccio, sottraendomi a forza a gli allettamenti di questo o di quel venditore:
- Non dargli retta, vieni via! Ti vuole imbrogliare... Fa' prima il giro della fiera; quando avrai tutto veduto, sceglierai...
Nell'accanimento della concorrenza i venditori, nel vedermi allontanare così tirato per un braccio, scagliavano ingiurie e imprecazioni contro il povero Pinzone. Egli però sogghignava, tentennando la testa sotto la furia delle male parole e rispondeva soltanto a me, ripetendomi:
- Non dar retta: ti vogliono imbrogliare...
Alcuni erano più aggressivi; saltavano dal banco con un giocattolo in mano e ci attorniavano e c'impedivano il passo, l'uno offrendomi una trombetta, per esempio, l'altro una vaporiera di latta a cui s'agganciavano due o tre vagoncini; un terzo, un tamburello; e tutti e tre strillavano a Pinzone:
- Vecchiaccio imbecille, lasciate comprare al ragazzo quel che desidera. Deve forse scegliere a vostro gusto? Non vedete che vuole la trombetta?
- Ma che trombetta! Vuoi la ferrovia! Guarda: cammina sola...
- Che trombetta e che ferrovia! Vuole il tamburo: brabrà, brabrà... Le bacchette col fiocco... Tieni, prendi, bello mio! Non dar retta a codesto vecchiaccio...
Io guardavo negli occhi Pinzone.
- Lo vuoi? - mi domandava questi allora.
E io, senza staccar gli occhi, rispondevo il no ch'era negli occhi suoi e nel tono della sua domanda.
Così facevamo il giro della fiera; poi, come quasi ogni anno, finivo per ritornare innanzi alla baracca dove si vendevano le marionette, ch'eran la mia passione. Ahimè, ma anche lì tra i paladini di Francia e i cavalieri Mori, lucenti nelle loro armature di rame e d'ottone, esposti in lunghe file su cordini di ferro, ero costretto a scegliere, mentre avrei voluto portarmeli via tutti. Quale fra tanti?
- Prenda Orlando, signorino! - mi consigliava il venditore. - II più forte campione di Francia: glielo do per dieci lire e cinquanta...
Subito Pinzone, messo in guardia dalla mamma, gli saltava addosso, esplodeva:
- Bum! Dieci lire e cinquanta? Ma se non vale tre bajocchi... Figlio mio, guarda: ha gli occhi storti! E poi, sì! Campione di Francia... era un pazzo furioso...
- Prenda allora Rinaldo da Montalbano...
- Peggio... Ladro! - esclamava Pinzone.
E Astolfo era millantatore, e Gano traditore... breve, su ogni marionetta che quegli mi presentava Pinzone trovava da ridir qualcosa, finché il venditore seccato non gli gridava:
- Ma insomma, signor mio! è certo che ci vuole il tristo e il buono, il paladino fedele e Gano il traditore, se no la rappresentazione non si può fare...
Son passati tant'anni; Pinzone è morto. Io non ho ancora, per dir vero, alcun pelo bianco, che mi dia cagione d'affliggermi di quel che prima così ardentemente desideravo: un pajo di baffi e una bella barba; ma confesso che da un po' di tempo a questa parte guardo con più pungente invidia un quadretto, nel quale sono effigiato coi calzoncini di velluto a mezza gamba e una fida marionetta in mano, - tanto carino, lasciatemelo dire! E incolpo Pinzone di questo sentimento d'invidia che provo innanzi al mio ritratto da fanciullo.
Perché dovete sapere ch'io vado ancora alla fiera. Non è più quella dei giocattoli (quantunque pur ve ne siano parecchi, né manchino le marionette): è una fiera molto più grande; e ci vado per scegliervi gli eroi e le eroine de' miei romanzi e delle mie novelle. Ora l'invidia mia segue da questo: che mentre io, fanciullo, finivo a un certo punto col non prestar più ascolto alle taglienti osservazioni del grigio mio ajo e col cedere tutto infiammato alle lusinghe del venditore della baracca dei burattini; oggi sento che Pinzone, non solo vive ancora dentro di me, ma su me esercita un potere veramente tirannico, e mi guasta e mi spenge ogni gioja. Né, per quanto faccia, posso più levarmelo dattorno.
«Vedi, figlio mio,» mi va ripetendo egli continuamente all'orecchio «vedi che malinconia di fiera? Né credere a coloro che te la dipingono tutta d'oro: d'oro il cielo, d'oro gli alberi, d'oro il mare... Oro falso, figlio mio! Cartapesta indorata! E vedi che razza di eroi t'offre oggi la vita? Trionfano solo i ladri, gl'ipocriti, i birbaccioni! Scegli un eroe onesto? Sceglierai per necessità un impotente, un vinto, un meschino; e la tua rappresentazione sarà fastidiosa e affliggente. Praticando con te a tua insaputa, mi son venuto man mano istruendo un po'. Or io ti domando: Credi tu che per i posteri possa valer la scusa che l'arte tua ha rispecchiato la vita del tuo tempo? Siamo giusti: che valore avrebbe innanzi alla nostra estimativa estetica questa medesima scusa se, a mo' di esempio, ce la presentasse tutto gonfio e borioso uno scrittor del Seicento? Noi gli risponderemmo: "Tanto peggio per te, caro mio!".
«In certi momenti, o figliuolo, la vita si fa così perfida, che gli scrittori non possono farci nulla; e quanto più son fedeli nel ritrarla, tanto più l'opera loro è condannata a perire. Che virtù di resistenza vuoi che abbiano contro il tempo le creature dell'arte nate dai pensieri nostri dissociati, dalle azioni nostre impulsive e quasi senza legge, dai sentimenti nostri disgregati e nella discordia dei più opposti consigli; questi miseri, inani, affliggenti fantocci che può offrirti soltanto la fiera odierna?»
Queste e altre cose sconsolantissime mi va ripetendo di continuo Pinzone. Io mi guardo intorno, e non so rispondergli nulla. Ah, chi saprebbe, chi saprebbe crearmi, per tappargli la bocca, un eroe, non qual è, ma quale dovrebbe essere?
Tan maigre, coma lòng; e pus lòng, mon Diu, seria estat, se lo bust tot d’un crèp, coma las de butar mingre a l’ensús, se foguesse pas plechit dessot son copet dins una bòna guebeta, d’ente lo còl pareissia salhir, penosament enarcat, coma aquel d’un polastre, mas embe un gròs pomet nhocassut que lhi anava amont e aval tuchi lhi bòts que colava.
Me lo veo encà derant, vestit paurament de gris, embe un vielh chapèl destench, tot eslandrat, ente la tèsta secha secha seria esfonzaa tota entiera, se las aurelhas auguesson pas resuts lhi bòrds: totun lhi esfonzava tot lo frònt, embe las sobrecelhas: parelh que lo pichòt morre ossut, cairat semelhava que taquesse d’aquel naset becarut e cretat, d’aucèl predaire, que rendia tan característica sa fisionomia. S’esforçava d’un contun de tenir las bochas al metz de las dents, coma per mòrder, chastiar e estremar un risolet talhent, qu’avia totjorn; mas l’esfòrç en part era van, perque aquel risolet, en pas polent sortir per las bochas empreisonaas coma aquò, lhi escapava per lhi uelhs, pus malin e esbefiós que jamai.
Era mon mèstre e se sonava Pinçon.
Lo jorn di mòrts es jorn de fèsta per lhi filhets de Sicília. La Befana (benlèu perque dins las maisons de las vilas e di vilatges de l’isla lhi a pas de chimineas d’ente se pòle calar) fai pas de dons ailen. Ensita lhi fan lhi mòrts a la velha de lor fèsta, a l’entorn de mesanuech: lhi parents e lhi amís defunts pòrton en lor memòria qualque peceta, de dòuç e de juets, mas masque ai filhets savis. Pus sàvias, a mon avís, chaleria que foguesson las maires a ren avivar coma aquò, paorosament, la fantasia des mainaas. Ma maire me mandava sens autre embe lo mèstre Pinçon a la fièra di juets.
Recòrdo que pena febrila, vibranta de mila desirs me costava la chausia en aquela fièra.
Estordit dai clamors confús, bruiassiers di tanti bramaires, me viravo esbalucat d’aicí e d’ailai e escotavo d’un crèp l’elògi que chascun fasia de sa ròba, dal temp que d’autras mans m’envidavon esfaratjaas dai banquets vesins e d’autras vòutz me bramavon de pas encreire a çò que l’un me laudava: parelh que auriu degut deduire que de degun cant auriu trobat mon ben, qu’al contrari se trobava puei en chasque bancarèla.
Lo vielh Pinçon me tirasseava per un braç, me sotraient a fòrça da lhi encensaments d’aqueste o aquel venditor:
«Escote-lo pas, ven via! Te vòl embrulhar... fai derant lo vir de la fièra; quora aurès vist tot, cernirès».
Endiaulats da la concorrença lhi venditors, en veient m’elunhar coma aquò tirat per lo braç, lançavon pèst e còrns còntra lo paure Pinçon. Mas el recanhava, en dandaneant la tèsta dessot lo fuec des marrias paraulas e respondia ren que a mi, en me repetent: «Escota pas, te vòlon embrulhar...»
N’avia de mai enchanissats: embe un juet a la man, se campavon dal banquet, nos entornavon e nos empachavon d’anar anant, un m’ofrent una trombeta, un autre una vaporiera de tòla que s’acrocava a dui o tres vagonet; un tresen, un tamborin; e tuchi tres criavon a Pinçon:
«Vielhàs empestat, laissatz chatar al filh çò que lhi agrada. Qué, benlèu deu cernir a vòstre gust? Veietz pas que vòl la trombeta?»
«Mas que trombeta! Vòl la ferrovia! Ve-tu aquí: marcha da soleta...»
«Que trombeta e que ferrovia! Vòl lo tambor: brabrà, brabrà... Las baquetas embe lo flòc... Ten, pren mon bèl! Escota pas aquel vielhàs...»
Mi agachavo Pinçon dins lhi uelhs.
«Lo vòs?» me demandava el alora.
E mi, sensa destachar lhi uelhs, respondiu lo no qu’era dins si uelhs e dins lo ton de sa demanda. Coma aquò fasíem lo vir de la fièra; puei, coma esquasi tuchi lhi ans, finiu per tornar al banquet ente vendion las marionetas, qu’eron ma passion. Òh pechaire, decò aquí entre lhi paladins de França e lhi cavaliers mòrs, lusents dedins lors armaduras d’aram e d’oton, rinjats en lònjas filas sus de cordetas de fèrre, ero forçat a chausir, dal temp qu’auriu volgut portar-m’i via tuchi. Mas qual entre tanti?
«Pren Orland!» Me conselhava lo venditor. «Lo pus fòrt campion de França: te lo dono per dètz liras e cinquanta...»
Pinçon, butat en garda da la mama, lhi sautava súbit al còl, esclopava:
«Oh, bèla! Dètz liras e cinquanta? Mas se val pas tres sòuds... Agacha, mon filhet: a lhi uelhs guèrç! E puei... bò bò! Campion de França... era mat coma una ceba...»
«Alora pren Rinaud de Montauban...»
«Pejo... Ladre!» Bramava Pinçon.
E Astolf era blagaire, e Gan traditor... fin finala, sus chasque marioneta que aquel me butava derant Pinçon trobava qualquaren a dir, fins que lo venditor agaçat lhi bramava ren:
«Mas alora, bòn senhor! Segur que chal lo trist e lo bòn, lo paladin fidèl e Gan lo traditor, senon la representacion se pòl pas far...».
Son passats un baron d’ans; Pinçon es mòrt. Mi, a dir lo ver, ai pas encara degun pel blanc que me face chalmir d’aquò que derant tant ardentement desiravo: un parelh de barbís e una bèla barba; mas confesso que depuei qualque temp agacho embe un’envídia mai ponhenta un quadret, ente siu retrach en braias cortas de velut a mesa chamba e una fidèla marioneta dins la man. Tan jòli, laissatz-m’o dir! E encolpo Pinçon d’aquel sentiment d’envídia que pròvo derant mon retrach da mainat.
Perque devetz sauber que lhi vau encara a la fièra. Es pas pus aquela di juets (ben que n’aie un baron, ni manquen las marionetas): es una fièra ben mai granda; e lhi vau per chausir lhi eròis e las eroïnas di miei romanç e de mas novèlas. Aüra, mon envídia ven d’aquò: que mentre da mainat a un cèrt moment finiu per pas pus far aurelhas a las talhentas observacions de mon grís mèstre e cediu tot enflamat a lhi encensaments dal venditor de marionetas, encuei sento que Pinçon, ren masque viu encara dins mi, mas sus de mi exèrcita un poder verament tirànic, me gasta e m’estenh tota jai. Ni, per tant que face, puei pus m’o levar d’entorn.
«Vees, mon filhet», me vai repetent de contun a l’aurelha, «vees que malenconia de fièra? Cre pas an aquilhi que te la tenhon tota d’òr: d’òr lo cèl, d’òr lhi àrbols, d’òr la mar... D’òr faus, mon filhet! Cartapista endoraa! Gacha que raça d’eròis te semon encuei la vita... Triompfon masque lhi ladres, lhi ipòcritas, lhi balòs! Chausisses un eròi onest? Chausirès de segur un deble, un ganhat, un mesquin; e ta representacion serè fastidiosa e chalmissenta. En practicant embe tu sensa qu’o saubesses, plan planet me siu assabentat un pauc. E aüra te demando: Crees-tu que per aquilhi que venerèn pòle valer l’escusa que ton art a reflectut la vita de ton temp? Gacha ben: quala valor auria derant nòstri judicis estétics aquela mesma escusa se, butem, nos la presentesse tot confle e boriós un escriveire dal Sieis Cent? Nosautri lhi responderíem: «Tan pieis per tu, mon char!»
«En cèrti moments, mon filhet, la vita se fai tan marria que lhi escriveires pòlon pas lhi far ren; e mai son fidèls dins la retraire, mai lor òbra es condamnaa a murir. Que resistença vòs que aien còntra lo temp las creaturas de l’art naissuas da nòstri pensiers dissociats, da nòstras accions impulsivas e esquasi sensa lei, da nòstri sentiments desagregats e dins la descòrdia di conselhs pus opausats; aquesti paures, mesquins, chalmissents babachos que masque la fièra d’encuei pòl te semóner?»
Aquò e d’autras causas desconsolaas me vai repetent d’un contuni Pinçon. Mi m’agacho a l’entorn, e sai pas lhi respònder ren. Ah, qui sauberia, qui sauberia me crear, per lhi estopar la gola, un eròi, ren coma es, mas coma deuria èsser?
commenta