Il prigioniero - John Galsworthy
Lo preisonier - Jonh Galsworthy
di Peyre Anghilante

«Sentite! Un cardellino!» Nel giardino c'erano merli, tordi e cinciallegre in quantità; di notte si sentivano anche un gufo e un cuculo solenne che, una volta all'anno, scambiava quell'isola verde di alberi per le terre del Kent o del Surrey. Ma cardellini non se n'erano mai visti.
«Lo sento...Lassú!» disse il nostro amico e si alzò per dirigersi verso la casa.
Quando tornò, si rimise a sedere, mormorando:
«Non sapevo che teneste un uccello in gabbia!»
Ammettemmo che il nostro cuoco aveva un canarino.
«Che stupido!» commentò bruscamente.
Evidentemente si era risvegliata in lui un'emozione violenta che nessuno di noi era in grado di comprendere.
Ad un tratto proruppe:
«Non sopporto di vedere una creatura in gabbia, che si tratti di una bestia o di un uomo. Detesto l'idea della prigionia!» Fissandoci irritato, come se ci ritenesse responsabili di quella confessione, continuò in fretta:
«Alcuni anni fa ero in Germania con un amico che svolgeva un'inchiesta di carattere sociale. Un giorno mi chiese di accompagnarlo alle prigioni. Non ne avevo mai visitata una , perciò accettai. Era una giornata come questa: il cielo era terso ed ogni cosa risplendeva di quel fresco bagliore danzante che si trova solo in certe parti della Germania. La prigione, che si ergeva in mezzo alla città, era a forma di stella, dello stesso genere di quelle che sono state costruire sul progetto di Pentonville. Da quanto ci dissero, il sistema era simile a quello usato da noi molti anni fa. I tedeschi erano convinti, come del resto lo sono ancora, che i prigionieri dovessero essere murati in completa solitudine. Ma a quell'epoca l'idea era come un nuovo giocattolo, per loro, un giocattolo con cui si trastullavano con l'ardore fanatico con cui generalmente i tedeschi intraprendono qualsiasi azione. Non ho intenzione di descrivervi quella prigione né ciò che vidi. La prigione era ben amministrata, per quanto può esserlo un'istituzione condotta su un progetto tanto orribile. Il Direttore, comunque, mi fece un'ottima impressione. Vi racconterò solo l'unica cosa che non potrò mai dimenticare, perchè simbolizza l'imprigionamento di tutte le creature, animali o uomini, piccoli o grandi che siano.»
Il nostro amico s'interruppe; poi, con maggiore irritazione, come se si fosse reso conto che stava facendo violenza alla sua stessa riservatezza istitintiva, aggiunse:
«Avevamo visitato tutto quel luogo squallido, quando il Direttore chiese al mio amico se voleva vedere qualche prigioniero "a vita", "Ve ne mostrerò uno che è qui da ventisette anni" esclamò. "Come capirete" - ricordo esattamente ogni sua parola- "È logorato dalla lunga solitudine". Mentre ci dirigevamo verso la cella del prigioniero, ci raccontò la sua storia. Da ragazzo, era stato apprendista da un mobiliere; ancora giovanissimo, si era unito a una banda di scassinatori per derubare il suo datore di lavoro. Sorpreso durante il furto, si era difeso ciecamente e aveva ucciso il suo padrone. Era stato condannato a morte, ma grazie all'intervento di qualche Altezza Reale che, dopo la Battaglia di Sadowa, non sopportava piú la vista dei cadaveri, la condanna era stata tramutata in ergastolo.
Quando entrammo nella sua cella, era in piedi, immobile, a guardare il suo lavoro. Pareva sulla sessantina, ma non poteva avere piú di quarantasei anni. Un rudere curvo e tremante, con indosso un grembiule stinto. Il suo viso aveva il colorito cereo tipico di tutti i carcerati. Pareva senza lineamenti; aveva le guance incavate e gli occhi grandi, ma, a ripensarci, non riesco a ricordare il loro colore, come se non ne avessero mai avuto. Quando entrammo, uno alla volta, dalla porta di ferro, si tolse il berretto rotondo, grigio come tutto quello che lo circondava, scoprí la testa polverosa, quasi completamente calva, con un ciuffetto di capelli grigi, e rimase sull'attenti, a fissarci con un'espressione umile. Sembrava un gufo sorpreso dalla luce del giorno. Avete mai visto un bambino ammalato per la prima volta... pieno di meraviglia per le proprie sofferenze? Il suo viso era cosí, ma era anche strordinariamente gentile. Avevamo visto molti carcerati, fino a quel momento, ma quello che era l'unico dotato di tale gentilezza. La sua voce: "Ja, Herr Direktor... Nein, Herr Direktor!" dolce e struggente, che ricordo ancora come fosse oggi, non aveva piú traccia di forza». Il nostro amico s'interruppe, nel tentativo di ricostruire la scena. Poi continuò: «Aveva in mano un foglio di cartone, sul quale stava trascrivendo il Nuovo Testamento con l'alfabeto dei ciechi. Quando passò le dita magre sulla scrittura, per dimostrarci con quale facilità essi l'avrebbero letta, mi accorsi che aveva le mani polverose come quelle di un mugnaio. Nella cella non c'era niente che potesse produrre tanta polvere. Secondo me, quella che aveva sulle mani non era polvere, bensì un'escrezione di quella pianta umana ormai rinsecchita: mentre sollevava il foglio di carta, la sua mano tremava come l'ala di un insetto. Uno di noi chiese chi aveva inventato quel sistema di scrittura per i ciechi, e fece un nome. "Nein, nein" disse lui,e rimase a tremare nell'ansia di ritrovare il nome giusto. Alla fine chinò il capo, mormorando: "Ah, Herr Direktor, ich kann nicht!". Poi, all'improvviso, il nome gli uscí dalle labbra. E in quel momento, per la prima volta, parve un vero uomo. Non mi ero mai reso conte del valore della libertà, di cosa significhi il contatto con gli altri esseri umani, della necessità di avere la mente sollecitata di minuto in minuto dai suoni e dai colori, del bisogno di ricordare e di usare quello che ricordiamo. Quell'uomo non sapeva che farsene, della memoria, nella vita che conduceva; era come una pianta posta in un luogo in cui non giunge mai una stilla di rugiada. Osservare l'espressione che gli passò sul viso quando ricordò quel nome, fu come intravedere una fogliolina verde nel cuore di un arbusto inaridito». Il nostro amico si alzò e prese a passeggiare davanti a noi. «Il suo mondo era piccolo, cicoscritto ad una cella di quattro metri per tre. Vi aveva vissuto per ventisette anni, senza un'anima viva: nelle prigioni, fanno le cose a fondo. Pensate che immensa forza vitale deve esserci nell'organismo umano, se consente ad un uomo di sopportare quello che sopportava quel prigioniero... E sapete una cosa"» Si voltò a guardarci, all'improvviso. «Conservava ancora un'ombra di sensibilità! Mentre stavamo osservando la sua scrittura per i ciechi, ci porse un pezzo di legno grande come una fotografia ingrandita. Era il ritratto di una ragazza seduta al centro di un giardino, con un mazzo di fiori variopinti tra le mani; sullo sfondo, c'era un ruscelleto seminascosto fra i cespugli, e uno strano uccello, simile a un corvo, posato sulla riva. Al fianco della ragazza, un albero carico di frutti, stranamente simmetrici, diverso da qualsiasi altro albero, eppure con qualcosa di comune ad ogni altra pianta: come se fosse stato vivo, e amico dell'uomo. La ragazza ci fissava con i suoi grandi occhi azzurri perfettamente rotondi ed anche i fiori che teneva in mano parevano fissarci. L'intero quadro era pieno di... come dire?... una specie di magia. Aveva i colori crudi e le caratteristiche dei primi dipinti italiani, le stesse difficoltà superate solo grazie ad una completa dedizione. Uno di noi gli chiese se aveva imparato a dipingere prima di esere incarcerato, ma il poveretto fraintese la domanda. "Nein, nein" esclamò "Herr Direktor sa che non ho avuto una modella. È un quadro di fantasia!". E sorrise, in un modo che mi strinse il cuore. Aveva messo in quel quadro tutto quello che il suo cuore sognava: una donna, i fiori, gli uccelli, gli alberi, il cielo azzurro, l'acqua che scorreva; e la disperazione del suo spirito, al quale tutto questo era stato negato. Aveva lavorato a quel quadro, ci raccontò, per diciotto anni, distruggendolo e riproducendolo, finchè aveva creato quella centesima versione. Era un capolavoro. Sí, era rimasto là per ventisette anni, condannato a vita, a quella morte continua, senza profumi, senza colori, senza voci. Perfino senza il tocco di un oggetto della natura, senza piú ricordi. Eppure dalla sua anima assetata era scaturita la visione di una ragazza dagli occhi pieni di magia, con un mazzo di fiori in mano. Era il più grande trionfo dello spirito umano, la più grande testimonianza del potere dell'Arte!»
Il nostro amico emise una breve risata. «La mente dell'uomo, comunque, è cosí ottusa, che allora non capii a fondo l'agonia della vita di quell'uomo. Ma la capii in seguito. Vidi l'espressione dei suoi occhi, metre si sforzava di rispondere a una domanda del Direttore sulla sua salute. Non la dimenticherò piú finché vivrò. Incarnava tutta la sua tragedia, tutta l'eternità di solitudine e di silenzio che aveva sopportato, tutta l'eternità che gli restava ancora da sopportare prima di essere sepolto nel cimitero del carcere. In quegli occhi c'era piú infelicità di quanta non ne avessi mai vista in tutti gli occhi degli uomini liberi messi insieme. A un certo punto non riuscii piú a guardarli e scappai fuori dalla cella. In quel momento provai quello che provano i russi, nonostante le loro sporadiche violenze: la santità del dolore. Pensai che tutti noi avremmo dovuto inchinarci di fronte a lui; mi sentii, con la mia libertà e la mia onestà, una specie di peccatore e di ciarlatano, di fronte a quella crocefissione vivente. Qualunque crimine avesse commesso - non m'interessa la sua entità - quella povera creatura era stata cosí perseguitata che mi pareva d'essere peggio della polvere su cui posava i piedi. Quando penso a lui che, per quanto mi risulta, deve essere ancora in quella cella, mi sento nascere dentro l'odio contro i miei simili. E sento il profondo dolore di tutte le creature imprigionate nel mondo».
Il nostro amico volse il capo dall'altra parte e rimase in silenzio per alcuni istanti. «Quando uscimmo dal carcere» continuò poi «passammo dallo Stadt Park. Era ancora giorno. I faggi, i tigli, i sicomori, i pioppi, le betulle e i meli in fiore esalavano il loro profumo. I rami e le foglie brillavano di felicità. Il parco era pieno di uccelli, simbolo di libertà.. Svolazzzavano nell'aria, lanciando il loro canto verso il sole. Ogni cosa sembrava incantata. Ricordo di aver pensato che in tutta la Natura solo gli uomini e i ragni usano nei confronti delle creature una tortura cosí lenta; e solo gli uomini lo fanno a sangue freddo, contro la loro stessa specie. A quanto mi risulta questo è un fatto di storia naturale. Vi dico una cosa: vedere, come ho visto io, un'infelicità tanto profonda negli occhi di un uomo, significa non potersi piú sentire uguali nei confronti dei nostri simili.Quella sera rimasi seduto in un café ad ascoltare la musica, le chiacchiere, le risate, a guardare la gente che passava nella strada. Commessi, soldati, mercanti, ufficiali, preti, mendicanti, aristocratici, donne di piacere. Guardai la luce che pioveva dalla vetrata del café e le foglie che frusciavano contro un meraviglioso cielo buio. Guardai e sentii, ma non vidi e non ascoltai niente. Vedevo solo il viso gentile e cereo del povero prigioniero, i suoi occhi, le sue mani polverose e tremanti, vedevo il quadro che aveva dipinto in quell'inferno. Cosí come li vedo ancora, tutte le volte che guardo o sento una creatura solitaria chiusa in gabbia».
Il nostro amico smise di parlare. Poco dopo si alzò, scusandosi, e ci lasciò.
Era una bèla jornaa d’istat, dins un jardin de Londra: lhi aucèls avion pas encara abandonat lors chants primaverils e las darriers flors demoravon sus lhi àrbols. A un moment nòstre amís a dich:
«Sentetz! Un cardelin!». Lo jardin boleava de mèrles, tords e capnègres; de nuech s’auvion decò un dugo e un cuco solemne que, un bòt a l’an, eschambiava aquel vèrd bosquet per las tèrras dal Kent o dal Surrey. Mas de cardelins se’n eron pas jamai vists.
«Lo sento... ailamont!», a dich nòstre amís e s’es auçat per anar vèrs la maison.
Quora es tornat, s’es mai assetat e a mormorat:
«Saubiu pas que tenéssetz un auçel en gàbia!».
Avem admetut que nòstre cusinier avia un canarin.
«Que nhòc!», a dich gramuenh.
Era clar que dins el s’era desrevelhaa un’emocion violenta que degun de nosautri polia comprene.
Puei, coma enflamat:
«Me desranja veire una creatura en gàbia, que sie bèstia o òme. Detesto l’idea de la preisonia!». En nos beicant einhat, coma se lhi auguéssem desrabaa la confession, a continuat tot orfandat:
«Fai qualque an ero en Germània embe un amís que s’ocupava d’una enquèsta sociala. Un jorn m’a prepausat de l’acompanhar dins una preison. N’aviu pas jamai vista una, coma aquò lhi siu anat. Era una jornada coma aquesta: lo cèl era un miralh e tot relusia dins aquela lutz clara e dançanta que se tròba masque en qualque pòst de la Germània. La preison, que s’auçava al metz de la vila, era a forma d’estèla, a la mòda d’aquelas que son naissuas d’après lo projèct de Pentonville. Da çò que nos an dich, lo sistèma era parier an aquel qu’adobravon nosautri un bòt. Lhi Tedèscs eron convinçuts, coma d’autre cant son encara, que lhi preisoniers devesson èsser enclaus en total isolament. Mas an aquilhi temps l’idea era per lor coma una nòva demora, que lhi amusava embe aquela ardor fanàtica que marca en profond l’esperit tedèsc. Vuelh pas vos descriure aquela preison, ni aquò qu’ai vist. La preison era ben governaa, per tant que pòl far un’institucion que sosten un projèct tant orrible. Totun, lo director m’a fach una bòna impression. Vos contiarei masque la soleta causa que jamai polerei desmentiar, perque simboliza l’empreisonament de totas creaturas, bèstias o òmes, pichòts o grands que sien.»
Es restat un moment en silenci; puei, mai einhat, coma se se foguesse avisat que istava fasent violença a son istintiva resèrva, a dich:
«Avíem visitat tot aquel luec afrós, quora lo director a demandat a mon amís se volia veire qualque preisonier “a vita”. “Vos ne’n mostrarei un qu’es aicí depuei vint-e-sèt ans” exclamet. “Coma capirètz” - me soveno ben chasque sia paraula - “es provat da la lònja solituda”. Da temp que anàvem vèrs la cèla, avem escotat son estòria. Quand era un filh, era estat aprendís da un mobilier; encara jove, s’era jontat a una banda d’escassinadors per deraubar son patron. Sorprés ental raubalici, desperat s’era defendut e l’avia maçat. Era estat condamnat a mòrt, mas gràcias a l’òrdre d’una Autessa Reala que, après la Batalha de Sadowa, polia pas pus réser la vista di mòrts, sa condana era estaa tramutaa en preison a vita.
«Quand sem intratz, el era en pè, fèrm, a gachar son trabalh. Semelhava sus la sessantena, mas polia pas aver mai de quaranta sieis ans. Un òme plechit e tramolant, embe a còl una vèsta estencha. Son morre era palle, un morre da carcerat. Semelhava sensa trachs; avia las jautas enfonzaas e lhi uelhs grands, mas, se lhi penso, me soveno pas lo color, coma se l’auguesson pas jamai agut. Quora, un per bòt, sem intrats da la pòrta de fèrre, el s’es levat la calòta reonda, grisa coma tot aquò que lhi avia a l’entorn, a descurbèrt la tèsta possieirosa, esquasi pelaa, embe una vela de pels gris, e es restat sus la garda, en nos gachant úmil. Semelhava un dugo sorprés dal clar dal jorn. Avetz já vist un filhet malate per lo premier bòt... esmaravilhat de sas sufrenças? Son morre era parelh, mas decò extraordinariament gentil. Avíem vist un baron de carcerats, fins an aquel moment, mas degun exprimia aquela gentilessa. Sa vòutz “Ia, Herr Director... Nein, Herr Director” dòuça e esmoventa, que recòrdo encara coma foguesse encuei, avia pas pus deguna fòrça.» Nòstre amís a quitat son parlar, en cerchant de reconstruïr la scèna. Puei a continuat:
«Tenia dins la man un papier de carton, ente era en tren de transcriure lo Nòu Testament dins l’alfabet di bòrnhs. Quora a passat si dets maigres sus l’escritura, per nos demostrar embe quala facilitat l’aurion lesua, ai notat sas mans possieirosas, coma aquelas d’un molinier. Dins la cèla lhi avia pas ren que polguesse far tant de possiera. Second mi, aquò era pas de possiera, mas un trassuament d’aquela planta umana vengua secha: mentre qu’auçava lo fuelh de papier, sa man tramolava coma l’ala d’un insèct. Un de nosautri a demandat qui avia inventat aquel sistèma d’escritura per lhi bòrnhs, e a fach un nom. “Nein, nein” diset el, e es restat a tramolar dins l’ànsia de trobar lo nom just. A la fins a baissat la tèsta, en murmurant: “Ah, Herr Director, ich kann nicht!”. Puei, tot d’un crèp, lo nom lhi es sortit da las bochas. E aquí, per lo premier bòt, es pareissut un òme ver. M’ero pas jamai rendut còmte de la valor de la libertat, de çò que vòle dir lo contact embe las autras personas, dal besonh d’aver la ment estimulaa a chasque moment dai sòns e dai colors, dal besonh de recordar e d’adobrar çò que recordem. Aquel òme saubia ren çò que se’n far, de la memòria, dins la vita a la quala era constrech; era coma una planta pausaa dins un canton ente arriba pas jamai un’estiça de rosaa. Agachar l’expression de son morre quora s’es recordat aquel nom, es estat coma entreveire una fuelheta vèrda dins un boisson secharós.» L’ amís s’es auçat e a comencatt a se promenar derant nosautri.«Son mond era pichòt, sarrat dedins una cèla de quatre mètres per tres. Lhi avia viscut per vint-e-sèt ans, sens anma creaa: dins las preisons, fan las causas a fons. Pensatz qu’immensa fòrça vitala deu demorar dins l’esperit uman, se consent a un òme d’endurar çò qu’endurava aquel preisonier... E saubetz una causa?», s’es virat nos gachar a l’emprovís. «Gardava encara de sensibilitat! Mentre agachavon son escritura per lhi bòrnhs, nos a porzut una tauleta de bòsc, pariera a una fotografia engrandia. Era lo retrach d’una filha setaa al metz d’un jardin, embe un boquet de flors coloraas dins las mans; sal fons, un bealòt un pauc estremat e un dròlle auçèl, parier a un corbàs, pausat sus la riba. Arrent a la filha, un àrbol charjat de fruchs, tuchi simètrics, diferent da tuchi lhi autri àrbols, e totun embe qualquaren de comun a totas las plantas: coma se foguesse estat viu, e amís de l’òme. La filha nos gachava embe si grands uelhs blòis, e decò las flors qu’avia dins las mans semelhavon nos agachar. L’entier quadre era plen de... coma dir?... una sòrta de magia. Avia las colors cruas e las características di premiers quadres italians, las mesmas dificultats sobraas masque gràcias a una profonda dedicion. Un de nosautri lhi a demandat se avia emprés a pintrar derant d’èsser enpreisonat, ma lo paure a malentendut la demanda: “Nein, nein”, exclamet, “Herr Director sa que ai pas agut una modèla. Es un quadre de fantasia!” E a soriüt d’un biais que m’a sarrat lo còr. Avia butat dins aquel quadre tot aquò que sumiava son còr: una filha, las flors, lhi aucèls, lhi àrbols, lo cèl blòi, l’aiga que corria; e la desperacion de son còr, al qual tot aquò era estat negat. Avia trabalhat an aquel quadre, nos a contiat, per dètz-e-uech ans, l’avia desbelat e tornat far fins qu’avia creat aquela centena version. Era meravilhós. Bò, era restat ailai per vint-e-sèt ans, condamnat a vita, an aquela mòrt contínua, sensa profums, sensa colors, sensa deguna vòutz; sensa poler tochar un objèct de la natura, sensa pus de recòrds. E pasmens da son anma plena de set era espelia la vision d’una filha dai uelhs plens de magia, embe un boquet de flors dins la man. Era l’afermacion de l’esperit uman, la testimoniança mai granda dal poder de l’art!».
Nòstre amís a fach un riset. «La ment de l’òme totun es tan barraa que sal moment ai pas comprés a fons l’agonia d’aquel òme. Mas l’ai capia après. Ai gachat si uelhs, mentre s’esforçava de respònder a una demanda dal director sus sa santat. Lhi desmentiarei pus tant que viurei. Encharnavon tota sa tragèdia, tot lo silenci e la solituda qu’avia endurat, tota l’eternitat que devia encara endurar derant d’èsser enterrat dins lo cementieri de la preison. Gardavon mai de tristessa aquilhi uelhs de tota aquela qu’aviu vist dins lhi uelhs de lhi òmes libres. A un moment siu pus arribat a lhi gachar e me’n siu anat da la cèla; alora ai provat aquò que lhi russes, malgrat lors esporàdicas violenças1 sònon “la santitat dal dolor”. Ai pensat que tuchi nosautri auríem degut nos clinar derant el; derant aquela crucifixion viventa me siu sentut, embe ma libertat e mon onestat, una sòrta de pechaire e de charlaton. Qual que foguesse estat son crime - aquò empòrta pas - aquela paura creatura avia subit una tala pena que me semelhava d’èsser pejo de la possiera que demorava dessot si pè. Quora penso an aquel òme que, a quant me resulta, deu èsser encara ailai, me sento nàisser dedins l’òdi per l’umanitat. E sento la dolor fonza de totas creaturas empreisonaas ental mond.».
Nòstre amis a virat la tèsta de l’autre cant e es restat en silenci una peceta. «Quora sem sahits da la preison», a puei continuat, «sem passats da lo Stadt Park. Fasia encara jorn. Lhi fauls, lhi telhs, lhi aseraus, las albras, las beulas e lhi pomiers en flor espanteavon lors profums. Las branchas e las fuelhas treslusion de jai. Lo parc era borrat d’aucèls, símbol de libertat; volasseavon dins l’aire, en lançant lor chant vèrs lo solelh. Tot semelhava enchantat. Me soveno d’aver pensat que dins tota la Natura masque lhi òmes e lhi ranhs adòbron vèrs las creaturas una tortura tan lenta; e masque lhi òmes lo fan a sang frèid, còntra d’autri òmes. Per çò que ne’n sai, aquò es un fach d’istòria naturala. Vos diso una causa: veire, coma ai vist mi, un malaür tan profond dedins lhi uelhs d’un òme, vòl dir se poler pus sentir parier derant lhi autri òmes. Aquel sera siu restat dins un cafè a escotar la música, lo charrar de la gent, lhi rires, a gachar lo monde que passava per la via... comés, soldats, marchands, preires, mendicants, nòbles, fremas de plaser. Ai gachat la lutz que plovia dal veiral dal cafè e las fuelhas que forfolhavon còtra un cèl blòi meravilhós. Ai gachat e ai sentut, mas ai pas vist ni escotat. Veïu masque lo morre jòli e palle d’aquel paure preisonier, si uelhs, sas mans possieirosas e tramolantas, veïu lo quadre qu’avia pintrat dins aquel unfèrn. Parelh coma lhi veo encara encuei, tuchi lhi bòts que veo o sento una creatura soleta sarraa dins una gàbia.».
Nòstre amís a quitat de parlar. Pauc après s’es auçat, en s’escusant, e nos a laissats.
1 Ndr: N’i a qu’aurion qualquaren a redir sus aquesta afermacion francament un pauc ingènua e fatalament errònea, en considerant qu’es estaa escricha pauc derant (1909) qu’en Rússia s’instituesse lo sistèma di Gulag (mas aquel sistèma carcerari avia já una lònja tradicion, bèla dins la literatura, depuei lo sècle XIX).
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