Il paese, lë paî, di Riccardo Colturi è certamente Fenils, Finioou, villaggio dell’alta Valle della Dora, col suo campanile (Clucìe) e il suo orizzonte racchiuso tra il Fraiteve e lo Chaberton, sormontato dall’arco del cielo percorso di notte dalla luna (Luno). Ed è il protagonista principale – presente anche quando non viene menzionato esplicitamente – di questa raccolta di scritti composti nell’occitano che lì si parla.
A mano a mano che si avanza nella lettura, tuttavia, la sua esistenza fisica quasi si fa evanescente e diventa chiaro che esso è prima di tutto un luogo dell’anima, dove si ancorano le memorie e si può contemplare la semplice e immensa bellezza. A chi vive, o ha vissuto, i tempi lenti della montagna non sarà difficile ritrovare nella descrizione del ciclico mutare dell’ambiente, o del manifestarsi del sole, del vento e della nebbia, altrettante epifanie della bellezza della natura.
Ma la montagna, di per sé, non è né bella né brutta, sono infatti gli occhi, cioè la cultura di chi osserva (ma anche altri sensi vengono coinvolti), che scorgono in essa gli elementi capaci di smuovere un’emozione. Colturi vede infatti la bellezza prima di tutto nei prâ séa e bien ratlâ (Baguëtto magicco), nelle mura solidda, an peiŕo, bien faita (Vellha muŕallha), nella montagna, insomma, che reca traccia del lento e sofferto lavorio dell’uomo per trarne di che vivere. E non ci stupisce, perché egli è nell’intimo un contadino montanaro, ultimo di un lignaggio di uomini e donne che abou amour e vouŕountà (Clapìe) hanno compiuto, uno dopo l’altro, l’antico gesto di levare la pietra dal prato per non rovinare la falce al prossimo sfalcio. Ma al contempo, Colturi è anche il primo di una nuova generazione di montanari, che ha imparato ad apprezzare la montagna guardandola con occhi nuovi, da cittadino forse. La bianca distesa di neve è per lui, che è stato maestro di sci, anche invito a scivolare veloce e leggero sul manto immacolato (Foŕë pisto). Si saldano quindi in lui due culture differenti che trovano un punto di incontro nel porsi dinnanzi all’ambiente con atteggiamento rispettoso e meravigliato.
Ma questa saldatura non rappresenta che un fugace momento di quiete, che riusciamo a vedere in controluce, in uno scontro tra due mondi diversi, dove all’uno, quello della montagna tradizionale, è toccato soccombere di fronte al modello di sviluppo orientato su modelli cittadini. Colturi, pur non avendo dovuto abbandonare la valle (anche un breve allontanamento provoca nostalgia profonda, Ma valaddo), vive anche lui la frattura tra il mondo di “prima” e quello di “adesso”. Coumà a la pënsou mi è il suo manifesto e la sua “lettura dei fatti”; una lettura che non lascia spazio a futuri radiosi – e in fondo il sentimento della fine emerge anche in altri momenti, come in Prougré per esempio. Il mondo dei vecchi non è più e pur duro viene idealizzato come tempo carico di significato a fronte a un’attualità percepita come caotica e isterica; idealizzazione che a volte si arrischia in certo fin troppo facile moralismo, come tentativo di risposta alla perdita del senso dell’esistere.
La lingua diventa il veicolo per ristabilire un legame con quel mondo. I versi semplici di Colturi restituiscono la parlata dell’Alta Dora – alla quale egli ha dedicato tempo e amore – in modo autentico, senza purismi e senza farsi trasportare dal gusto per la parola ricercata. Temi e immagini sono commisurati a questa lingua, così perfetta e completa nel nominare l’ambiente e così parca nel dar voce ai sentimenti. Leggerli è farsi accompagnare in quell’angolo di mondo che il tempo lento e ciclico espande a dismisura ed è un invito a soffermarsi sulle piccole cose, per alcuni fortunati quotidiane, scoprendovi i ritmi essenziali della bellezza e della vita.
Matteo Rivoira
Matteo Rivoira è cresciuto a Rorà in Val Pellice, dove nelle lunghe estati dell’infanzia passate in montagna con i nonni inizia a parlare in patois che diventa così una delle lingue principali che usa in famiglia e in paese. L’importanza di quelle esperienze si manifesta pienamente quando un incontro fortuito con Arturo Genre – che considera uno dei suoi maestri anche se lo ha incontrato una volta sola (ma ne ha letto e studiato a lungo gli scritti) – imprime una svolta decisiva ai suoi studi che si spostano dalla letteratura francese alla dialettologia, riportandolo per certi versi al punto da cui era partito, con la preparazione di una tesi di laurea dedicata ai nomi di luogo del paese. Il nuovo filone di interesse lo porta, per una serie di circostanze fortunate, a continuare anche dopo la laurea a collaborare all’Atlante Toponomastico del Piemonte Montano. Più o meno contemporaneamente inizia il suo impegno nel campo della tutela e della promozione dell’occitano della sua valle. Successivamente inizia la sua attività presso l’Atlante Linguistico Italiano dell’Università di Torino, dove tuttora lavora; da qualche anno tiene anche corsi di dialettologia, spesso incentrati su tematiche relative alle minoranze linguistiche.
commenta