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Edizione 2010

Premio Nazionale Boris Pahor

Premio Nazionale Boris Pahor
È nato a Trieste il 28 agosto del 1913.
Laureatosi in Lettere all'Università di Padova, tornò nella città natale per dedicarsi all'insegnamento della letteratura italiana e slovena. Durante la seconda guerra mondiale decide di unirsi alle truppe partigiane slovene operanti in Venezia Giulia. Nel 1955 descriverà quei giorni decisivi nel romanzo Mesto v zalivu (Città nel golfo), che lo porta alla ribalta letteraria nella vicina Slovenia.
Catturato dai nazisti nel 1944, è internato in vari campi di concentramento in Francia e in Germania (Natzweiler-Struthof, Dachau, Bergen-Belsen).
Quell’esperienza sarà al centro del suo romanzo di maggior successo, Necropoli (1997).
Negli anni cinquanta, diventa il redattore principale della rivista triestina Zaliv (Golfo) che si occupa, oltre a temi strettamente letterari, anche di questioni di attualità. Nel 1975 pubblica, assieme all'amico triestino Alojz Rebula, il libro “Edvard Kocbek: testimone della nostra epoca” (Edvard Kocbek: pricFFevalec nasFFega cFFasa) in cui il poeta sloveno denuncia il massacro di 12.000 prigionieri di guerra, appartenenti alla milizia anti-comunista slovena e i crimini delle foibe. Le opere di Pahor vengono proibite nella Repubblica Socialista di Slovenia e allo scrittore è vietato l'ingresso in Jugoslavia.
Nonostante ciò e grazie alla sua dirittura morale ed estetica, Pahor diventa uno dei più importanti punti di riferimento per la giovane generazione di letterati sloveni.
Le sue opere, scritte nella lingua madre slovena sono tradotte in francese, tedesco, serbocroato, ungherese, inglese, spagnolo, catalano, finlandese e, solo tardivamente, in italiano.
Nel 1992 ha ottenuto il Premio Preceren, maggiore onorificenza slovena nel campo culturale; nel 2003 il San Giusto d’Oro; nel 2007 è stato insignito con l’onorificenza francese della Legion d'onore; nel 2008 ha vinto il Premio Internazionale Viareggio-Versilia e il Premio Napoli per la categoria “Letterature straniere” con Necropoli.
Tra le altre sue opere tradotte in italiano: Il rogo nel porto (2001), La villa sul lago (2002), Il petalo giallo (2007) e Qui è proibito parlare (2009).

La poetica di tormentata lucidità delle opere di Pahor è sempre sospesa tra la memoria individuale e collettiva e la denuncia delle libertà negate o strozzate, tra cui emerge quella del diritto alla propria lingua, segno indelebile di identità. È così che il più grande autore vivente di lingua slovena si trasforma in vera e propria coscienza critica del secolo scorso, voce che grida il diritto di vivere di una minoranza linguistica spesso perseguitata nel tentativo di estirparla dai nostri confini. Pahor è strenuo difensore del dialogo tra culture nel mantenimento della ricchezza che deriva dalle diversità. Egli va senza dubbio annoverato tra i più interessanti scrittori di area mitteleuropea ed è stato tradotto con colpevole ritardo nella nostra lingua, grazie al Consorzio Culturale del Monfalconese, che solo nel 2005, partendo da una traduzione di Ezio Martin dei primi anni Settanta, ha dato alle stampe Nekropola/Necropoli, testo pubblicato nel 1967, definito da Claudio Magris “libro eccezionale, annoverato da decenni fra i capolavori delle letteratura sullo sterminio”.
Una testimonianza delicata e lacerante al contempo, che può essere affiancata, senza timori, all’opera di Primo Levi.

ANTOLOGIA BORIS PAHOR

I. Necropoli

Forse mi aiutò a fare la sua conoscenza anche quella speciale facoltà tutta slovena di immedesimarsi nello spirito di una lingua straniera. Non so se questa nostra attitudine sia il segno di ricchezza psicologica, della vivacità interiore e della caleidoscopica versatilità della nostra anima, o soltanto la prova di quella meravigliosa elasticità che ci ha permesso di arricchirci attraverso i secoli, traducendosi in una duttilità e in un bisogno di adattamento ininterrotti. Comunque sia, in ciò siamo simili agli ebrei e agli zingari, anche noi, come loro, attraverso tutta la nostra storia abbiamo avuto a che fare con il tema dell’assimilazione. Jean era di buonumore, nonostante l’affollamento fosse opprimente e lo stato in cui era tenuta la baracca la facesse somigliare davvero a un carro viaggiante degli zingari. Non capiva come mai non fossi italiano, visto che portavo l’iniziale I al centro del triangolo rosso. Mentre mi fasciava in mezzo al pigia pigia, gli spiegai della prima guerra mondiale, del patto di Londra, del Litorale adriatico.”Ciò significa che a casa vostra parlate la vostra lingua”, disse.”Sì, lo sloveno”, risposi.”Quindi”, continuò, “puoi capire un ceco, un polacco e un russo?” Sebbene lo spingessero da dietro, continuava a fasciarmi con tutta calma. Allora sorrisi, rendendomi conto che Jean aveva scoperto qualcosa di cui fino a quel momento non ero stato consapevole. Com’era lontano il tempo in cui in Libia avevo imparato, dai giovani croati dell’Istria, la loro lingua armoniosa! La sabbia africana che ci scricchiolava sotto i denti era scomparsa da un pezzo, così come si erano dissolti i due anni che avevo passato vicino al lago di Garda come interprete degli ufficiali jugoslavi prigionieri. Non mi era mai passato per la testa che tutto ciò avrebbe potuto venirmi in aiuto nel corso del mio duello con la morte.
(...)
all’arrivo a Dachau io ero ridiventato un numero qualsiasi. Devo riconoscere che le responsabilità di questo isolamento fu in gran parte dovuta alla mia allergia a stabilire stretti legami con chiunque. I miei rapporti con gli altri possono essere molto cordiali, ma non evolvono mai fino a una completa intimità. Un po’ del mio carattere chiuso deriva probabilmente dagli elementi carsici che porto in me; una buona parte l’ho ereditata da mia madre, ma il sigillo finale gli è stato impresso dagli anni caotici seguiti alla prima guerra mondiale. Il trauma più grave insorse quando i maestri sloveni vennero cacciati dalla scuole di Trieste. Una lingua che ti viene imposta in luogo di quella materna e la coscienza di appartenere a una razza condannata.

Necropoli, Edizioni del Consorzio Culturale del Monfalconese 2005
ora Fazi Editore, Roma 2008

II. Qui è proibito parlare

Consapevole che l’uomo cercava di spaventarla solo a parole, Ema sentì crescere un coraggio sconosciuto e vi si aggrappò come alle corde all’angolo di piazza Ponte Rosso nei giorni di bora,
“Non ho preso parte alla distribuzione” dichiarò, “ma sarebbe stato un onore per me farlo”.
“Si rende conto di quanto va dicendo?”, le chiese sbalordito, squadrandola come se non credesse alle proprie orecchie.
Ema teneva gli occhi puntati sull’edizione di Kola?ki che lo Smilzo stringeva tra le dita sottili della mano destra e si rammaricò al pensiero che un bambino fosse stato privato del libro, ma si consolò al pensiero che forse se ne erano procurati una copia non confiscata.
“Ne conosce il contenuto?”, incalzò lo Smilzo perché chiarisse la sua precedente dichiarazione.
“Certo. Poesie per bambini, tra cui anche quelle che il più grande poeta contemporaneo sloveno dedicò al proprio figlio minore, poesie che ora tutti i bambini sloveni possono leggere”, disse tutto d’un fiato.
“Qui siamo in Italia e i bambini leggono i libri che le autorità scelgono per loro”, disse l’uomo sbattendo il libro sul ripiano di vetro della scrivania; però non sembrava ancora arrabbiato. Ema pensò che non fosse del tutto convinto che lei lo stesse sul serio contraddicendo.
“I bambini sloveni hanno il diritto di leggere i libri scritti nelle loro lingua madre”, disse Ema sostenendo lo sguardo del poliziotto.”È una promessa che c’era stata fatta alla fine della prima guerra mondiale”.
La bocca dello Smilzo si torse in una smorfia.”Le promesse fatte dai politici marci del tempo non hanno alcun valore”.
“Ritengo che il rispetto dei diritti umani non abbia niente a che vedere col marciume”.
Allora l’uomo sorrise inaspettatamente, come se considerasse questa fiducia degli sloveni nelle parole dei responsabili italiani un fatto positivo che meritava una risposta gentile.
“I nostri libri per l’infanzia sono pieni di poesie magnifiche”, disse bonariamente.
“Nessuno lo nega, tuttavia ognuno ha più a cuore i propri libri”.
“Non si può paragonare la bellezza della lingua di Dante con un dialetto privo di storia”.
“Prima di tutto, la nostra lingua non è priva di storia, ma anche se lo fosse ci piacerebbe cos’ì com’è”.
“Significa che non le piace l’italiano?”.
“L’amore per la propria lingua non esclude il rispetto per una lingua straniera. Si potrà anche amare il francese, ma si darà sempre la precedenza alla propria lingua madre”.
“Lei parla il francese?”.
Ema ebbe l’impressione che vi fosse un lampo di ammirazione nei suoi occhi, però l’illusione svanì in un attimo e lo Smilzo si alzò afferrando e stringendo il libro tra le dita.
“Questo è suolo italiano e i cittadini di questo paese hanno il dovere di attenersi alle leggi dello Stato!”.
“Infatti”, disse tranquilla.”È per questo che ci costringete a insegnare di nascosto ai bambini l’amore per la lingua slovena”.
L’uomo si strozzò come se, per un attimo, la rabbia gli avesse mozzato il fiato.
“Quindi ammette di aver collaborato alla distribuzione dei libri?”
Per “noi” intendo tutti gli sloveni, la minoranza slovena in Italia”.

Qui è proibito parlare, Fazi Editori, Roma 2009


III. Il petalo giallo

“So ben poco di lei” riprese Igor. “Ma per quanta devastazione ci sia nel suo passato, penso di non sbagliare se affermo che ha nuotato contro corrente, e con successo. Non voglio adularla né fare congetture, constato piuttosto che, nonostante una certa vulnerabilità, in lei si manifesta, parallelamente, una caparbietà decisa e scontrosa”.
“Diciamo piuttosto ribellione”.
“Va bene, diciamo pure ribellione. O entrambe le cose”.
Tacque per alcuni istanti, poi riprese.
“Prima di venire a Parigi, ho scritto un saggio sulla dittatura fascista nella Venezia Giulia, di cui l’Europa non sa praticamente nulla, sebbene sia durata per ben un quarto di secolo e abbia cercato di annientare l’identità degli sloveni. Certo finora mi sono occupato del genocidio culturale nei suoi aspetti generali, ma forse sarebbe ancora più importante provare ad analizzare il trauma del singolo individuo -di uno scolaro, per esempio- al quale viene imposta una lingua straniera, tanto che smarrisce l’immagine di se stesso. Così si trova diviso in due, per di più, si sente colpevole se cerca di ritrovare il suo io originario. Bene, ora non mi metterò a raccontarle tutta la triste storia nel suo tortuoso sviluppo, vorrei però prendere in prestito l’immagine del gorgo nel suo sogno. Credo che sia fondamentale non arrendersi, ma aprirsi un varco nel vuoto. In questo siamo molto simili, o almeno così mi sembra”.
“Già, ho anch’io quest’ impressione”. Quindi rimase in silenzio e sul suo viso calò un velo di incertezza. Proprio come ieri, pensò lui, ma in maniera meno evidente.
Lucie proseguì: “Sì lei ha ragione: riuscire ad aprirsi un varco nel nulla offre una via di scampo, senza dubbio. Eppure resta la consapevolezza d’aver perso il passato. Senza legami col luogo di origine, con la sua natura, si è invalidi, anche peggio: ci si trova su una zattera in balia delle onde”.
“Anch’io mi sono sentito un relitto, quando sono tornato dal mondo dei forni crematori. Ero un nomade, uno sradicato, Be’, ora va meglio. Mi piace descrivermi come un vagabondo, ma in realtà ho una casetta nella baia di Duino”.
Sorrise, sperando che lo facesse anche lei. E così fu.

Il petalo giallo / Zibelka sveta, Zandonai Editore, Rovereto 2007

Premio Nazionale Boris Pahor

Premio Nazionale Boris Pahor
È nato a Trieste il 28 agosto del 1913.
Laureatosi in Lettere all'Università di Padova, tornò nella città natale per dedicarsi all'insegnamento della letteratura italiana e slovena. Durante la seconda guerra mondiale decide di unirsi alle truppe partigiane slovene operanti in Venezia Giulia. Nel 1955 descriverà quei giorni decisivi nel romanzo Mesto v zalivu (Città nel golfo), che lo porta alla ribalta letteraria nella vicina Slovenia.
Catturato dai nazisti nel 1944, è internato in vari campi di concentramento in Francia e in Germania (Natzweiler-Struthof, Dachau, Bergen-Belsen).
Quell’esperienza sarà al centro del suo romanzo di maggior successo, Necropoli (1997).
Negli anni cinquanta, diventa il redattore principale della rivista triestina Zaliv (Golfo) che si occupa, oltre a temi strettamente letterari, anche di questioni di attualità. Nel 1975 pubblica, assieme all'amico triestino Alojz Rebula, il libro “Edvard Kocbek: testimone della nostra epoca” (Edvard Kocbek: pricFFevalec nasFFega cFFasa) in cui il poeta sloveno denuncia il massacro di 12.000 prigionieri di guerra, appartenenti alla milizia anti-comunista slovena e i crimini delle foibe. Le opere di Pahor vengono proibite nella Repubblica Socialista di Slovenia e allo scrittore è vietato l'ingresso in Jugoslavia.
Nonostante ciò e grazie alla sua dirittura morale ed estetica, Pahor diventa uno dei più importanti punti di riferimento per la giovane generazione di letterati sloveni.
Le sue opere, scritte nella lingua madre slovena sono tradotte in francese, tedesco, serbocroato, ungherese, inglese, spagnolo, catalano, finlandese e, solo tardivamente, in italiano.
Nel 1992 ha ottenuto il Premio Preceren, maggiore onorificenza slovena nel campo culturale; nel 2003 il San Giusto d’Oro; nel 2007 è stato insignito con l’onorificenza francese della Legion d'onore; nel 2008 ha vinto il Premio Internazionale Viareggio-Versilia e il Premio Napoli per la categoria “Letterature straniere” con Necropoli.
Tra le altre sue opere tradotte in italiano: Il rogo nel porto (2001), La villa sul lago (2002), Il petalo giallo (2007) e Qui è proibito parlare (2009).

La poetica di tormentata lucidità delle opere di Pahor è sempre sospesa tra la memoria individuale e collettiva e la denuncia delle libertà negate o strozzate, tra cui emerge quella del diritto alla propria lingua, segno indelebile di identità. È così che il più grande autore vivente di lingua slovena si trasforma in vera e propria coscienza critica del secolo scorso, voce che grida il diritto di vivere di una minoranza linguistica spesso perseguitata nel tentativo di estirparla dai nostri confini. Pahor è strenuo difensore del dialogo tra culture nel mantenimento della ricchezza che deriva dalle diversità. Egli va senza dubbio annoverato tra i più interessanti scrittori di area mitteleuropea ed è stato tradotto con colpevole ritardo nella nostra lingua, grazie al Consorzio Culturale del Monfalconese, che solo nel 2005, partendo da una traduzione di Ezio Martin dei primi anni Settanta, ha dato alle stampe Nekropola/Necropoli, testo pubblicato nel 1967, definito da Claudio Magris “libro eccezionale, annoverato da decenni fra i capolavori delle letteratura sullo sterminio”.
Una testimonianza delicata e lacerante al contempo, che può essere affiancata, senza timori, all’opera di Primo Levi.

ANTOLOGIA BORIS PAHOR

I. Necropoli

Forse mi aiutò a fare la sua conoscenza anche quella speciale facoltà tutta slovena di immedesimarsi nello spirito di una lingua straniera. Non so se questa nostra attitudine sia il segno di ricchezza psicologica, della vivacità interiore e della caleidoscopica versatilità della nostra anima, o soltanto la prova di quella meravigliosa elasticità che ci ha permesso di arricchirci attraverso i secoli, traducendosi in una duttilità e in un bisogno di adattamento ininterrotti. Comunque sia, in ciò siamo simili agli ebrei e agli zingari, anche noi, come loro, attraverso tutta la nostra storia abbiamo avuto a che fare con il tema dell’assimilazione. Jean era di buonumore, nonostante l’affollamento fosse opprimente e lo stato in cui era tenuta la baracca la facesse somigliare davvero a un carro viaggiante degli zingari. Non capiva come mai non fossi italiano, visto che portavo l’iniziale I al centro del triangolo rosso. Mentre mi fasciava in mezzo al pigia pigia, gli spiegai della prima guerra mondiale, del patto di Londra, del Litorale adriatico.”Ciò significa che a casa vostra parlate la vostra lingua”, disse.”Sì, lo sloveno”, risposi.”Quindi”, continuò, “puoi capire un ceco, un polacco e un russo?” Sebbene lo spingessero da dietro, continuava a fasciarmi con tutta calma. Allora sorrisi, rendendomi conto che Jean aveva scoperto qualcosa di cui fino a quel momento non ero stato consapevole. Com’era lontano il tempo in cui in Libia avevo imparato, dai giovani croati dell’Istria, la loro lingua armoniosa! La sabbia africana che ci scricchiolava sotto i denti era scomparsa da un pezzo, così come si erano dissolti i due anni che avevo passato vicino al lago di Garda come interprete degli ufficiali jugoslavi prigionieri. Non mi era mai passato per la testa che tutto ciò avrebbe potuto venirmi in aiuto nel corso del mio duello con la morte.
(...)
all’arrivo a Dachau io ero ridiventato un numero qualsiasi. Devo riconoscere che le responsabilità di questo isolamento fu in gran parte dovuta alla mia allergia a stabilire stretti legami con chiunque. I miei rapporti con gli altri possono essere molto cordiali, ma non evolvono mai fino a una completa intimità. Un po’ del mio carattere chiuso deriva probabilmente dagli elementi carsici che porto in me; una buona parte l’ho ereditata da mia madre, ma il sigillo finale gli è stato impresso dagli anni caotici seguiti alla prima guerra mondiale. Il trauma più grave insorse quando i maestri sloveni vennero cacciati dalla scuole di Trieste. Una lingua che ti viene imposta in luogo di quella materna e la coscienza di appartenere a una razza condannata.

Necropoli, Edizioni del Consorzio Culturale del Monfalconese 2005
ora Fazi Editore, Roma 2008

II. Qui è proibito parlare

Consapevole che l’uomo cercava di spaventarla solo a parole, Ema sentì crescere un coraggio sconosciuto e vi si aggrappò come alle corde all’angolo di piazza Ponte Rosso nei giorni di bora,
“Non ho preso parte alla distribuzione” dichiarò, “ma sarebbe stato un onore per me farlo”.
“Si rende conto di quanto va dicendo?”, le chiese sbalordito, squadrandola come se non credesse alle proprie orecchie.
Ema teneva gli occhi puntati sull’edizione di Kola?ki che lo Smilzo stringeva tra le dita sottili della mano destra e si rammaricò al pensiero che un bambino fosse stato privato del libro, ma si consolò al pensiero che forse se ne erano procurati una copia non confiscata.
“Ne conosce il contenuto?”, incalzò lo Smilzo perché chiarisse la sua precedente dichiarazione.
“Certo. Poesie per bambini, tra cui anche quelle che il più grande poeta contemporaneo sloveno dedicò al proprio figlio minore, poesie che ora tutti i bambini sloveni possono leggere”, disse tutto d’un fiato.
“Qui siamo in Italia e i bambini leggono i libri che le autorità scelgono per loro”, disse l’uomo sbattendo il libro sul ripiano di vetro della scrivania; però non sembrava ancora arrabbiato. Ema pensò che non fosse del tutto convinto che lei lo stesse sul serio contraddicendo.
“I bambini sloveni hanno il diritto di leggere i libri scritti nelle loro lingua madre”, disse Ema sostenendo lo sguardo del poliziotto.”È una promessa che c’era stata fatta alla fine della prima guerra mondiale”.
La bocca dello Smilzo si torse in una smorfia.”Le promesse fatte dai politici marci del tempo non hanno alcun valore”.
“Ritengo che il rispetto dei diritti umani non abbia niente a che vedere col marciume”.
Allora l’uomo sorrise inaspettatamente, come se considerasse questa fiducia degli sloveni nelle parole dei responsabili italiani un fatto positivo che meritava una risposta gentile.
“I nostri libri per l’infanzia sono pieni di poesie magnifiche”, disse bonariamente.
“Nessuno lo nega, tuttavia ognuno ha più a cuore i propri libri”.
“Non si può paragonare la bellezza della lingua di Dante con un dialetto privo di storia”.
“Prima di tutto, la nostra lingua non è priva di storia, ma anche se lo fosse ci piacerebbe cos’ì com’è”.
“Significa che non le piace l’italiano?”.
“L’amore per la propria lingua non esclude il rispetto per una lingua straniera. Si potrà anche amare il francese, ma si darà sempre la precedenza alla propria lingua madre”.
“Lei parla il francese?”.
Ema ebbe l’impressione che vi fosse un lampo di ammirazione nei suoi occhi, però l’illusione svanì in un attimo e lo Smilzo si alzò afferrando e stringendo il libro tra le dita.
“Questo è suolo italiano e i cittadini di questo paese hanno il dovere di attenersi alle leggi dello Stato!”.
“Infatti”, disse tranquilla.”È per questo che ci costringete a insegnare di nascosto ai bambini l’amore per la lingua slovena”.
L’uomo si strozzò come se, per un attimo, la rabbia gli avesse mozzato il fiato.
“Quindi ammette di aver collaborato alla distribuzione dei libri?”
Per “noi” intendo tutti gli sloveni, la minoranza slovena in Italia”.

Qui è proibito parlare, Fazi Editori, Roma 2009


III. Il petalo giallo

“So ben poco di lei” riprese Igor. “Ma per quanta devastazione ci sia nel suo passato, penso di non sbagliare se affermo che ha nuotato contro corrente, e con successo. Non voglio adularla né fare congetture, constato piuttosto che, nonostante una certa vulnerabilità, in lei si manifesta, parallelamente, una caparbietà decisa e scontrosa”.
“Diciamo piuttosto ribellione”.
“Va bene, diciamo pure ribellione. O entrambe le cose”.
Tacque per alcuni istanti, poi riprese.
“Prima di venire a Parigi, ho scritto un saggio sulla dittatura fascista nella Venezia Giulia, di cui l’Europa non sa praticamente nulla, sebbene sia durata per ben un quarto di secolo e abbia cercato di annientare l’identità degli sloveni. Certo finora mi sono occupato del genocidio culturale nei suoi aspetti generali, ma forse sarebbe ancora più importante provare ad analizzare il trauma del singolo individuo -di uno scolaro, per esempio- al quale viene imposta una lingua straniera, tanto che smarrisce l’immagine di se stesso. Così si trova diviso in due, per di più, si sente colpevole se cerca di ritrovare il suo io originario. Bene, ora non mi metterò a raccontarle tutta la triste storia nel suo tortuoso sviluppo, vorrei però prendere in prestito l’immagine del gorgo nel suo sogno. Credo che sia fondamentale non arrendersi, ma aprirsi un varco nel vuoto. In questo siamo molto simili, o almeno così mi sembra”.
“Già, ho anch’io quest’ impressione”. Quindi rimase in silenzio e sul suo viso calò un velo di incertezza. Proprio come ieri, pensò lui, ma in maniera meno evidente.
Lucie proseguì: “Sì lei ha ragione: riuscire ad aprirsi un varco nel nulla offre una via di scampo, senza dubbio. Eppure resta la consapevolezza d’aver perso il passato. Senza legami col luogo di origine, con la sua natura, si è invalidi, anche peggio: ci si trova su una zattera in balia delle onde”.
“Anch’io mi sono sentito un relitto, quando sono tornato dal mondo dei forni crematori. Ero un nomade, uno sradicato, Be’, ora va meglio. Mi piace descrivermi come un vagabondo, ma in realtà ho una casetta nella baia di Duino”.
Sorrise, sperando che lo facesse anche lei. E così fu.

Il petalo giallo / Zibelka sveta, Zandonai Editore, Rovereto 2007