Nato nel 1941 ad Agen, medico condotto in pensione, Ganiayre è autore di un’opera narrativa abbondante, interamente redatta in un limosino truculento che si iscrive deliberatamente nella tradizione del romanzo popolare, tuttavia oltrepassandolo sia per tematica che per forma. Forse per la sua intimità di medico con la miseria fisica della condizione umana, il tema fondamentale, ossessivo dei suoi scritti è la familiarità con la morte , tra seduzione e angoscia, da Los contes del reirlutz (I racconti del crepuscolo, 1977) al romanzo Lo darrièr daus Lobatèrras (L’ultimo dei Loubaterre, 1987), ai racconti del Viatge aquitan (Il viaggio in Aquitania, 2000). Il romanzo di cappa e spada Dau vent dins las plumas (Vento nelle piume, 1992), con le sue peripezie degne dei Tre Moschettieri, sembra introdurre una schiarita, tuttavia contraddetta dal successivo, cruento, Las isclas jos lo sang (Le isole sotto il sangue, 2006), ambientato in Inghilterra e in Irlanda ai tempi di Cronwell. (Fausta Garavini, Paragoni)
ANTOLOGIA
Il viaggio in Aquitania
(...) Ci abbiamo messo un po’ a capire. La sala pareva alta e l’eco metallica dei nostri passi si perdeva sotto le volte risonanti, troppo rumorose a nostro gusto. Il raggio dela lampa scorreva sui muri senza trovare nulla: né scaffali, né cassetti, armadi o checchessia.
Tutt’a un tratto Miguel ha detto: “Là”. La lampada ci ha rivelato le passerelle di ferro e, sotto, riflessi scuri d’acqua stagnante. Ci siamo chinati, come quelli che la domenica sputano nell’acqua dei fiumi o seguono con l’occhio il sughero di qualche pescatore. Ma noialtri, i nostri occhi non erano abbastanza grandi né abbastanza aperti per l’orrore che ci covava sotto i piedi: una folla di annegati di cui s’intravedevano gli occhi semichiusi, le faccie scarnite, le membra livide, i capelli che fluttuavano lenti... La lampada di Miguel andava e veniva, incredula: un’altra passerella, un’altra vasca, altri annegati... un’altra passerella, un’altra vasca, altri annegati... Quel liquido di morte sembrava uno stagno dove nessuna ninfea, nessun crescione d’acqua avrebbe avuto il coraggio di germogliare. La sola lordura era, qua e là, una mosca morta che avrebbe aspettato a lungo la gola tonda di un pesce o il colpo d’ala obliquo di una rondine. Mai acqua fu più immobile, mai specchio rifletté più nitidamente i nostri visi.
Dovemmo pur strapparci a quella contemplazione malsana. Tu, dov’eri? E io che pensavo di trovarti tranquillamente sistemato con un’etichetta all’alluce, avevo letto che si faceva così. Abbiamo seguito le passerelle, osservando i cadaveri. Non vedere nient’altro: sei tu o non sei tu?
Abbiamo fatto il giro senza trovarti. Benché tu fossi fra gli ultimi arrivati, non facevi parte della superficie. Eri già caduto nel fondo di una di quelle cisterne soffocanti.
Miguel accennò col mento a due traverse appoggiate al muro. Ce n’era una che terminava con un gancio. Ne abbiamo preso una per uno e abbiamo comincato.
Non so se ti rendi conto di quello che ci stavi facendo fare. Eccoci lì occupati a frugare in quelle fosse comuni simili a vivai di trote.
E i morti disturbati si giravano di lato con lenti movimenti delle spalle, ancor più molli di quelli del dormiente che viene scosso e non vuole svegliarsi. Poi sparivano per far posto ad altri. Altri visi, fra i quali cercavamo il tuo, come all’arrivo di un treno. E alle nostre domande mute, qualche sguardo vuoto, gesti che sembravano d’ignoranza, i passanti colavano di nuovo nella profondità del loro abisso.
È dal fondo della terza vasca che ti abiamo visto affiorare. Avevano dovuto vuotarti il ventre, perché era diventato tutto piatto. Insomma, vuoi che te lo dica? Non eri tu il più orrendo (...)
Jean Ganiayre, Il viaggio in Aquitania (IEO, 2000)
Troppo tardi il lenzuolo
Il sogno… Camminiamo tutti su un sentiero dritto, bordato di grandi alberi. C’è quella puttana di Germana, quel figlio di mignotta di Leo, quel pendaglio da forca di Marcello, quel disgraziato di Filippo, e devo pur dire che tutta quella canaglia è la mia famiglia. Ma oggi la loro presenza non mi pesa troppo: con passo leggero, cammino dietro la bara di quella zozzura di Fernando. Mai mi fu più facile seguire un funerale, e fischio come un merlo…
Ma ecco che a un tratto la bara si apre e il mio Fernando si rizza mostrandomi a dito, fa un risolino cattivo con i suoi denti guasti e dice: “Non so perché tu venga al mio funerale, perché io non andrò al tuo…” E quelli che vengono dietro di me si sbellicano dal ridere.
Sto riflettendo che la frase di Fernando non è proprio quello che si dice di solito, ma ecco che mi sveglio. Mi sento leggiero, senza nessun dolore alle gambe. Oh, mi dico, hai l’aria di stare davvero meglio… E questo pensiero mi rallegra più che non possa dire. Possono aspettare ancora un momento, quella puttana di Germana, quel figlio di mignotta di Leo, quel pendaglio da forca di Marcello, quel disgraziato di Filippo, quella zozzura di Fernando e tutta la canaglia! Non sono ancora fottuto! Giuseppe sta meglio, ah ah!
Vedrai che domani metto un po’ d’ordine in casa!
To’, già che sono sveglio, vado a fare un po’ d’acqua. Mi alzo di slancio e mi avvicino al secchio. Ma al diavolo, non c’è modo di togliere il coperchio… la mano non riescie ad afferrarlo, sarà la debolezza, pensate un po’, tre mesi che sono allettato senza mangiare altro che il brodo lungo di quella puttana di Germana. Ecco, a quella lì vi assicuro che non ho finito di farle vedere i sorci verdi, e comincerò domani, senza rimandare. Intanto avrei potuto toglierlo, quel dannato coperchio. Niente da fare. Pazienza. Non mi scappa più.
Dunque me ne torno a letto e incasso il colpo. Uno ha un bell’essere malato da sei mesi, non esser lontano dai novantacinque, uno ha un bell’aspettarsela un po’, fa sempre qualcosuccia vedersi morto. Quella bocca spalancata, quelle mani rattrappite sul lenzuolo, quegli occhi vitrei che guardano le ragnatele del soffitto, tutto questo è per me.
Merda, merda e merda! Mi fa montare in bestia saper che quella puttana di Germana, quel figlio di mignotta di Leo, quel pendaglio da forca di Marcello, quel disgraziato di Filippo, quella zozzura di Fernando e tutta la canaglia potranno fare quello che vogliono della mia roba. Ah! Mi fa crepare di rabbia! Cerco di ricoricarmi su questo corpo per vedere se in questo modo si può farlo rivivere un po’, in fondo non si sa mai. Sembra che gli faccia come l’erba ai cani, e poi non ci trovo un gran gusto a star coricato con me, vecchia carcassa putrida che l’ha fatta dappertutto nel letto.
Jean Ganiayre, Il viaggio in Aquitania (IEO, 2000)
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