Da tanti anni sento parlare della reintroduzione del lupo nelle nostre aree montane. E’ un argomento che come viene messo sul tavolo è immediatamente oggetto di divisioni e capace di suscitare grandi emozioni. Ancora mi ricordo dei racconti di mia nonna legati alla figura del lupo che ululava a Elva sul colle della Cavalline quando lei era piccola e di come mi trasmettesse la paura collettiva che ancora persisteva nel paese, pur ormai in assenza di quella bestia.
In modo razionale mi dico che, se tutti ne avevano così tanta paura, avranno pur avuto le loro ragioni. Con la sua scomparsa mi pareva che i montanari avessero tirato un bel sospiro di sollievo e che almeno un problema legato alla difficoltà del vivere in montagna fosse stato eliminato. Sono passati degli anni, le montagne si sono via via spopolate e ad un certo punto il lupo è stato reintrodotto. Da una parte il Ministero dell’Ambiente con i Parchi ha iniziato a fare un politica legata al tema e, pur considerando i loro ragionamenti costellati di buone intenzioni, il risultato che ne è derivato si può definire senz’altro non buono.
Da quanto ho potuto constatare in questi anni attraverso rapporti approfonditi con gente che vive e lavora nei territori dell’alta valle Maira e di altre valli occitane: gente che tradizionalmente ci ha sempre abitato, gente che è ritornata, gente che ha scelto di abitarci, giovani che hanno scelto di investire la loro vita in quei luoghi, la reintroduzione del lupo ha portato lavoro in più, paura per la perdita di capi, senso di solitudine e di abbandono da parte delle istituzioni.
Oggi si può dire che c’è oggettivamente una frattura chiara e netta sulla questione del lupo determinata tra chi in quel territorio ci vive e cerca di trarne il necessario sostentamento e chi sul quel territorio ci vive, ma ne è un custode per conto di enti pubblici (vedi parchi) o di chi vive in pianura.
I primi sono praticamente tutti contrari alla reintroduzione del lupo e ne spiegano le ragioni: bisogna cintare tutto, non si è più tranquilli ad andare da soli a controllare le bestie, in alcuni periodi dell’anno conosco persone che hanno dormito lunghe notti nella macchina per difendere i loro capi da un eventuale attacco dei lupi (e ancora mi chiedo che cosa avrebbero realmente potuto fare in caso di attacco). Ne conosco alcuni che hanno avuto grossi danni derivanti dal lupo, pecore mangiate, cavalli deturpati. Ora non credo che queste persone raccontino “balle” sull’’argomento. Per lungo tempo, davanti a questi racconti, la risposta è stata che non erano lupi, ma cani inselvatichiti. Ora pare invece accertato che sono davvero lupi: a Marmora hanno visto un branco di 7 lupi attraversare la strada, ne hanno visti perfino a Venasca e, oggettivemente, che ci siano dei lupi e che mangiano di tanto in tanto pezzi di gregge è ormai certo. Ed è anche oggettivo il fatto che in alcune aree siano completamente scomparsi i caprioli e i cinghiali.
Su La Stampa del 24 gennaio in un articolo dedicato al lupo Mauro Belardi, del programma Alpi Europe WWF afferma: “Che il tema sia complesso è indubbio, ma il WWF è contrario a uccidere i lupi. Il piano di gestione contiene molte cose utili e necessarie per tutelare la specie. Il tema degli abbattimenti è stato inserito dal Ministero per una questione sociale (potremmo definirlo effetto placebo? n.d.r.), non per una effettiva necessità sulla base della popolazione italiana del lupo. Di più: la bibliografia scientifica europea dice che gli abbattimenti selettivi non servono a limitare i danni agli allevamenti. Anzi, se si destruttura il branco, semplificando, i lupi solitari fanno ancora più danno. Con gli abbattimenti aumenta persino il conflitto sociale, secondo studi americani. I sistemi di prevenzione come reti e cani, non garantiscono la soluzione del problema al 100%, ma riducono di molto i danni, soprattutto ai caprini. E’ sicuro che ci siano anche modalità di allevamento che vanno cambiate, sarà costoso e non facile, ma si deve fare”.
Ma ci rendiamo conto del ragionamento? Considerato che da noi l’allevamento caprino è minoritario rispetto agli altri tipi di allevamento, anche ammesso che con enormi sacrifici e spese si riesca a recintare, ad allevare cani addestrati ad hoc, ancora non si è assolutamente sicuri del risultato. E si parla al futuro di modalità di allevamento che vanno cambiate, di costi ingenti da affrontare, di una fruizione diversa dei terreni che vanno cintati etc., ma forse non ci si rende conto che i montanari allevatori sono situati nel presente, che non si può prima fare l’uovo e poi la gallina. A me pare che il buonsenso dica che per prima cosa è necessaria una politica della montagna che infrastrutturi il territorio in modo che sia pronto a ricevere il lupo. Ma così non è avvenuto, il lupo è stato reintrodotto in un tessuto sociale debole, senza un piano operativo su come affrontare le prevedibili conseguenza che già gli esperti sapevano si sarebbero prodotte. Ora ci sono due mondi della cosiddetta società civile lasciati sostanzialmente soli a scannarsi sul tema.
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