In Alta Valle di Susa, in un tempo non lontano, per economizzare la legna per il riscaldamento, si passavano i mesi freddi nella stalla, sfruttando così il calore prodotto dagli animali. Prima di preparare i pagliericci per i letti, occorreva preparare un impaglio da mettere lungo i muri, una sorta di stuoia fatta con paglia di segale che assorbiva l’umidità, accorgimento che manteneva pulita e asciutta la parte di stalla riservata alle persone.
Dopo la festa di Ognissanti, con le giornate ormai corte, si cenava intorno alle sei di sera poi, nella stalla, si faceva la veglia al lume di una lampada. Generalmente le persone più anziane e i bambini si riunivano in una stalla e i giovani in un’altra. Le donne filavano, sedute sul tavolato lungo il letto. Gli uomini stigliavano la canapa, rinforzavano le corde rotte o consumate, costruivano le suole degli zoccoli, riparavano gli attrezzi di legno, mondavano le fave e narravano le loro avventure delle stagioni passate a lavorare all'estero. I bambini ripassavano la loro lezione, poi si facevano raccontare una storia; tutti ascoltavano e ridevano, poi qualcuno intonava un canto. Ragazzi e ragazze approfittavano della veglia per corteggiare, per amoreggiare o per farsi dispetti. Intorno alle dieci di sera, con il mantello sulle spalle e con la lanterna in mano, ciascuno si ritirava a casa propria.
Il giorno 2 dicembre indicava il tempo che ci sarebbe stato per oltre un mese, infatti: Sent Bibianë carant zhoû e unë samanë (Santa Bibiana quaranta giorni e una settimana, cioè: la situazione meteorologica del giorno di Santa Bibiana, il 2 dicembre, durerà per quaranta giorni e una settimana).
Nei nove giorni precedenti il Natale, generalmente alle tre del pomeriggio, si celebrava la novena in chiesa in attesa della venuta del Messia, cantando il Regem Venturum. La vigilia di Natale la popolazione si radunava nella chiesa parrocchiale per la messa di mezzanotte. Al rientro a casa, si festeggiava gustando una cioccolata calda o, più comunemente, una tazza di latte con caffè d’orzo e una fetta di torta di mele. Anche alle vacche, per l’occasione, spettava una razione straordinaria di fieno.
Raramente Gesù Bambino portava doni, il giorno di Natale era una festa strettamente religiosa, solo in anni più recenti i bambini si alzavano di buonora per vedere se c'era qualche regalo sotto al cuscino o sulle scarpe.
Gli alberi di Natale non erano in uso, nelle case più ricche si preparava il presepe e tutti andavano a vederlo. Il 25 dicembre si ritornava in chiesa per la messa, vestiti a festa e le donne indossavano i costumi tradizionali, con la cuffia guarnita da pizzi e ricami e con gli scialli damascati. Dopo il pranzo, bambini e ragazzi correvano a slittare sulla neve. In quel giorno non si lavorava e gli uomini si riunivano per chiacchierare e fare una partita alle carte.
La saggezza popolare ricordava come Sharanda ou zhò, Paca ou fiò (Natale al gioco, Pasqua al fuoco), cioè se il tempo è clemente per Natale, sarà rigido a Pasqua, e avvertiva che Sharanda pléinë lunë qui qu’a doua vassha na vond unë, (Natale in plenilunio, chi ha due mucche ne vende una), poiché la luna piena a Natale è indice di un probabile inverno lungo e rigido e quindi della conseguente difficoltà di far fronte con le proprie scorte di fieno al nutrimento degli animali.
Il Natale trascorreva così, ma la vera festa dei bambini era Capodanno, quando si recavano di buon ora dai parenti, innanzitutto da padrino e madrina, ad augurare buon anno in cambio di una strenna: una moneta, un mandarino, qualche dolcetto o qualche caramella. Mentre gli adulti si auguravano Boun zhoù, boun an! (Buongiorno buon anno!) e spesso chiedevano: Bian finì, bian arcoumansà? (Ben finito e ben incominciato?), i bambini salutavano con formule fisse che esigevano un dono: Boun joù, boun an! Dounamme coran (Buongiorno, buon anno! Datemi qualcosa!) o Boun zhoù, boun an! Bitamme coran sla man (Buongiorno, buon anno! Mettetemi qualcosa sulla mano!). Bouzhoù boun an! 'M dounè pa ran? (Buongiorno buon anno! Non mi date nulla?). Qualche monello canzonava un compagno con uno scherzoso: Boun joù, boun an! Gardà la fouéirë par tou l’an. (Buongiorno, buon anno! Che ti venga la diarrea tutto l’anno).
Continuando le veglie serali, si attendeva l'Epifania, Lou Réi (I Re Magi). Al calar della notte, il 5 gennaio, i bambini uscivano di casa e si recavano in un luogo dove fossero ben visibili alcuni tratti delle strade di collegamento tra i vari centri abitati, per cercare di scorgere i Re Magi di passaggio in quella notte. Le lanterne degli eventuali passanti notturni destavano meraviglia. Al mattino seguente correvano a cercare, lungo le strade, eventuali tesori persi dai Re Magi nel loro passaggio.
Durante la veglia della vigilia, si sceglievano un re e una regina che dettavano i giochi, le canzoni e i divertimenti della serata; davanti ai due signori della festa veniva posto un paiolo con caffelatte o con cioccolata calda e, per poterne bere, era necessario presentare omaggi, complimenti e buffonate alla coppia regale.
Una tradizione exillese ancora viva ai nostri giorni, in occasione della ricorrenza dell’Epifania, è quella di Shaffaou (la catasta). Nella notte tra il 5 e 6 gennaio, quando tradizionalmente per le vie dei paesi transitano i Re Magi, la badia dei giovani sposta quanto di mobile si trova incustodito nell’abitato (panche, carri, attrezzi agricoli, recipienti, ecc.). Se oggi gli oggetti cambiano luogo all’interno del paese, talvolta finendo sui tetti delle case, un tempo erano accatastati sul sagrato della chiesa parrocchiale o nella piazza attigua costituendo un vero e proprio catafalco dove, il giorno seguente, i rispettivi proprietari degli oggetti andavano a recuperarli imprecando.
I Re Magi sono cavalieri del freddo, Lou Réi shevalhìe dla fréi, ma gennaio ha altri patroni che cavalcano il freddo: San Maurizio (15 gennaio), Sant’Antonio (17 gennaio), San Sebastiano (20 gennaio) e San Vincenzo (22 gennaio).
L'inverno continua il suo corso e, nonostante l’orso sia scomparso da quasi due secoli, si osserva che Se a Sent’Ours l’ours ou sësshë sa palhë, ou tornë s’antanâ par carant zhoû (Se il giorno di Sant’Orso, l’orso mette ad asciugare la paglia al sole, ritorna a rintanarsi per quaranta giorni), cioè se il 1° febbraio è una bella giornata, seguiranno quaranta giorni di cattivo tempo.
La veglia invernale proseguiva fino a marzo, quando occorreva ricominciare ad alzarsi presto per fare i lavori di campagna. Un proverbio ricorda: A l’Anounsià adieu a la vilhà. Ma se unë i l’a pa finì ad fiarâ i fai encà a tan a n’an fâ unë fuzà (Per l’Annunciazione, il 25 marzo, addio alla veglia. Ma se una fanciulla non ha finito di filare è ancora in tempo a farne un fuso).
A Exilles un proverbio avverte Mars frai, tout a drai (Se marzo è freddo tutto va bene), mentre a Salbertrand non si scorda che Mars ou l’à encâ vintenaou nevatà (Marzo ha ancora 29 nevicate). Questi proverbi che un tempo avvertivano il contadino dell’arrivo di un periodo rigido, con neve e freddo, consigliandogli di risparmiare legna per il riscaldamento e provviste sufficienti nelle dispense, oggi sono salutati dagli operatori turistici quali forieri di abbondanti nevicate e se un tempo il pane del proverbio Ad tsous la nê pan, ad tsous la pleuië fan (Sotto la neve pane, sotto la pioggia fame) era riferito alle condizioni ottimali per avere un buon raccolto di cereali, oggi indica il sicuro guadagno prodotto dalla stagione turistica invernale.
Certo il triste motto di rassegnazione: Naou mèi d’uvêr, tréi mèi d’anfêr (Nove mesi d’inverno e tre mesi d’inferno) presente un po’ ovunque tra le nostre montagne, e che un tempo indicava la grama vita contadina, costretta tra un inverno lungo e rigido e i tre soli mesi estivi considerati infernali in quanto tempo dedicato al pesante lavoro dei campi, oggi dovrebbe suonare in modo alquanto diverso e potrebbe, forse, essere riformulato così: Boù naou mèi ad cucannhë d’uvêr, tréi mèi ou shaou ‘ma ‘d pashà d’ità (Con nove mesi di cuccagna invernale, tre di caldo a godersela come dei pascià in estate). Almeno fino a quando gli sconvolgimenti climatici non decreteranno la fine di questi lunghi inverni, consegnandoci ad un clima tropicale, la saggezza popolare ancora ci rassicura e ci conforta sul fatto che: L’uvêr ël loup ou l’a zhomai mashà (L’inverno il lupo non lo ha mai mangiato), cioè dormiamo sonni tranquilli perché prima o poi l’inverno arriva.
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