Mettendo il disco di Valeria Tron nel lettore, la voce che si diffonde è potente e forte. Valeria non è una donna imponente. È una ragazza minuta. Ma ascoltandola non lo diresti affatto.
La prima volta che la vidi sul palco era con Lou Magnaut, un quindicina d’anni fa. Lei era una delle componenti fondamentali di questo gruppo anomalo, nel panorama della musica d’oc di fine millennio. Si ponevano e si proponevano in maniera diversa, quasi provocatoria. E questo mi affascinava parecchio.
“Siete Belli come dei maiali!”, in questa maniera avevano salutato il nutrito pubblico che partecipava al loro concerto di Ostana, inserito nel programma dell’ultimo, almeno fino ad ora, Rescountre Ousitan organizzato da Ousitanio Vivo. Un mormorio si diffuse immediatamente nel pubblico, il sindaco di Ostana mi diede una pacca sulla spalla ridendo, io sentii un brivido corrermi lungo la spina dorsale, in quanto era responsabilità mia se loro erano su quel palco. La serata, in realtà, fu un successo, la voce di Valeria e la bravura dei musicisti conquistarono letteralmente il pubblico, dopo averlo, almeno per un attimo, spiazzato.
Ai pè de sta mountanho è l’unico pezzo tradizionale, presente nel nuovo disco di Valeria Tron e lei gli regala una forma inattesa. Un vestito tutto nuovo. Come fece ai tempi dei Lou Magnaut con Me seou chatà en marì. Potrebbe sembrare, ad un primo ascolto, che una cantante blues abbia deciso di reinterpretare un paio di canzoni occitane. Invece siamo di fronte ad una cantante delle nostre valli che inonda con il suo spirito la tradizione nella quale è nata e cresciuta.
Cantante ma, soprattutto, cantautrice. Perché Valeria scrive e riscrive. Poi, solamente dopo, canta. Tutti i pezzi del disco escono da lei: sono frutto dei suoi ricordi, dei suoi sogni, dei suoi desideri, dei suoi dolori e delle sue ferite. La forza di questo disco è TUTTA qui: esprime un mondo immenso, racchiuso dentro una ragazza piccolina. Una ragazza che ama la sua terra. Una ragazza che ama la sua lingua: la ama così tanto da non rassegnarsi a considerarla utilizzabile solamente per parlare del passato. La ama così tanto da sentirla l’unico strumento utile, l’unica lingua possibile per parlare del suo mondo attuale e della sua profondità.
Valeria Tron, Leria per gli amici, è una ragazza minuta… che resiste.
L’intervista:
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Ascoltando le tue canzoni si ha l’impressione che cantando tu esprima l’enormità di un mondo che ti porti dentro. In certi momenti si potrebbe pensare che sia stata un’altra Valeria, di un’altra epoca, a scrivere i versi. Quando hai iniziato a cantare è perché?
…Mi succede spesso di interiorizzare vite che non sono la mia. Vite che ho soltanto sentito nominare per caso, storie che non mi sono mai appartenute e che forse, ho involontariamente impresso nella mia memoria. Spesso, quando passeggio nelle borgate che mi hanno vista crescere ho l’impressione che l’intero paese si animi intorno a me, i profumi stessi si fanno più pungenti e percepisco, nitidamente, il passaggio e la forza che tutte le cose conservano. La musica è un’esigenza forte. Temo di non riuscire a descrivere con chiarezza l’enorme massa di emozioni che provo mentre canto. Sicuramente è una liberazione, una trasmissione violenta che mi attraversa tutta. E’ un po’ come annullarsi, mi sento stremata e libera, svuotata dalla sofferenza e dalla gioia. Spesso chiudo gli occhi e... Il mio mondo, le fotografie che mi animano, mi trasportano lontano: quasi sempre a casa. Vedo la gente che ho amato, il calore, i colori, i vecchi, le punte affilate delle montagne, la neve… I pascoli e le mani di mio padre accarezzare il legno. Sento persino i canti, le grida, le voci. Insomma, rivivo una vita lontana, eppure costantemente presente. Canto da sempre, o meglio, ho memoria della mia voce che cerca di imitare quella di mio padre. I miei ricordi cominciano proprio col suo canto. Era dotato di un timbro raro, di una potenza e una melodiosità genuina, commoventi. Anche lui, penso, si servisse della musica per “liberare” i pesi del cuore. E io ero una bambina piccolissima, rapita. Che piangeva su quella voce con la sua voce. Scrivere canzoni è una condanna e al tempo stesso un dono. Non riesci a smettere. Non ce la fai. La prima? A undici anni, in patuà, sulla guerra del Golfo.
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Viviamo nell’epoca dei Talent Show. Partecipare ad uno di essi sembra l’unica strada percorribile per un giovane cantante che vuole costruirsi un suo percorso. Come si sente Valeria Tron, cantautrice in occitano, in un mondo fatto così? Ti sei mai posta il problema di esserne troppo distante?
Distante è dire poco. Ma non mi riguardano né quel mondo, né tantomeno i suoi appetiti musicali. Scrivo nella mia lingua, come fanno molti cantautori, senza la paura di essere “incompresa”. Anche le mie musiche possono sembrare lontane e se vogliamo “semplici”.In realtà nascono molto teneramente in contemporanea o quasi alle parole, cercandosi vicendevolmente per raccontare la stessa storia. I Talent Show sono esattamente l’antitesi di quello che sono e che porto dentro… Scrivere e cantare sono un’esigenza.Potrei non avere pubblico, canterei come ho sempre fatto: per me stessa.
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Come abbiamo già detto, le canzoni del tuo disco non appartengono all’immenso bacino di canzoni e musiche tradizionali occitane. Le hai scritte tu. E nel caso in cui non siano pezzi scritti di tuo pugno, li hai comunque, riarmonizzati. Facendoli, in questa maniera, tuoi. Hai intrapreso, quindi, una strada che ti porterà in altre direzioni, magari un po’ più lontano, rispetto alla maggior parte dei gruppi di musica occitana a cui siamo abituati. Sei una cantautrice. Si tratta di una scelta ponderata e voluta? Riesci a condividere i motivi di questa tua decisione?
A dire la verità, le mie canzoni non hanno la pretesa del “viaggio”… La parola “lontano” è un ordine di grandezza fatuo e illusorio. La distanza la crea il ricordo .La memoria.Quindi, basta ascoltare Man de peiro canticchiata da un bambino di Carrù ed ecco che hai vinto più distanze: una è quella fisica, l’altra è quella culturale. La lingua non conta, non conta nemmeno il mio coinvolgimento personale nel trascrivere i pezzi della mia vita, quello che resta è un allargato senso di appartenenza musicale, di sonorità che riportano chi le ascolta nei più disparati posti al mondo. Persino quelli più impensati. Questo è il regalo che ci fa la musica, quando sentiamo che ci appartiene. Nel panorama musicale occitano ci sono gruppi di grande talento, spesso nati come me, senza pretesa. Sono le orecchie a doversi “abituare” ad una musica non necessariamente ballabile, alla quale “dobbiamo “ dedicare del tempo e della cura. Ovviamente questo impone una difficoltà maggiore e una curiosità che oltrepassa i limiti linguistici. Non ho scelto di scrivere: ho scritto.Pregi e difetti, cause ed effetti. Non mi aspetto più di quanto non abbia già ricevuto. Un grande calore spontaneo.
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A mio modesto parere, si può dire che il tuo disco rappresenti un punto di svolta nel panorama delle produzioni discografiche occitane. Hai usato la tua, la nostra, lingua per esprimere pensieri attuali e non per forza legati alla tradizione. Sei consapevole di questa caratteristica del tuo disco? È un’impostazione che avevi premeditato e previsto?
Come potrei premeditare la mia vita? Quale altra avrei potuto scrivere, se non la mia?. Sarò sincera: la decisione di rendere pubbliche le mie vicende personali, il mio presente o i miei ricordi più “pesanti” ha creato una sorta di conflitto interiore. Da un lato la paura di essere “violentata” nell’intimo, dall’altra un senso di dovere nei confronti di chi mi ha sostenuta e spronata in questo viaggio. Molte persone hanno creduto in me, alcune le ho perse, ma quelle che mi sono vicine capiscono il bisogno incontenibile, l’urgenza, che mi spinge a riportare in musica quello che sento. Non è facile, anzi. E’ difficile oltre misura non avere filtri espressivi, lasciarsi andare completamente senza la paura della critica o dell’indifferenza. Se c’è una prerogativa, in questo disco è l’assoluta libertà di movimento.
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La Val Germanasca o Val San Martin è la tua valle. Come sta andando il tuo disco in casa tua? Com’è stato accolto questo tuo progetto?
La mia valle è ricca di cultura e di storia, fondamentalmente impervia per antonomasia. Eppure ho ricevuto parole di grande affetto, spontanee.Toccanti. Non pensavo che ci sarebbero state tante “ attenzioni” nei confronti del mio lavoro. Sono una persona vivace, ma anche ribelle e testarda, a tratti ermetica. Per carattere, anche lontana da tutto e tutti a volte. Vivo la mia terra anche da distante, ogni giorno è come se non fossi mai scesa, ogni mattina.Sono lassù. E non è retorica questa, semplicemente è la mia casa. Anche se oggi non posso essere lì come vorrei, trattengo tutto, ricordo tutto ciò che posso. Rodoretto non è soltanto un luogo, è la mia musa, la tomba e la sorgente di ciascun giorno.Anche da qui. E’ cambiato col tempo, anche lui. Sinceramente sono rimasti in pochi lassù a resistere. Penso di amare quel luogo più di quanto lui ami me. Col rischio di sembrare “assente”, mentre in realtà è l’unico posto al mondo che mi assomigli davvero. Non mi chiedo se il mio paese si accorga o meno dell’ importanza del mio lavoro, della forza che lo ha mosso. Non mi aspetto medaglie o riconoscimenti. Non mi aspetto nulla. Non l’ho fatto per questo. Se vorranno capire, sono sicura che lo faranno senza applausi, ma con un tacito assenso. In generale però, ho ricevuto grande solidarietà e sono orgogliosa di appartenere a questa valle. Davvero. Un ringraziamento particolare va ai “pomarini” che mi sostengono oltremodo.
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Siamo venuti a vedere il concerto che hai proposto a Torino, al Teatro Agnelli, in collaborazione con Assemblea Teatro. La sala era gremita ed il pubblico entusiasta. Come ti senti quando canti lontano dalle valli, dove chi ti ascolta, magari, non capisce bene i testi delle canzoni? È più difficile per te cantare per un pubblico che potrebbe non capire i tuoi versi?
A Torino, come a Cuba .E’ l’emozione che trasmetti ad accarezzare la gente. La mia voce è davvero la trasposizione di ogni mio sentimento verso l’esterno. Lo spettacolo piace senza troppi perché, e non mi importa se le persone sedute ad ascoltare conoscano o meno la mia lingua. Credo fortemente che la lingua sia una ricchezza, una fonte pulita, un orizzonte aperto . Mai un muro, o un’ostacolo insormontabili. Lo spettacolo “Ai pè de stà mountanho” l’ho concepito sapendo chiaramente che molte persone non avrebbero capito i testi. Per questo ho deciso di alternare le canzoni ai racconti in italiano. Perchè in questo modo, il pubblico lo trasporti tu, dove è “casa”. Dove decidi di invitarli come una tavolata di amici che mangiano nella stessa cucina. Solo che siamo tutti a cena “da me”. Nella mia terra. Ognuno poi, porta qualcosa da casa “sua”. Ed ecco il trasporto, il ricordo. Il viaggio.
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Il tuo gruppo è una sorta di Big Band. Riesci a raccontarci come sei riuscita a mettere insieme questo nucleo di persone? Guardandovi suonare dal vivo, si vede chiaramente che ogni componente del gruppo ha alle spalle un percorso individuale ben delineato. È complicato definire uno stile quando si è cosi in tanti? Con delle personalità, anche, molto forti.
Tutto è cominciato quasi per caso. Ugo e Gianluca si sono impuntati lasciandomi poco margine di scelta: dovevo farlo. Dal momento che stavo raccontando la mia vita ho sentito il bisogno di affidarmi ai miei più cari amici musicisti, senza preoccuparmi della loro statura tecnica. Ma con la fervente certezza che ognuno di loro avrebbe capito profondamente quello che portavo con me. Per questo inizialmente contattai Marco e Paolo. Paolo e Gianluca sono miei compagni di musica da oltre 17 anni. Marco da dieci. Li ho cercati per le loro caratteristiche umane prima ancora che per quelle musicali. Gianluca è testardo e si mette in gioco con grande coraggio, Paolo è affidabile e sincero, Marco mi comprende alla perfezione perché la passione che lo muove è genuina e autentica, Ugo è il mio compagno di vita e vede nascere ogni canzone. Simone è un professionista straordinario, la sua capacità interpretativa e la sua genialità esecutiva unite al suo talento naturale hanno arricchito l’organico dandogli spessore e competenze, Paolo Daviè è un musicista di rara sensibilità, direi che le sue mani al pianoforte sono impastate con la mia voce e annullano le distanze. Mario è l’ultimo arrivato, sentivo l’esigenza di poter aggiungere uno strumento basso che potesse inspessire la parte ritmica. E poi, Cristiana Voglino che da voce ai racconti, un’attrice sensibile e capace. In grado di interiorizzare le mie emozioni e renderle vive con la sua maestria. Ad ognuno di loro sono legata affettivamente e li ringrazio soprattutto per la grande pazienza, per l’affiatamento e la dedizione. Sono come fratelli, per me insostituibili. Penso con questo di aver risposto ad entrambe le domande. Ognuno di loro è una ricchezza, il loro “spessore” è al servizio di questa musica. Si fidano di me, non è poi così difficile accettare la mia leader-ship, anche perché li esorto ad esprimersi con tutta la loro naturalezza.
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Il disco è in circolazione da alcuni mesi. Puoi sbilanciarti a fare un bilancio? Sei soddisfatta dei risultati che stai ottenendo?
Hai già in cantiere qualcos’altro? Riesci a dare delle anticipazioni?
Il disco è uscito ufficialmente il 5 gennaio al Tempio Valdese di Pinerolo. Il concerto di presentazione ha sbalordito ogni mia previsione. Ovviamente, avendo personalmente finanziato l’intero costo di questo lavoro, e, non avendo altri mezzi se non il passa parola e una distribuzione per ora locale e a tratti “inconsueta”, devo dire che i risultati a oggi sono più che soddisfacenti. Questo disco viaggia più di me. E’ arrivato a Barcellona, a Montevideo… Assemblea Teatro mi ha dato modo di esprimermi, Renzo Sicco è stato il primo a credere fortemente in questo progetto dandogli visibilità. La Chambra d’Òc è stata la prima associazione che ho contattato al di fuori delle mie valli. L’accoglienza e il calore mi hanno disarmata. Ringrazio tutti coloro che hanno aiutato o aiuteranno le mie parole a spingersi più lontano, conservando viva questa lingua che soffre, che stringe i denti con grande coraggio e dignità. La nostra cultura è viva, metterà germogli nuovi, si sta già muovendo al di là delle montagne. Sarebbe un peccato che le persone che dedicano tempo, energia e passione ad una causa così nobile non avessero ossigeno per respirare, sarebbe un peccato soffocare le voci di chi ha ancora cose da raccontare. Io sono una cantastorie, niente di più. E questo disco è l’inizio del mio viaggio. Ho scritto alcuni pezzi nuovi, sto preparando un nuovo spettacolo con brani inediti, molto forti. Li presenteremo il 26 aprile a Pinerolo. Per il prossimo lavoro ho già la linea guida, una bozza che giorno dopo giorno và delineandosi anche grazie all’aiuto del mio gruppo. Noi resistiamo…
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