Francesco Ferrucci, nasce a Pisa nel 1972, città in cui si laurea in Lingue e Letterature Straniere (Spagnolo e Francese) con la seguente tesi: “La primera pedra di Sergi Pàmies, romanzo ibrido. Studio e traduzione”. Interessato sin da piccolo allo studio delle lingue, dopo un periodo di pendolarismo tra la Spagna e l’Italia agli inizi degli anni Novanta (nell’anno accademico 1995-1996 frequenta l’Universidad de Cantabria a Santander nell’ambito del Programma Erasmus), nel 1999 si trasferisce a Barcellona, città nella quale vive per più di dodici anni, fino alla fine del 2011, quando ritorna nella sua città natale.
Durante gli anni barcellonesi lavora come traduttore freelance dal catalano e dallo spagnolo (testi tecnici, articoli universitari, cataloghi, pubblicità, ecc.) ed è professore di italiano presso ditte e privati.
Da cinque anni si dedica esclusivamente alla traduzione e collabora con alcune case editrici italiane e catalane. Al suo attivo ha la traduzione della scenografia di una serie televisiva catalana e in ambito editoriale ha realizzato traduzioni di narrativa sia per adulti che per bambini, e di saggistica. Tra gli autori di lingua spagnola da lui tradotti citiamo il Premio Nobel di Letteratura 2010 Mario Vargas Llosa, mentre tra i catalani Sergi Pàmies.
Brano tratto da “Correre o morire” di Kilian Jornet
(Vivalda Editori, Torino, 2012)
Traduzione in italiano di Francesco Ferrucci
Capitolo I - Cosa vuoi fare da grande?
«Un contatore di laghi. Io, da grande, voglio essere contatore di laghi!».
La maestra distolse lo sguardo dalla lavagna, su cui stava scrivendo una lista dei lavori che noi bambini della classe avremmo voluto fare da grandi, e guardò il mio banco.
«Sì, contatore di laghi. Ma non voglio limitarmi a contare quanti ce ne sono. Io girerò sulle montagne e, quando troverò un lago, guarderò quanto è profondo lanciandovi in mezzo un sasso legato a una corda, guarderò quanti passi è lungo e quanti è largo. Guarderò da dove vengono i fiumi che vi si riversano, e in che direzione vanno quelli che nascono da lui. Guarderò se vi sono pesci, o rane, o girini. E se l’acqua è pulita oppure no».
Rosa mi guardò ancora più sorpresa, perché non è il lavoro più sognato dai bambini di cinque anni, ma io ne ero convinto. Era il mio destino.
Per questo motivo e poiché durante tutte le ascensioni e le escursioni che ho fatto sin da quando mi ricordo tornavo sempre a casa con un sasso, come minimo, della vetta o del punto più alto dove eravamo arrivati – un’abitudine che conservo ancora oggi, infatti colleziono pietre di ogni tipo e colore: vulcaniche del Kilimangiaro e della Garrotxa, graniti dei Pirenei e delle Alpi, pietre ocra del Marocco e della Cappadocia, blu dell’Erciyes Daği, lastre del Cerro Plata... –, credo che fossi predestinato a essere geografo o qualcosa di simile. Predestinato a scoprire le viscere della Terra cercando pietre su tutte le vette e in tutte le grotte, a conoscere i suoi paesaggi e a svelare come era stata capace di innalzare costruzioni complesse come le catene montuose, con le loro montagne, le valli, i laghi… E come tutto ciò, in un modo o nell’altro, funzionasse alla perfezione, come un orologio svizzero, senza che niente né nessuno, nemmeno gli uomini più potenti, potesse fermare il suo ritmo vitale.
Credo che quella volta sia stata una delle poche in cui ho detto «io voglio essere». Sono sempre stato piuttosto una persona di quelle che dicono «cercherò di...». Una persona timida che ha sempre pensato che si debba dare tempo al tempo, lasciare che le cose seguano il loro corso. E il tempo, con il mio destino, ha fatto ciò che doveva.
La mia infanzia è stata quella di un bambino normale. Il tempo in cui non ero a scuola lo trascorrevo a giocare intorno alla casa dei miei genitori, solo, con mia sorella o con i compagni di scuola che venivano a passare qualche pomeriggio da noi. Giocavamo a nascondino, ad acchiapparello (giocare a prendersi, NdR), costruivamo capanne e fortezze, e trasformavamo l’ambiente circostante in luoghi fantastici fatti di immagini di fumetti o di film. Non sono mai stato una persona di quelle che si chiudono in casa, e ho avuto la fortuna che i miei genitori vivessero in un rifugio di montagna – di cui mio padre era il guardiano – situato a 2000 metri di altitudine, sul versante nord della Cerdagna, tra le vette al confine con la Francia e Andorra. Il mio spazio di gioco non è mai stata una strada o un cortile, sono stati i boschi del Cap de Rec, le piste di sci di fondo e le cime della Tossa Plana, la Muga, il Port de Perafita... È stato lassù che ho cominciato a scoprire l’affascinante mondo della natura.
Tornando da scuola, avevamo appena il tempo di lasciare gli zaini in soggiorno ed eravamo subito fuori, d’estate ad arrampicarci sulle rocce o a penzolare dal ramo di un albero, oppure d’inverno a saltare su campi pieni di neve con gli sci di fondo ai piedi.
Ogni sera, prima di andare a dormire e già in pigiama, uscivo con mia sorella e mia madre a fare una passeggiata nel bosco al buio, senza la lampada frontale. Evitavamo i sentieri e, in questo modo, pian piano, quando i nostri occhi si adattavano all’oscurità e le nostre orecchie al silenzio, eravamo capaci di ascoltare il respiro del bosco e di “vedere” il terreno tramite i piedi. Sopravvalutiamo il senso della vista e, quando non l’abbiamo a disposizione, ci sentiamo abbandonati e indifesi di fronte ai pericoli del mondo. Tuttavia, che pericolo può esserci di notte in un bosco pirenaico? Di fatto, gli unici predatori naturali, lupi e orsi, scarseggiano da anni. Per quanto riguarda gli altri animali, quale pericolo ci può essere nell’incrociare una volpe o una lepre per un animale dieci o quindici volte più grande di loro? E gli alberi? Con le orecchie impari ad ascoltare il modo in cui il vento muove le loro foglie e così puoi vederli. E il terreno? I piedi avvertono se ci sono rami, erba, fango o acqua. Se sale o scende, o se all’improvviso c’è un salto.
E così passarono velocemente gli anni, tra i giochi intorno al rifugio e le escursioni nei fine settimana e durante le vacanze. Ogni volta che avevamo qualche giorno libero, ne approfittavamo per andare a esplorare una nuova montagna. Appena imparato a camminare, iniziammo a salire su quelle più vicine a noi, sulle cime intorno al rifugio. E, progressivamente, iniziammo a cercare nuove avventure più lontane. A tre anni ero già stato sulla Tossa Plana, sul Perafita e sulla Muga. In seguito fu la volta della vetta dell’Aneto, a sei anni il primo Quattromila, e a dieci, la traversata dei Pirenei in quarantadue giorni... In quelle escursioni non seguivamo mai i passi dei nostri genitori. Erano loro a portarci sulla cima e a guidarci, però eravamo noi a dover scoprire il cammino, a cercare i segnali e a dover capire perché il sentiero passava da una parte invece che da un’altra. Non eravamo semplici osservatori di ciò che accadeva intorno a noi, e la montagna diventava più di un semplice luogo di svago. Era un terreno di vita, che dovevamo conoscere per poterci muovere al suo interno in sicurezza, per poter interpretare e prevedere i suoi pericoli. Insomma, dovevamo adattarci al terreno su cui eravamo nati. E in questo modo, facendoci sentire parte di essa, i nostri genitori ci insegnarono ad amare la montagna. Perché, in fondo, la montagna è come una persona: per amarla, bisogna prima conoscerla, e quando la conosci puoi sapere se è arrabbiata o se è contenta, come trattarla, come giocare con lei, come prendertene cura quando le fanno del male, quando è meglio non disturbarla... Ma la differenza rispetto a qualsiasi persona è che la montagna, la natura, la Terra, sono immensamente più grandi di te. Non devi mai dimenticare che tu sei solo un piccolo punto nello spazio, nell’infinito, e che è lei a poter decidere in qualsiasi momento se vuole cancellare o meno quel punto.
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