Nato nel 1936 a Sète, Yves Rouquette (Roqueta in oc) è deceduto nel 2015 a Camarès, nell’Aveyron, luogo d’origine della famiglia, dove si era ritirato dopo un’esistenza molto implicata nel mondo occitanico. Allievo, alle scuole medie di Sète, di Robert Lafont che lo iniziò alla lingua d’oc (e rimasto per anni legato al maestro per poi distaccarsene con un’operazione che si potrebbe definire di parricidio rituale), recupera successivamente la propria ascendenza paesana. La sua prima raccolta poetica, L’escriveire public (Lo scrivano pubblico, 1958), dice fin dal titolo che il giovane scrittore si vuole impegnato e intende farsi voce del popolo, nell’accezione più larga di ceto popolare, umile, e al tempo stesso di popolo occitanico ‘ancora perfettamente inesistente’ (così nella Messa pèls porcs, Messa per i porci, 1969). Insistendo sui temi di libertà, amore, fraternità umana, Rouquette mira a toccare un largo pubblico, avversando l’attività di ricerca di quanti, nell’Institut d’Estudis Occitans, lavoravano per conferire, appunto, dignità di studi alla cultura d’oc. Insegnante nelle scuole secondarie a Béziers, svolge soprattutto un’intensa azione militante, contestataria e violentemente anticonformista (inizialmente insieme al fratello Jean, anch’egli autore in oc con lo pseudonimo di Jean Larzac). Efficace propagandista, dotato di eccezionale comunicativa, Yves Rouquette si spende in molteplici occasioni d’incontro, continuando nel contempo a pubblicare. All’Escriveire public seguono molti testi poetici fra cui Lo mal de la tèrra (Il male della terra,1959), Oda a sant Afrodisi (1968), Roèrgue, si (Rouergue, sì, 1969), Quand lo sang es tirat, lo cal beure (Quando il sangue è cavato, bisogna berlo, 1972), Lo fuòc es al cementeri (Il fuoco è nel cimitero,1974), Joan sens terra (Giovanni senza terra,1976), fino a Pas que la fam (Non solo fame, 2005) e a El, Jòb (Lui, Giobbe, 2009). Autore anche di romanzi e racconti, di due raccolte di prose (L’ordinari del monde, L’ordinario del mondo, 2009 e 2015) e di saggi sulla letteratura e la cultura d’oc, gli si deve l’iniziativa della casa discografica Ventadorn (1969) per la diffusione della canzone occitanica, e del CIDO (Centre international de documentation occitane, 1974), sviluppatosi a Béziers nel CIRDÒC.
LO SCRIVANO PUBBLICO
Quando avrò perduto tutto
i ricordi la lingua la voglia di lottare
guarderò ancora a voi
uomini miei
carrettieri braccianti pastori garzoni
visi dimenticati sperduti rinnegati
uomini dei villaggi rimpiattati
in un tempo che non vuole
che non può sbocciare
e troverò nei vostri occhi
nella stretta delle vostre mani
nelle vostre grida che vengono da lontano
da un capo all’altro della terra
e che nessuno può far tacere
una ragione per credere ancora
Tornerò a essere per voi
abitanti gracili e maldestri
d’un paese che ha voce d’infanzia e di terra
il bambino che non ho mai smesso di essere
un figlio della città in cerca dell’amore
del pioppo flessibile come una canzone di cenciaiolo
che abita gli altipiani della vostra memoria
di uomini che sanno tutto senza aver letto null’altro
che il libro del tempo che fa.
Erigerò una tavola
contro l’impeto delle colline
e mi farò per voi
scrivano pubblico.
(L’escriveire public, I.E.O. 1958)
TROPPO TARDI FORSE
Nelle vostre lingue, ora come ora,
ancora vive
come nelle nostre parlate
da tempo in agonia,
arriviamo sempre troppo tardi, noi poeti
tutto è già stato detto su tutto
e con tanta intelligenza, precisione e finezza
che si dovrebbe tacere, ammirativi,
riconoscenti e umili.
Invece prendiamo la parola
esigendo silenzio ed estrema attenzione
come se dalla nostra oscurità profonda
fosse sgorgata qualche verità
non ancora detta,
capace di scaraventare nel nulla il vecchio ordine
delle cause e degli effetti
del permesso e del proibito,
l’infelicità di essere vivi
e la gioia amara di sapersi mortali.
Davvero abbiamo questa audacia
e qualche volta succede.
*
Mura di fuscelli,
bastioni di detriti
che un ruscello lascia sulle rive:
le nostre poesie non sono altro.
Ma gli uccelli vengono a rifugiarcisi
e ci fanno il nido e cantano
e, da te a me, ci discorrono
col mondo intero.
L’intreccio delle nostre solitudini,
delle nostre illusioni, delle nostre pene
delle nostre rivolte e delle nostre preghiere
come dei nostri amori promessi
alla cenere e alla putrefazione,
ecco tutto ciò che buttiamo alla faccia
putida della comune, universale
e necessaria morte.
*
Non sappiamo altro onore
che esser stati, essere e voler rimanere
di condizione comune.
Nel nostro forno non cuoce altro
che pane casalingo.
*
Le parole bisogna prenderle alla lettera
in poesia più che altrove.
Prendiamo tutto, lessico e sintassi
dalla fiera, dai campi, dal caffè
dalla tavola e dal letto
nelle giornate più ordinarie,
ma quando irradiano è grazia.
*
Non siamo padroni di nulla
né del loro senso
né del modo di combinarle.
La sintassi che governa tutto
ci viene da molto più lontano
della scrittura e della storia.
Nata fuorilegge
è diventata legge
come ciò che fa gonfiare la linfa
scorrere il sangue
e muoversi le stelle.
*
Come l’acqua è nuda
l’acqua non lo nasconde.
Come i morti sono meno che niente
le civiltà lo gridano.
Il più comprovato mai non dura,
è nel buio che giace la luce.
*
Poca realtà hanno le nostre anime
ma saranno sempre più consistenti
dei corpi che ci rivestono
e ci rinchiudono nell’oblio.
Questo forse è quel che ci fa amare
più di tutto
camminare in due
la mattina presto e la sera tardi,
voltando le spalle al sole,
con le nostre ombre gemelle
che non finiscono d’ingrandire,
che non finiscono di raggiungere
precedendoci
la parte oscura della terra.
Con sulla nuca quel fuoco
che dicono sia quello di Dio
quando si nasconde in un cespuglio.
*
Padri senza figli e uomini senza patria,
gomito a gomito con i defunti
che ci ascoltano e ci giudicano,
ariamo, seminiamo, erpichiamo
i campi senza padrone
del possibile e dell’impensabile
e i nostri inni più disperati
sono di ringraziamento e di lode.
(Tardièrs ben lèu, pubblicato in rivista nel 2004, nell’antologia Pas que la fam nel 2008 e nell’antologia L’aujourd’hui vivant de la poésie occitane, supplemento di ‘Triages’, 2009)
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