Cresciuto a Lione, dov’è nato nel 1950, Jean-Claude Forêt ha co- minciato a praticare una forma particolare di occitanico, il vivarese, du- rante le vacanze giovanili in Ardèche. Successivamente, a vent’anni, ha imparato il linguadociano sui libri di Boudou, di Lafont, di Max Rou- quette (e più tardi ha insegnato la letteratura d’oc all’Università di Mont- pellier, svolgendo anche un importante lavoro di critico letterario). Il pri- mo frutto di queste esperienze è un romanzo singolare, La pèira d’azard (La pietra del caso, 1990), la cui storia si snoda su tre parti, la prima (dove il personaggio, Abel, è ipostasi dell’autore) in linguadociano, la se- conda (dove Cintia racconta la vicenda della propria nonna) in vivarese, la terza (dove un monaco del XIII secolo traduce in versi un autore latino, che espone la strana teoria del caso generalizzato) in lingua d’oc medievale. Questo testo sorprendente, giocato sulle illusorie relazioni di causa a ef- fetto, rivela una perfetta padronanza delle forme linguistiche utilizzate, tanto che, quando fu presentato in manoscritto a un concorso letterario (1988), lo si credette opera pseudonima di un reputato linguista, prima di identificarne l’autore nel giovane Forêt, all’epoca professore al liceo di Chamonix, che si stabilirà a Montpellier solo nel 1993. Il successivo Lo libre dels grands nombres, o falses e us de fals (Il libro dei grandi numeri, o falsi e uso di falsi,1998) è una raccolta di racconti su temi fan- tastico-matematici redatti in una prosa classicamente composta. In Sang e saba (Sangue e linfa, 2005) si alternano due testi contraddittori – l’uno sugli orrori della guerra, l’altro sulla bellezza di una natura idilliaca – che solo alla fine si rivelano convergenti. Sempre interessato al teatro, Forêt ha composto anche varie scenette che ha fatto interpretare ai suoi studenti, e ha accettato di scrivere su commissione, per uno spettacolo poetico e musicale in oc, il poema-racconto Tres pòbles de la lona (Tre popoli della laguna, 2006), ‘etnografia immaginaria’ di tre popoli di pura invenzione, tuttavia testimoni del luogo attraverso le epoche. Ma i frutti del suo talento poetico si leggono soprattutto in Un grand eissam de mots (Un grande sciame di parole, 2013), che riunisce versi in vivarese e in linguadociano, spesso rigorosamente rimati, costruiti a volte su ritmi di filastrocche po- polari: la costrizione, sostiene l’autore, lungi dal limitare la libertà, la au- menta, aprendo prospettive impensate; d’altro canto, in questo sciame di parole che gli ronza all’orecchio, Forêt cattura bolle di memoria sparenti, consapevole, come tutti gli scrittori d’oc, di operare su un limite, con uno strumento tragicamente fragile. Una parte del libro, Cants de l’octava (Canti dell’ottava), parte dal modello ariostesco, con la traduzione in oc di Orlando, X, 6-9, per aggiungervi quaranta ottave originali, meditazione sulla garriga linguadociana e il nostro essere al mondo.
CASTANEA VULGARIS
Riccio di castagna, riccio di mare o porcospino (tocca se osi!), poi pugno chiuso guantato di cuoio lucente (derisoria minaccia), la castagna accumula gli ostacoli, dall’attacco delle spine alla corazza difensiva. Non basteranno le tue dita nude. Se ti ci sfreghi, ti punge. E se riesci a oltrepassare i suoi cavalli di Frisia, si mette in guardia come un lottatore da fiera. Gioca a fare a pugni con te. La castagna castagna, e il suo nome le sta bene... Quando alla fine è disarmata e si ritrova in camicia, piuttosto che cedere all’aggressore, le piace che tu la sbricioli, che la scortichi e le tolga pelle e polpa. Ci vuole tatto, un po’ di maniera, il lungo ammansirla nell’acqua, direi la seduzione. Dacché la castagna è consenziente, spogliarla è facile. Tolta la camicia, è come lessa, pronta a fondersi di piacere contro il tuo palato. A meno che tu non preferisca (inquisitore senza garbo né grazia, che non ami la carne peccatrice se non ridotta in cenere) arrostirla sulla brace come una strega, e poi squa- marla come una serpe o altra bestia infernale, prima di farla crocchiare sotto i denti. Questione di gusti.
RUBUS FRUTICOSUS
Matrigna accigliata, contorta e scontrosa, un po’ strega un po’ serpente, il rovo sembra aver dardi solo per proteggersi da qualsiasi approccio e carezza. La sua opulenza tentacolare e spinosa, il suo gusto ruderale per le rovine dove abbonda, a mo’ d’annuncio e di cattivo augurio, lo fanno detestare quanto più è difficile da distruggere. ‘Taglialo, lo poti. Bru- cialo, lo ingrassi. Strappalo, lo uccidi’, dicevano i vecchi. Ma per strapparlo, bisogna picconare le pietre dove affonda le radici, è un lavoro bestiale. Le intenzioni del rovo, tuttavia, sono fraintese. Il rovo è tutto artigli per trattenere, non per respingere. Lungi dal voler ferire, le sue grinfie vi afferrano per la manica e non vi lasciano più. È avvincente, il rovo. Il suo dramma è questo malinteso. Il suo gesto amichevole passa per malevolo. Bisogna lasciarsi ghermire dai suoi rami che vi conducono dolcemente, senza parere, fino al cuore del ce- spuglio. Qui potete sedervi sotto la sua gonna, avviluppato dalle sue multiple braccia di piovra, nel profondo di un’inti- mità dove non chiede altro che farvi penetrare. Migliaia di spine come altrettante bocche o ventose di tentacoli vi danno piccoli baci, acuti e vivi. Cento bacetti pungenti piuttosto che un bacione umido, questo è il suo modo di amare. Resistete al bacio, il suo dente vi pungerà. Abbandonati alla sua tene- rezza come la mosca nella bambagia d’una tela di ragno, non sarete voi a esser mangiati. È lui che si offre alla vostra fame. More, amori miei, agglomerati di biglie brillanti, vi schiaccio fra le labbra e in cambio mi segnate col vostro inchiostro nero, e nell’inchiostro rosso del mio sangue i vostri rami in- tingono le loro piume. Aspri amori pungenti dove si straccia chi vi schiaccia, tormentatore tormentato, oh comunione nel piacere e nel dolore.
(Sang e saba, Trabucaire 2005)
SANGUE E LINFA
In quello che fu il mio paese non sono mai ritornato. Ho preso la strada inversa. Nessun paese ci voleva, noi, gli scampati dalla guerra. Diventammo clandestini. Abbiamo conosciuto l’arroganza e le tariffe dei passatori. Bestiame umano, siamo soffocati nei rimorchi dei camion, abbiamo battuto i denti nascosti sotto i teloni. Siamo stati più volte abbandonati dalla nostra guida in mezzo alla campagna, presi dalla polizia, chiusi in dei centri, ricondotti alla frontiera. Avevamo pagato il passaggio con tre anni di lavoro in paesi di miseria. Bestiame cocciuto, tornavamo a lavorare altri tre anni per forzare di nuovo la sorte. Il nostro focolare erano capannoni di ritenzione, celle di custodia, cantine di mercanti di sonno, asili notturni o l’addiaccio. Ho lavorato di piccone sulle strade. Ho maneggiato prodotti chimici, con la maschera sulla bocca, in officine dove nessuno del luogo voleva arrischiarsi per paura del veleno.
Portavo come un tesoro il lutto del mio primo amore. Quel lutto, lo porto ancora. Non posso vedere una pervinca al bordo del sentiero senza sentire nel cuore una puntura di dolore e di delizia. Quei fiori d’un blu d’oltremare o d’oltrecielo sono lo sguardo che lei mi manda dal di là del tempo, un sorriso dal suo nulla. Accarezzo le foglie risalendo lo stelo e la sua cintura sottile viene a collocarsi nel cavo del mio braccio. Quasi ne sento il peso. Risento il suo odore ferino, l’odore d’una ragazza selvaggia, di una giovane rifugiata, sego e sudore seccato che preferivo a tutti i profumi. Pervinca vive ancora in mille piante. Morta, si è reincarnata, per così dire, prendendo le dimensioni d’una specie. Anche qui cozzo contro il sempiterno scandalo vegetale, la vita senza coscienza. Pervinca vive ma non lo sa.
Come un tesoro portavo, porto ancora il lutto di sette o otto esseri cari che fanno del mio cuore il mausoleo di una dinastia sontuosa. Del mio cuore e della natura intera. Mia sorella vive, ma neanche lei lo sa. Si è fatta erba delle stelle, Myosotis hispida, che sembra dirmi di non dimenticarla. E io mi siedo al suo fianco per mormorarle agli orecchi di topo i vecchi, vecchi ricordi di un’ infanzia condivisa, quando ci bisticciavamo per un giocattolo sbreccato o un pezzo di biscotto. I miei genitori sono risuscitati in melograni e Aslan in lentischio. Nessuno può indovinare le ragioni della mia emozione davanti a un cespuglio o in mezzo alla garriga, quando sono immerso nella loro presenza innumerevole. Fra di loro, in un posto privilegiato, il soldatino nemico per il quale il mio rimorso rinascente intrattiene sempre sul suo capo corone di rose, e ai suoi piedi mazzi di gelsomino. Il mondo per me è un cimitero fiorito dove i defunti sono i fiori stessi che adornano le loro tombe assenti.
(Ivi, cap. 12)
PICCOLO BESTIARIO
Coccinella vola vola
sole scalda che ci assola
giravolta e capriola
un filo d’aria ci consola.
Vola bestia del Signore
nell’azzurro e nel calore.
Cresci ontàno, trota trotta
pescatore frucchia frucchia
la trota ha visto lo stivale
torna torna nel fondale.
Trota trotta dentro il gorgo
nero nero in pieno giorno.
Il bruchetto che annaspicchia
dentro il boccio si rannicchia
se pioviggina dormicchia
esce fuori se solicchia
dalle zampe spuntan l’ale
e in farfalla se ne sale.
Chi è che piange ? La civetta.
Ha perduto la ciabatta
bolle dentro la marmitta
un topino una scorzetta.
La civetta nella notte
lassù piange mentre inghiotte.
La mustela tutta arzilla
va nel prato come anguilla
nel silenzio un chiurlo strilla
brilla in cielo una favilla.
La mustela a buon mattino
ha mangiato il cardellino.
La lucerta musa musa
la sua lingua fusa fusa
alla Rocca di Pertusa
con le unghie il muro usa.
La lucerta beve e mangia
del bel sole la gran vampa.
PAROLE PAROLE PAROLE...
Polonius - What do you read, my lord?
Hamlet - Words, words, words
Le parole di questo paese che mi dormivano in testa
che i miei orecchi non sentivano più
che la mia bocca non sapeva più dire
che mi ero rassegnato a dimenticare
le parole di questo paese che credevo lettera morta
si sono messe a parlarmi
come chi raccoglie le forze all’ultimo soffio.
Un grande sciame di parole
mi ronza agli orecchi.
L’arnia è la casa delle api
l’orecchio è la casa delle parole.
‘Non ci abbandonare, tu che ci conosci un poco.
Se aspetti ancora, saremo
fuse nel nulla dissolte come brume.
Pensa alla trota in riva al ruscello
che si agita nell’erba: moriremo come lei
soffocate, prive dell’aria
soffiata dai polmoni degli uomini che ci dicono’.
Uno stormo di parole
mi sgorga dalla bocca.
Il nido è la casa delle rondini
la bocca è la casa delle parole.
‘Ci offriamo a te come le pietre al muratore.
Dimentica per un momento
le tue beghe le tue ubbìe lascia che ti guidiamo.
Come le pietre fanno la casa
fanno poesia le parole. Ti diremo come fare
e quelli che ti leggeranno
ci ridaranno vita col soffio delle loro bocche’.
Tutto un popolo di parole
mi riposa in testa.
Il granaio è la casa dei fantasmi
la testa è la casa delle parole.
Delle parole di questo paese ebbi grande pietà.
Non volevo vederle spegnersi.
Per questo ne ho fatto poesie
come un muratore costruisce il muro
o come gli uccelli spargono i semi.
Che queste parole ci nidifichino dentro
perché sono case di parole orecchi bocca e testa.
ODE AL SOLE E AL CULO DELLE VACCHE
Ero un bambino sognatore. Mi mandavano
lassù al prato a guardare le bestie.
Il mondo è grande e il culo delle vacche
fu la mia prima carta del cielo.
O culi tutti impiastrati di sterco secco
dove si annidano i cionci,
siete dei soli vortici di stelle.
La coda che batte la misura e il tempo,
orologio testardo, fa turbinare
sciami di mosche culaie (così si chiamano).
E quando la coda si alza, un ruscello di piscio
mi dà idea dell’eternità:
è tanto lungo che non se ne vede la fine
ma finisce sempre per finire,
il ruscello che scorre o la vacca che piscia.
Ravviso qui l’immagine della vita:
come il getto di piscio della Moretta,
finirà bene per esaurirsi un giorno.
La coda si alza ancora e una bovina
con un tonfo floscio si spiaccica sul prato.
Inzacchera intorno qualche ciuffo d’erba,
questi creperanno soffocati,
altri vivranno come quell’achillèa
dalle foglie che amo fini e dentate
e le punte bianche dei fiori minuscoli.
Da ogni bovina l’achillèa sa estrarre
il bell’altare fiorito di un oratorio
per qualche santo dimenticato dal buon Dio
il tetto sfondato di una cappella
dove vengono a fare le devozioni
lo scarabeo o le mosche leggere
e i moscerini a pregare tutt’intorno.
Mentre le nubi passano nel cielo
mi sono seduto sulla bovina
come se l’avessi fatta.
Picchio e trafiggo con un ramoscello
la crosta secca della bella torta
dura di sopra e morbida di sotto,
pasta di mele o fonduta di patate.
Ma quello che mi attira non si mangia,
so bene che per nulla lo rimescolo
bisognerà aspettare la merenda.
Contemplo la bellezza delle vacche:
spina dorsale che s’impunta dritta
in angolo accordato con le cosce,
l’oro dello sterco e il sole del culo.
E poi il tempo m’infila nel suo sacco,
il tempo, questo ladro di bambini,
mi porta nel tempo sulle spalle
e mi lascia stordito, qui e ora.
(Un grand essaim de mots, Livres EMCC 2013)
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