I temi da trattare in questa nostra serie sul francoprovenzale sono tantissimi, tanti quanti l’essere umano ha concepito durante il suo percorso evolutivo. La lingua pervade ogni aspetto della nostra vita, ne caratterizza ogni momento. Siamo immersi in questo favoloso miracolo che si chiama lingua.
La maggior parte di noi non riflette sull’importanza della comunicazione e, nella fattispecie, di quella tecnica sofisticatissima di comunicazione che si chiama linguaggio verbale umano. Una prerogativa tutta nostra e che non solo dà forma alle parole fatte di suoni e emesse dalla nostra bocca, mediante una complessa interazione di lingua, denti, labbra e palato, ma dà corpo e sostanza al nostro pensiero e costituisce le fondamenta della nostra memoria. Noi siamo quello che diciamo, parafrasando un noto modo di dire. Mi accontento di un concetto denso di senso: la lingua ci rende umani.
Questa premessa, a metà tra la linguistica e la riflessione filosofica, ci fa capire come la lingua non possa essere relegata alla definizione di veicolo o di mezzo comunicativo. Essa è sicuramente uno strumento ma uno strumento speciale, all’origine di tutto ciò che essa è chiamata a trasmettere. Non faremmo fatica a leggere la “paura” sul viso di una persona spaventata, ma chi potrebbe raccontare quello stato d’animo e come si potrebbe esprimere questa emozione se non attraverso quello strumento potentissimo di cui stiamo parlando? L’etichetta “paura” così come altre migliaia di etichette o parole sono i mattoni della nostra esistenza. Proviamo a pensarci.
Dico questo perché proprio oggi a Novalesa, e mi scuso se cito sempre una realtà a me vicina e cara, un’“esploratrice culturale” del paese ha rinvenuto una canzone nella varietà francoprovenzale locale. L’augurio a tutte le donne per la festa dell’8 marzo si è tramutato in una vera e propria testimonianza linguistica “autentica”.
Il tono quasi trionfalistico delle mie parole potrebbe stupire molti lettori abituati a cantare canzoni in lingua: non è purtroppo il caso della Valle di Susa. Le ricerche fatte in questo settore hanno dimostrato una scarsità di canti in francoprovenzale al di là di traduzioni di canzoni già esistenti, di creazioni recenti, fatte da autori particolarmente sensibili, e non di canti tramandati di padre in figlio. Quando dico canti trasmessi, parlo di canti conosciuti dai componenti della comunità e cantati nelle occasioni di festa, durante le transumanze o nelle veglie invernali. Questo non significa che mancassero. Il piemontese e l’italiano ci hanno consegnato un repertorio popolare vastissimo, tuttora praticato e apprezzato. Mancano tuttavia i canti della tradizione francoprovenzale. Tra questi voglio ricordare Barba Geunn d’Oudrà di Venaus, Amoun p’la gréla e Li Grivouè di Mompantero o ancora I at bein plourà Babina di Meana, Amoun p’lou Cré di Cou di Mattie, Le fije ‘d Vindroulére di Chianocco. L’elenco si potrebbe allungare ma si limiterebbe a uno o due canti per località. In molti paesi non si è raccolto nulla.
Ecco perché è sempre commovente quando un anziano, scavando tra i tantissimi ricordi della sua memoria, riesce a fare emergere una melodia, un testo, una strofa o anche solo poche parole.
Antonietta Claretto (classe 1932), grazie allo stimolo della cugina e scrittrice Claudia Claretto, ha vinto l’emozione, ha schiarito la voce e si è prodotta nell’esecuzione di un canto della tradizione novalicense intitolato Elà ma mare lhe me resave. Da moltissimi anni questo canto non affiorava più sulle labbra degli anziani e, a stento, qualcuno accennava poche note e qualche brandello di testo.
Non si tratta di una canzone altisonante, non parla di grandi temi, racconta la storia struggente di una donna che ha vissuto un triste travaglio amoroso e che non ha ascoltato i consigli contrari della mamma. Una storia come tante, soprattutto nei canti tradizionali, ma unica nel suo genere perché in francoprovenzale. Una canzone ritrovata e pubblicata su facebook che ha creato molto stupore e interesse nei novalicensi e negli abitanti degli altri paesi che hanno potuto ascoltarla.
È tanto più emozionante se si pensa che una signora di ottantacinque anni, lontana da anni da Novalesa, non avendo mai dimenticato la sua lingua, è riuscita a farla rivivere in una canzone recuperata chissà dove e cantata molti anni prima dagli anziani della sua comunità.
Ecco qui il testo costituito di due strofe (forse di più);
Elà mia madre mi sgridava
quando andavo insieme a te
mi diceva: “Guarda bene!
Quel morettino non fa per te”.
E se l’avessi un po’ ascoltata
e pentita adesso non sarei.
“Dovevi amarmi, volermi bene,
e farmi godere tutti i piaceri”.
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