Nel cammino che stiamo percorrendo abbiamo affrontato molti temi e, in particolare, ci siamo soffermati sulla letteratura francoprovenzale dalle origini sino a Jean-Baptiste Cerlogne, fondatore della tradizione letteraria valdostana. In attesa di proseguire verso i giorni nostri e i nuovi autori francoprovenzali, con questo undicesimo articolo vogliamo cogliere l’occasione del periodo nel quale ci troviamo, per parlare del carnevale e degli usi ad esso legati.
Tutto il territorio è costellato di tradizioni che caratterizzano questo lungo periodo che va dall’Epifania al Mercoledì delle Ceneri. In quasi tutti i paesi dell’arco alpino, così come tanti hanno ben documentato, le comunità hanno interpretato il carnevale in modi piuttosto singolari.
Non è un caso che la maggior parte delle feste patronali si trovino tra gennaio e febbraio: basti pensare a San Sebastiano, San Vincenzo, Sant’Orso, Santa Brigida, San Biagio, Sant’Agata. Oltre al loro senso religioso e alla memoria di queste figure, esse richiamano l’importanza della festa come perno della vita comunitaria e l’invocazione di una stagione propizia e di un inverno clemente.
Il Carnevale è dunque il periodo che precede la Quaresima e si contraddistingue come il momento della trasgressione, della ribellione e dell’uscita dagli schemi.
Tra le tradizioni che possiamo qui ricordare e che non sono legate principalmente al travestimento e alla riproposizione di uno spettacolo fatto di ruoli e di personaggi, vorrei ricordarne una tipica della Val Cenischia, in particolare di Novalesa e di Venaus: la Delià o Doulià. La maggior parte dei lettori non avrà certamente sentito parlare di questa strana usanza carnascialesca che aveva luogo nottetempo e che vedeva i giovani delle due comunità impegnati nel fare dispetti ai compaesani.
Innanzitutto che cosa significa Delià? L’etimologia del termine è incerta e, come si suol fare con le lingue orali, l’unico modo per tentare una spiegazione è quello di cercare parole simili all’interno della parlata e di creare possibili collegamenti e interpretazioni.
Delià potrebbe derivare dal verbo deliar che significa “slegare” (il contrario del verbo iliar “legare”). Esso potrebbe richiamare lo scioglimento dei vincoli e dalle norme. Con la Delià viene meno il diritto di proprietà e vengono meno le regole di buona creanza che disciplinano la vita sociale. Una seconda etimologia, forse più solida dal punto di vista semantico ma meno convincente da quello morfologico, la troviamo nella locuzione verbale fare doulir che, a Novalesa, vuol dire “fare arrabbiare”. Fé pa doulime “non farmi arrabbiare” è un’espressione tipica del francoprovenzale novalicense e che si utilizzava con ricorrenza verso i discoli del paese. In entrambi i casi notiamo come questa parola dal sapore antico richiama due aspetti importanti del carnevale: nel primo l’uscita dalla quotidianità regolata, mentre nel secondo la reazione delle persone nel vedersi canzonate da atteggiamenti considerati poco tollerabili.
In che cosa consiste dunque la Delià o Doulià? Prima di tutto occorre specificare che essa si svolgeva la notte della domenica di settuagesima (posta a settanta giorni prima della Pasqua, secondo la forma del rito romano precedente il Concilio Vaticano II. Nel 2017 è caduta il 12 febbraio) e era considerata da tutti come la Nouet di meprì, la “notte dei dispetti”.
I giovani del paese si davano appuntamento verso la mezzanotte, certi che tutti gli abitanti fossero rientrati nelle loro case e si fossero messi a letto, e organizzavano delle vere e proprie spedizioni alla ricerca di oggetti dimenticati nei vicoli o davanti alle porte delle abitazioni private. Tutto quello che veniva trovato era depositato sul sagrato della chiesa, di fronte al portone di ingresso, di modo da impedire l’accesso dei fedeli alla messa domenicale. Coloro che partecipavano all’inconsueta “raccolta” dovevano rendersi irriconoscibili per non essere additati da tutti il giorno seguente. A Novalesa si racconta che, durante una Delià, era stato issato un mulo sul tetto della canonica e che non era affatto strano trovare nel mucchio di oggetti accatastati, carri, ruote, attrezzi agricoli, scarpe, sedie, fascine ma anche galline, pecore e capre.
Era pertanto premura di tutti gli abitanti beffati il doversi recuperare gli oggetti personali prima che altri lo avessero fatto in loro vece: capitava assai spesso che, nella foga della ricerca, alcuni si impadronissero di cose altrui. Insomma, la Delià, sino a qualche anno fa, era un modo per celebrare il carnevale in modo collettivo approfittando della semplicità dei compaesani o addirittura mettendo in atto vere e proprie violazioni di domicilio. Nonostante i rimproveri del parroco dal pulpito o dei tanti che avevano subito il “furto”, questa antica tradizione non è mai stata abbandonata perché considerata un elemento identitario delle comunità venausina e novalicense.
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