Nello scorso articolo abbiamo affrontato il fenomeno fonetico della fricatica laringale comunemente conosciuto come “acca aspirata”. Un tratto mediamente diffuso in alcuni comuni dell’area francoprovenzale della Valle di Susa, in particolare della Val Cenischia e del versante orografico sinistro della Dora Riparia, a Coazze (Val Sangone), a Lemie (Valle di Viù), nella Val Soana e a Carema. Su queste ultime varietà non ci siamo soffermati ma, tendenzialmente, le aspirate intervengono laddove il suono sibilante -S- viene a trovarsi implicato in un nesso consonantico: per esempio (a)hcola “scuola”, ihtà “estate”, (a)hteila “stella”, htrèt “stretto”. Nelle varietà del versante orografico destro della media e bassa Valle di Susa non è presente e una spiegazione a tale situazione di netta divisione geografica rischia di essere piuttosto ardita. Né si può parlare in alcun modo di maggiore o minore conservatività in rapporto all’assenza del suono laringale sapendo che è sicuramente un’evoluzione successiva a una precedente sibilante, ma che, in forza della sua struttura, tende ad essere considerato quale tratto arcaizzante delle parlate che lo possiedono.
Dopo queste brevi e necessarie precisazioni è ora possibile passare allo studio di un altro suono sibilante -S- che però ci fa uscire dalla dimensione fonetica della lingua per entrare in quella morfologica. Se nel caso delle aspirate abbiamo descritto un processo di evoluzione fonetica attraverso il fenomeno assai diffuso della lenizione (indebolimento di un suono), in questo prendiamo in considerazione la conservazione di una consonante che proviene direttamente dalla lingua latina: la -S- del plurale. Sappiamo molto bene come questa marca del plurale si sia ben conservata nel portoghese, nello spagnolo, nel sardo, nel francese ad un livello grafico e in alcune parole femminili in contesto frasale, nell’occitano ma, anche, nell’inglese. Quest’ultima lingua, non direttamente afferente alla categoria delle lingue romanze, ha subito una profonda contaminazione da parte del latino e, oltre a una quantità smisurata di parole, ha conservato proprio la desinenza per la formazione del plurale che ancora possiedono la maggioranza degli idiomi neolatini. L’italiano, di contro, non lo possiede, così come tutte le parlate dell’Italia meridionale. In contesto francoprovenzale questa desinenza è variamente diffusa: alcune varietà non la conoscono affatto (perché non più conservata), altre la mantengono in forma di relitto fonetico, altre la possiedono per i soli femminili plurali terminanti per vocale e altre ancora la usano normalmente per la formazione del plurale in ogni caso.
Nell’area francoprovenzale che ci riguarda l’ultima situazione non si verifica mai. Per trovare una varietà che si comporta in questo modo dobbiamo attraversare le Alpi e andare a Bessans nell’alta Valle della Moriana (Savoia). Peraltro esistono varietà occitane della Val Chisone e dell’alta Valle di Susa che marcano i plurali maschili e femminili proprio con la sibilante. In area francoprovenzale valsusina solo il giaglionese conserva rari casi di marcatura sul maschile, per esempio nousàoutris “noi”. Più diffuse sono le varietà che mantengono la marca per il plurale sui femminili che terminano in vocale: a Venaus e Giaglione (Val Cenischia), nella bassa Valle di Susa (Meana, Mattie), in buona parte dei comuni delle Valli di Lanzo: fumèles “donne”, vàtses “mucche”, fólhes “foglie”, róches “rocce” (si tratta di una miscellanea di esempi a titolo informativo). Non è presente al fondo dei plurali femminili terminanti per consonante: meisoun, man, part…
Tra le varietà che la mantengono come relitto fonetico troviamo Novalesa. In questa varietà i plurali non vengono marcati con la sibilante ma essa permane intatta in contesto morfosintattico come nel caso dell’articolo femminile plurale seguito da parole femminili inizianti per vocale (les ehéle “le stelle”, les avilheu “le api”…). Nel novalicense in particolare questa stessa sibilante è stata agglutinata al sostantivo producendo forme del tipo la zehéla “la stella”, la zavilheu “l’ape” poiché indistinguibile le forme primigenie l’ehéla e l’avilheu. Tale marca si trova, sempre in contesto frasale, anche al fondo di pochi aggettivi femminili terminanti in vocale e seguiti da nomi inizianti in vocale, secondo una funzione eufonica: a deuves oure “alle due”, a trés oure “alle tre”.
Rimane tuttavia molto ampia la categoria delle varietà che non possiedono alcuna marca del plurale né sui maschili né tantomeno sui femminili come forme residuali. Le spiegazioni possono essere molteplici e non è questa la sede per tentare di chiarire la questione. Sicuramente la marca del plurale ha resistito nelle comunità in cui essa è sempre stata riconosciuta come tratto morfologico necessario per la formazione del plurale. Un caso palese in cui ciò si è perso è proprio il francese parlato, salvo qualche residuo qua e là, oppure il piemontese dove era sicuramente presente ma che non ha più rappresentato un elemento significativo ai fini della disambiguazione del numero dei sostantivi e degli aggettivi.
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