Nato nel 1949 a Chateaurenard in Provenza, è considerato tra le voci significative della contemporanea letteratura d’oc. Alla lettera: “apprezzato interprete dei suoi testi e di quelli di altri, è una voce recitante che porta la parola d’oc in vari spettacoli e incontri”.
Ottiene, giovane esordiente, il Premio “Jaufre Rudel” per la prima raccolta di poesie, Lo sòm de la tèrra (Il sonno della terra), a cui segue Avem decidit d’aver rason (Abbiamo deciso d’aver ragione, 1972): testi di protesta – contro le infinite sopravvivenze della storia centralistica della Francia - che ebbero molta risonanza nell’atmosfera contestataria di quegli anni. All’Università di Montpellier, dove incontra Robert Lafont e partecipa alla creazione del movimento Lucha Occitana, porta avanti gli studi, con varie interruzioni per lunghi viaggi in Asia - Levante, Afghanistan, India, Kashmïr, Ladakh, Nepal, Belucistan – di cui sono frutto le prose di Portulan (Portolano, 1978) e Portulan II (1980) recentemente riveduti e riuniti in Portulan Itinerari en Orient (2013): non tanto e non solo racconti di viaggio, quanto meditazione e ricerca di sé e dell’altro da sé, esigenza di apertura per uscire dalla prigione dell’identità. Qui per la prima volta l’impatto con altre civiltà si esprime in oc. Nel frattempo, molto è cambiato nel mondo, e soprattutto in quei mondi, ma il testo di Pecout resta a testimoniare lo spirito dei giovani degli anni Settanta/Ottanta del XX secolo, che partivano, affamati di alterità e di avventura, alla ricerca di nuovi orizzonti. Non lo abbandona del resto quella che lui definisce “la droga del viaggio” e del nomadismo: negli anni Ottanta è in Libano, negli Stati Uniti, in Brasile, negli anni novanta in Romania, in Slovenia, nella Croazia in guerra, più tardi in Scandinavia, infine in Mali. Nel frattempo, dopo Poëmas per tutejar (Poesie per dire tu, 1978), pubblica nel 1999 Mastrabelè (nome di una città focese in rovina sulle colline intorno allo stagno di Berre, presso Marsiglia), suite poetica in diciotto quadri, scritta fra il 1978 e il 1998. Dopo aver praticato diversi mestieri, Pecout vive attualmente a Montpellier, dove anima scuole di scrittura e ricerche di gruppo in etnologia, storia dell’arte, letteratura.
(tratta da Paragone, Fausta Garavini, Febbraio-Giugno 2015)
ANTOLOGIA
Omaggio a Jean Bodon (1975)
Nel marzo del 1975 morì uno dei maggiori scrittori del ventesimo secolo; eppure se ne parlò poco, poiché scriveva in una lingua da metechi: l’occitano.
Ogni giorno attraversava le vaste terre piatte della morte. Vi serbava il suo posto, vi trovava i morti viventi della sua condizione, della sua miseria, della sua lingua, del suo paese. Solo, eppure così vicino a tutti coloro che il cancro paziente consuma. Senza fine percorreva le strade dei reprobi, degli offesi, degli umiliati, degli sradicati, dei condannati. Coloro che sono fuori dalla storia, dal progresso, dalla morale, dalla norma, dalla legge. Grandi pezzi della società che la meccanica del male rinchiude nella putredine.
Nessun compiacimento, né letteratura. Ai giovani che partono ogni anno portando il proprio paese sotto la suola delle scarpe, ai giovani che restano, ma senza futuro né orizzonte, ai vecchi che muoiono soli portandosi via la loro, la nostra lingua, ai contadini liquidati, ai minatori che con un ultimo impeto cantano l’Internazionale, Bodon dice semplicemente: siamo un popolo di mancati, di meno di nulla, di zombi, un popolo di straccioni e d’agonizzanti.
Le pietose ipocrisie di coloro che negano che siamo qui, le immagini esotiche per turisti, le piccole ambizioni personali: fumo. Dietro, il marcimento in opera ed i ratti che lentamente ci rosicchiano, e se per sopravvivere non troviamo che meschine scaltrezze, periremo ancora più miserabili. Bodon non dà alcuna soluzione. Ma la morte è stanca d’essere stata guardata così duramente negli occhi. A tutti coloro che si sono riconosciuti resta non da gestire una sopravivvenza, ma da cambiare il mondo dal capo alla radice. Inventare una vita profondamente nuova con ciò che resta degli uomini, della terra, della lingua – e lottare - “Cantiamo l’Internazionale, la canzone della nostra speranza...”.
Bodon apparteneva alla generazione che viveva in pieno la civilizzazione tradizionale al suo ultimo alito di vita e la raffrontava con una gioventù che si solleva spatriata, spossessata, ma posseduta da una volontà di vivere che l’Occitania non conobbe mai così forte.
La vita è fragile di fronte al verme e al ferro. Ma un ciuffo d’erba è più forte della pietra. Ed un popolo vale più di un ciuffo d’erba.
Nel ventre di ogni viaggiatore
Nel ventre di ogni viaggiatore
ci sono melagrane succose
anziché i bagagli dimenticati
ci sono deviatoi blu, il peso dei cieli,
grasso di macchina, schiuma e case di terra
e la giovinezza gialla e verde delle strade.
Nel ventre di ogni schiavo
c’è un uomo che si agita
e che aspetta la sua ora
e che vorrebbe fosse ora.
Nel ventre di ogni mano
c’è un pugno chiuso
per fendere il vento
per salutare le vie frementi
i giorni transumanti.
Nel ventre di ogni parola
c’è il senso di ogni cosa
la restituzione dei colori immaginati
e la fusione dei metalli
e un dire d’uomo
che ha smesso d’esser febbrile.
Nel ventre di ogni passo
c’è un passo testardo esitante sicuro
con l’ostacolo e l’amicizia delle pietre.
Nel ventre di ogni ventre
c’è un’amore selvaggio e puro
come gli occhi del gatto selvaggio
c’è un riso
che fonde le leggi
che attraversa i ghiacci.
Nel ventre di ogni istante
ci sono io ci sei tu
ci siamo noi e le nostre trasformazioni
c’è un istante d’ora
che ad ogni istante diviene avvenire.
Non abbiamo che troppo inciampato
con piaghe ai ginocchi e ai gomiti
se siamo in piedi
è che ce lo siamo guadagnati.
Siamo gente semplice
viviamo complicati
ad ogni ora, è l’ora.
Poèmas per tutejar, 1978
(traduzione a cura di Peyre Anghilante)
Levante, Afghanistan
In nessun altro luogo ho visto seccare sulle balze la pelle sanguinosa del passato, i tappeti appesi lungo i torrenti, las grisaglia dell’amarezza nelle città occupate, la volontà di rivolta sui volti adolescenti, donne senza età con la pelle tessuta di vimini, ragazzette che danzavano il labirinto d’una scacchiera di pietra e forse giocavano a scacchi il destino, vasai che modellavano la terraglia fra le rovine, fra le ossa dei morti e dei palazzi, junkies come deserti infiniti distesi sulla sabbia davanti a una frontiera sbarrata e che volevano passare la frontiera, norie manovrate da uomini, e albicocche nascoste in buchi della roccia come tesori di guerra, mulistecchiti fioriti di vermi e di avvoltoi in una capitale morta, corriere scassate col conducente che distribuiva profumo per rinfrescare il sudore dei passeggeri, pelli d’orso invitate a bere il tè, liuti che cantavano come oracoli e camionisti sui sentieri polverosi che fermavano cento volte i loro vecchi automezzi carichi di perore per fare la preghiera o dissetarsi con un melone.
A Istanbul che è all’incrocio dei tempi e dei paesi, il fango la miseria e la rabbia dei quartieri poveri nascosti dietro le mura di Bisanzio; il Corno d’oro che è un mare, un fiume, uno schermo cinematografico, e il ponte-serpente che si snoda fra Europa e Asia; il ponte di Karaköy ricco di gente e di odori, dove ti nutri del pesce che un mercante arrostisce sulla sua barca, e le galere sotto il ponte vanno e vengono sull’onda dell’acqua; obelischi che segnano le ore e fanno ombra al venditore d’acqua, che ha sette anni, e al venditore di focacce, che ne ha settanta; moschee espanse in cattedrali rotonde, palazzi giganti come città, viaggiatori scalzi affollati intorno a Suthan-Ahmed, nell’afrore della stanchezza, dell’hascisc e della moussaka, i mercati dove ti perdi e dove puoi comprare e trafficare di tutto, il bazar che è il cuore dei vortici e una città nella città, le ebbrezze confuse del sole e della notte, i ristorantini dove la compagnia è allegra e la vita è bella nella babele dei vicoli; le illusioni le allusioni le collusioni; la selva vertiginosa delle auto, dei clacson, i giochi del calore e dell’ombra, della scoperta e del sonno, dell’eccessivo e del discreto, l’invasione di tu nel tu, l’infusione di tu nel tu, e il sapore che ti assale della droga del Viaggio...
(Portulan I, 1978
traduzione a cura di Fausta Garavini in Paragone, febbraio-giugno 2016)
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