Nato nel 1962 a Frèha (Tizi-Ouzou), nella Kabylia algerina, è giornalista, poeta e romanziere. Scrive prevalentemente in amazigh, dando un contributo importante e riconosciuto alla promozione di questa lingua in ambito letterario.
Dal 1990 al 1995, Zenia ha lavorato al settimanale “Le pays/Tamurt”. Nel 1998, ha fondato un proprio giornale, “Racines-Izuran”, con l’impegno di difendere l’identità e la cultura del suo popolo.
Dal 2007 vive a Barcellona, dove è arrivato grazie al programma “Escriptor Acollit” promosso dal PEN Catalano e dalla Capitale catalana.
Sua prima opera letteraria è stata una raccolta bilingue di poesie Les rêves de Yidir/Tirga n Yidir (sogni di Yidir), pubblicato nel 1993 a Parigi dalle edizioni Harmattan.
Due anni dopo, nel 1995, con lo stesso editore, Zenia ha pubblicato il suo primo romanzo, Berber (Aurora).
Il romanzo descrive la società di Montreal negli anni ‘80. Il personaggio principale, Yidir, non solo è bloccato tra le maglie di una passione d’amore ma è anche immerso in una crisi sociale, specialmente in una crisi di identità. S’interroga su come sopravvivere, da berbero, in seno a uno stato-nazione come l’Algeria, e su come resistere alla pesante influenza dell’Islam politico.
Nel 2003 ha pubblicato, sempre a Parigi, “Iyil di wefru” (Potenza e spada), il suo secondo romanzo. Si tratta di una storia tragica che si svolge in un’Algeria dilaniata da una guerra senza nome, dove si affrontano diverse ideologie.
Nel 2004 ha pubblicato “Tifeswin/Printemps” (Primavera), scritto durante i sanguinosi anni ’90. È un omaggio alla primavera che annuncia una nuova era di libertà e di amore, contro l’ingiustizia, contro la dittatura del padre, quella degli anziani e di tutti i poteri costituiti.
Nella primavera del 2008 ha pubblicato il libro “Sol cec/Iṭij aderɣal”, una pubblicazione bilingue catalano-amazigh con 26 poesie inedite scritte in Catalogna nel maggio del 2007. È un’opera ricca di contrasti, in cui convivono l’amore e la lotta, il rimpianto e la ribellione, la malinconia e l’erotismo.
Salem Zenia è un autore prolifico e aperto alla sperimentazione e al confronto di lingue e culture, fortemente impegnato nella promozione e nell’affermazione dei diritti degli “Imazighem”. Di particolare rilievo è stata la sua partecipazione nella raccolta di poesia “La constitution européenne en vers”, a Bruxelles nel 2009, o il suo contributo con cinque poesie nel “2° Trobada de poetes per la pau” (2° incontro di poeti per la pace), a Lleida nel 2009.
Grazie anche al suo impegno culturale e sociale, Salem Zenia è diventato un personaggio-ponte tra la Kabylia, la Catalogna e l’Europa, anche grazie alla sua partecipazione ad eventi come la celebrazione della “Giornata internazionale dei rifugiati” nel 2010, o interviste a Radio Catalunya, dibattiti televisivi sugli eventi delle cosiddette “pimavere arabe” del 2011 e, poi, sulla presenza “amazigh” in Catalogna.
ANTOLOGIA TESTO ITALIANO
LA RADICE DELLA NEBBIA
Da L’Arrel de la boira, ed. Muntaner.
A Inurar, è festa grande. Uomini e donne ballano. Alcuni ballano in coppia, un uomo e una donna, altri ballano da soli o a due a due, formando coppie di uomini e coppie di donne. Alcuni ballano fino a l’estasi, altri battono le mani, altri ancora gridano e fischiano. Alcuni cantano con voci indescrivibili, l’importante è che si alzi la voce, che vengano sentiti una volta per tutte. Alcune donne ballano emettendo anche grida di gioia fino a sgolarsi di fronte a quelli che danzano e gridano, che hanno davanti a loro senza conoscerli realmente, cosa che non era per niente abituale fino a poco tempo fa. Tra fischi e strilli, tra canti e grida di gioia, si produce una cacofonia inverosimile. Ciascuno canta ciò che gli salta in mente, ciascuno canta la sua canzone. Tutti intorno al cerchio o dentro il cerchio hanno formato una sorta di spiazzo in mezzo al quale volteggiano e saltano come pazzi. Si agitano, si rannicchiano e saltano perché possano uscire gli spiriti che hanno dentro, quegli spiriti che spaventano tutto il paese.
Il sudore riga i loro volti coperti di polvere e lascia al suo passaggio solchi di sporcizia. Sia i giovani che i vecchi hanno infranto i vincoli e i confini che legavano o separavano ciascuno di loro al clan o al gruppo. Il villaggio è, adesso, una unica entità. Hanno squarciato i confini, hanno superato i confini che disturbavano gli uni e gli altri. È nata una nuova fratellanza che, forse, non era mai esistita tra di loro in una maniera così forte. È un giorno di grande importanza, è un gran giorno, è il giorno dell’indipendenza. Corrono, corrono da una parte all’altra, fino allo sfinimento...
Vanno a piedi nudi, assuefatti e stanchi per una marcia e una corsa sfrenate verso nessuna parte. Molta gente arriva da non si sa dove, da nessuna parte, e altra gente parte per nessun luogo. Si è alzato un vento rabbioso che soffia sulle teste di questa gente ossessionata da ricordi di fiumi di sangue e di lacrime. Oggi, però, tocca a loro ridere, innalzare grida di gioia. Tocca a loro, adesso, sollevare la testa che si ha tolto di dosso il giogo. Vanno avanti attraversando passaggi, uno dopo l’altro, per trovarsi e condividere momenti di gioia. Le vie e i vicoli traboccano, pieni di chiasso. La gente si è riversata nei campi e nei boschi bassi come una colata di lava.
In questo giorno è permesso tutto ciò che fino ad allora è stato proibito. C’è una gran agitazione. Alcune donne camminano e corrono in tutte le direzioni, non sanno che strada devono scegliere né dove devono andare. Quella che ha un neonato in braccio corre verso il cerchio più vicino che ha appena improvvisato una festa lì stesso. Anche alcuni uomini e alcune donne, che vengono da fuori, si presentano saltellando e, subito, si mischiano col resto della gente che li accoglie per un po’. Tutti vanno da un cerchio ad un altro, da un gruppo ad un altro, le gole si seccano per la polvere e trascinano i piedi, assetati come uccelli in piena canicola, però nessuno pensa a bere temendo di perdersi qualche scena o vai a sapere cosa. Tutta quella gioia ha fatto dimenticare loro di bere.
I piedi nudi della gente sanguinano e sono coperti di lievi ferite dalle quali trasudano minuscole gocce di sangue che si aggiungono a quelle che sono state già coperte dalla polvere. Avevano corso ed erano saltati sopra i ciottoli acuminati che tagliano come coltelli per quelle strade affollate senza accorgersi e senza prestare troppa attenzione alle lievi ferite per il fatto che le ferite del cuore superavano di molto quelle del corpo.
I cuori soffocati di generazione in generazione ora si espandono e si aprono come fiori al sole. Ora si possono esprimere, possono respirare l’aria della libertà e sebbene sia piena di polvere , è la polvere della propria patria. Gli uni vestiti con semplici barracani, gli altri con vecchi indumenti, altri ancora con semplici stracci, tutti loro quando si incontrano formano un cerchio e improvvisano una festa, cantano, recitano poesie che parlano del dolore e delle disgrazie che hanno vissuto. Altri ancora corrono da un gruppo ad un altro, da un cerchio ad un altro. Ognuno con la sua canzone, ognuno con la sua voce. Non vogliono fermarsi, ne riposare, in questo giorno magnifico.
Finalmente, i cuori gonfi di furore e di odio ora sono pieni di gioia. I loro petti gonfi di rabbia non si acquieteranno finché la rabbia e l’inquietudine accumulate durante anni di paura, di miseria e di non vita siano esorcizzate.
Da un gruppo ad un altro, da una massa di gente ad un’altra, le persone si incontrano e si uniscono, forgiano nuove relazioni senza conoscersi del tutto.
Tutti i paesi, tutti i villaggi si sono mescolati, in questo giorno. Nonostante prima non si conoscessero, gli occhi si cercano gli uni con gli altri, si trovano e si ritrovano; si cercano affinità, quelli della stessa età, uomini e donne, ragazzi e ragazze. Gli occhi si sono ritrovati, le mani si sono toccate, con i cuori turbati, l’incontro avrà luogo alla prima occasione. Questi corpi che si agitano per questa strana febbre che non ha nome si affannano per trovarsi, per giocare, per gettarsi a terra e godere del momento.
I cuori spezzati hanno trattenuto, hanno inghiottito molte lacrime, per pudore. I cuori sembravano fosse che potevano contenere tutto. Le bocche chiuse, gli occhi ciechi, le orecchie sorde. In quel tempo, ancora non lontano, l’uomo era per se stesso il suo nemico.
Tutto ciò che vede, tutto ciò che sente, tutto ciò che dice gli può costare la vita. Gli uomini volevano essere cechi, sordi, muti senza riuscirci, Se sai qualcosa, perché? Se non sai niente, perché? Se parli, perché? Se taci, perché? Si erano dedicati a percorrere i campi e i boschi alla ricerca delle tombe di quelli che erano stati sepolti in tutta fretta, spesso di notte. Forse volevano condividere quel momento con loro? Percorrevano i campi di grano e di erbe alte che stavano ingiallendo; percorrevano i campi che tornavano a vegetare, ballando, saltando, ridendo, riempendosi i polmoni con quell’aria fresca e pulita che gli umani ancora non hanno contaminato.
PACE
Calmati o cuore.
Non essere spaventato.
Il tempo farà ciò che aspetti.
Tutto ciò che tocchiamo
e guardiamo con gli occhi
ci muove a tenerezza.
Non appena nasciamo
non facciamo altro che aspettare
ciò che il tempo ci riserva.
PATRIA MIA
Ho il cuore malato di te,
vivo abbattuto per la pena,
attraversando colline
che non hanno dato mai luce
a una pace duratura.
Due non li puoi unire
finché ciò che li separa
è un abisso d’odio.
Perciò il saggio dice
che dentro te stessa
hai il mostro affamato
che alimenti con vite.
Oh, la patria mia!
(traduzioni di Carla Valentino)
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