Severini nasce nel 1960. Vive e lavora ad Acquasparta (Tr). Dal 1986, anno della prima personale presso lo Studio Palazzi di Milano, fino al 1992 partecipa ad esposizioni collettive in diverse città italiane. Poi l’attività espositiva prosegue quasi esclusivamente con una serie di iniziative fondate di volta in volta su una progettualità tematica. A gennaio 1993, nell’ambito del circuito “Atelier liberi” presenta una personale dal titolo “Geografie dei mondi possibili”; in giugno dello stesso anno è a Spoleto nella Galleria “Teodolapio” con la mostra “Le novissime carte del cielo”. Nel 1994 affronta ad Acquasparta un progetto espositivo dal titolo “Le Forme del Tempo”, poi riproposto nel 1995 alla Galleria VSV di Torino, in una mostra presentata da Edoardo De Mauro.
Nel 1996 partecipa alla mostra collettiva “Omaggio d’arte a Pablo Neruda”. Dal 1997 lavora per una mostra dal titolo “Gli occhi della pittura” che presenta ancora ad Acquasparta nel 1999. Dall’incontro artistico con Silvia Ginocchietti nasce il progetto espositivo “Le armonie dell’anima – Santa Cecilia e la musica nella pittura” per la mostra omonima tenutasi nella Chiesa di S.Giuseppe ad Acquasparta (Tr) in novembre 2000. La mostra si è ripetuta poi presso la Biblioteca Comunale di Caronno Varesino (Va) dal 17 al 25 novembre 2001.
Ancora insieme a Silvia Ginocchietti, ha affrontato il lavoro “Histoire des visages” per una esposizione che si è tenuta nel periodo aprile/maggio 2001 presso il pub “La Fabbrica” di Saronno (Va) in collaborazione col gruppo “Mecenatica”.
È stato invitato a partecipare al primo Salone Internazionale d’Arte Contemporanea di Oeiras, Lisbona (Portogallo), tenutosi dall’ 8 Maggio al 9 Giugno 2002, quale unico italiano su oltre cinquanta artisti da ogni parte del mondo.
Nel maggio del 2003 partecipa ad una mostra collettiva internazionale in seno al progetto “Riflessi sull’acqua” a Palazzo Cesi di Acquasparta, che si ripete con altrettanto successo a Roma in uno spazio appositamente creato lungo le rive del Tevere. Per tutto il mese di novembre del 2003 insieme a Silvia Ginocchietti tiene la mostra “Sguardi diVini” a Palazzo Cesi di Acquasparta.
Nel gennaio 2004 inizia la collaborazione con la Galleria d’Arte “Camaver Kunsthaus” di Lecco. A maggio tiene una doppia personale, insieme a Silvia Ginocchietti, nella “Galerie Internazionale” di Parigi, promossa dalla “Camaver Kunsthaus”. Successivamente, partecipa una collettiva dal titolo “Percorsi” a Palazzo Cesi di Acquasparta, promossa dalla Galleria “Camaver Kunsthaus”. In ottobre è invitato ad una collettiva di artisti italiani e francesi presso l’Abbazia di Vinetz a Chalons en Cahampagne (Francia).
In aprile 2005 mostra dal titolo “Revival” nella sede della Galleria “Camaver Kunsthaus” a Lecco, insieme a Silvia Ginocchietti e Michele Ardito. Nel giugno collettiva internazionale “La Musica è nell’aria”a Palazzo Cesi di Acquasparta (Tr), poi ripetuta a Lecco presso la Torre Viscontea in novembre.
In giugno 2006 ancora una collettiva internazionale con la Camaver Kunsthaus ad Acquasparta, Palazzo Cesi, dal titolo “La perfezione della conoscenza”.
ANTOLOGIA
TESTO ITALIANO
Le buone fate a Issime
Bei tempi quelli in cui le fate abitavano le montagne. C’erano ad Issime due fate benefiche che rendevano grandi servizi alla gente del paese. Una di queste si era stabilita in una grotta ad ovest dei due graziosi laghi che si trovano sulle alture del vallone di san Grato. Questi laghetti rimangono a sinistra salendo verso il colle del Dondeuil, che mette in comunicazione Issime con Challant. Molto sovente questa fata abbandonava la grotta per recarsi alla frazione di Pressevin al limite del vallone. Si fermava sopra una roccia che domina a picco il bacino di Issime, da dove poteva scorgere tutto ciò che accadeva nel paese. L’altra fata aveva scelto come sua dimora una caverna nei dintorni del lago Leytier. Questo lago, puro come il cristallo, si trova nella parte superiore del vallone di Türradju, ad est di Issime. Come la prima, anche questa fata lasciava di frequente il suo alto rifugio per trasferirsi nella parte inferiore del vallone sopra una cornice di roccia, vicino al torrente Türradjumbach. Da questo posto, i suoi occhi abbracciavano Issime in quasi tutta la sua ampiezza. Niente poteva passare inosservato alle due buone fate quando venivano ad occupare questi posti situati ai due fianchi e allo sbocco del vallone. Le due fate univano i loro sforzi per proteggere il paese e per scongiurare qualsiasi evento funesto per gli abitanti della valle che erano, per così dire, sotto la loro protezione. Talvolta esse facevano sentire dei canti melodiosi e allora era un segno di prosperità e di felicità; ma, all’avvicinarsi di una tempesta o di qualche spiacevole avvenimento, esse mandavano delle grida di disperazione e s’incoraggiavano reciprocamente a fare degli sforzi per evitare qualsiasi disgrazia. Si racconta che sia stata la fata di Türradju che abbia fatto sgorgare allo chalet di Crédémy una limpida sorgente, gradevole e benefica. Si assicura tuttavia che la fata di Pressevin fosse molto più potente della sua compagna. Nel 1347, il giorno di san Giacomo, la maggior parte degli abitanti di Issime si trovava riunita in chiesa per festeggiare il patrono, quando udì la fata di Pressevin urlare con tutte le sue forze: «Mentre voi pregate in chiesa, tutte le mucche del vallone di san Grato stanno per passare il colle del Dondeuil. Venite senza tardare un istante! Venite!» Una banda di ladri e di stregoni, approfittando dell’assenza dei montanari che si erano recati alla messa, avevano stregato le mucche che correvano in preda alla follia in direzione del colle. Tutti gli uomini uscirono dalla chiesa e presero correndo il cammino della montagna, ma la buona fata prevedendo che non sarebbero arrivati in tempo, si era già portata presso lo chalet di Mühnes. Da lassù essa gridò alla mucca Teltscha che, a capo della mandria, aveva raggiunto il colle: «Teltscha, Teltscha, la maggiore di sette mucche, girati su te stessa e rompi l’incantesimo». La mucca girò un istante su se stessa, poi cadde con il corpo diviso in due parti. La testa rotolò sul versante di Issime e il corpo dalla parte di Challant. Il sacrificio di una mucca aveva rotto l’incantesimo. Tutte le altre, più di cento, ritornarono tranquillamente alle loro stalle. Pochi anni dopo questo avvenimento memorabile, le due buone fate furono vinte da altre due fate più potenti, che si installarono nelle loro stesse dimore. Ma tanto le altre facevano del bene, tanto queste erano cattive e da allora la gente di Issime ebbe a soffrire ogni sorta di mali. Un giorno, verso la fine del mese di luglio, il cielo si oscurò ad un tratto di nuvole minacciose e un temporale spaventoso scoppiò su Issime. La grandine si abbatté sulla campagna con grande disperazione degli abitanti che si vedevano ridotti in miseria da un momento all’altro. Mentre gli elementi si scatenavano con furore, si udì la fata di Türradju gridare a quella di Pressevin: «Forza, forza! Che la grandine falci e rompa tutto!» E l’altra le rispose: «Sono quasi senza forze, mi tormentano, mi fermano… La grande pala del capoluogo, la «chiacchierona» del Kreuz, la «raganella» del Buard e lo «Stumpfal» del Corno m’impediscono di far grandinare!» Le due fate malvagie, vedendo i loro sforzi paralizzati da una potenza superiore, abbandonarono presto le loro caverne e si trasferirono in altre contrade. Allora la popolazione della valle cominciò un’era nuova, prospera e felice.
L’amore per la propria terra
C’era una volta un contadino, che aveva tanti figli, tutti sani come le mele sul ramo e come la rugiada sull’erba. AI confine con il suo campo c’era il bosco. Siccome i bambini erano cresciuti e gli serviva più terra per assicurare il pane a tutti, volle allargare il suo campo. Ma, per allargare il suo campo, doveva bruciare il bosco. Prima di bruciarlo, andò a chiedere consiglio ad un uomo sapiente: “O uomo della terra!“ - cominciò - “devo aprire il bosco per dare il pane ai miei figli, ma prima di aprirlo, devo bruciarlo. Nel bosco ci sono tanti animali e, tanti uccelli e ho paura che si brucino. Insegnami come fare, uomo della terra, che sei conosciuto per la tua intelligenza e saggezza in tutto il paese”. Il vecchio della terra, allora, pensò a lungo e alla fine consigliò così l’uomo che aveva tanti figli: “Prendi il tamburo e fa rumore per tre giorni e tre notti senza fermarti mai. Mentre batti i colpi, devi gridare a voce alta: “Per il pane dei miei figli devo bruciare il bosco, per poter ingrandire il campo più facilmente. O animali, o uccelli, o voi tutti che respirate nel bosco, scappate appena vedrete il fuoco e il fumo”.
Per tre giorni e tre notti la valle rimbombò per il rumore del tamburo. Dopo tre giorni, secondo la leggenda, il contadino incendiò il bosco per aprire la strada al campo. Un giorno, lavorando vicino ad una roccia, vide lo scheletro di un’aquila e dei suoi piccoli. L’uomo chiede allo scheletro: “Per l’amor di Dio, aquila, quando io feci tutto quel rumore con il tamburo, eri immersa in un sonno profondo o eri diventata sorda per non scappare?” Si racconta che lo scheletro dell’aquila gli rispose: “Non ero né immersa in un sonno profondo, né ero sorda, né ero muta, ma non volevo lasciare la mia terra. Qui sono nata e qui ho voluto morire “.
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