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Edizione 2017

Premio Nazionale - Francesco SEVERINI

ANTOLOGIA FRANCESCO SEVERINI

lingue minoranze storiche (Italia) - "Premio Ostana scritture in Lingua Madre" edizione 2017

Premio Nazionale - Francesco SEVERINI
italiano

Severini nasce nel 1960. Vive e lavora ad Acquasparta (Tr). Dal 1986, anno della prima personale presso lo Studio Palazzi di Milano, fino al 1992 partecipa ad esposizioni collettive in diverse città italiane. Poi l’attività espositiva prosegue quasi esclusivamente con una serie di iniziative fondate di volta in volta su una progettualità tematica. A gennaio 1993, nell’ambito del circuito “Atelier liberi” presenta una personale dal titolo “Geografie dei mondi possibili”; in giugno dello stesso anno è a Spoleto nella Galleria “Teodolapio” con la mostra “Le novissime carte del cielo”. Nel 1994 affronta ad Acquasparta un progetto espositivo dal titolo “Le Forme del Tempo”, poi riproposto nel 1995 alla Galleria VSV di Torino, in una mostra presentata da Edoardo De Mauro.

Nel 1996 partecipa alla mostra collettiva “Omaggio d’arte a Pablo Neruda”. Dal 1997 lavora per una mostra dal titolo “Gli occhi della pittura” che presenta ancora ad Acquasparta nel 1999. Dall’incontro artistico con Silvia Ginocchietti nasce il progetto espositivo “Le armonie dell’anima – Santa Cecilia e la musica nella pittura” per la mostra omonima tenutasi nella Chiesa di S.Giuseppe ad Acquasparta (Tr) in novembre 2000. La mostra si è ripetuta poi presso la Biblioteca Comunale di Caronno Varesino (Va) dal 17 al 25 novembre 2001.

Ancora insieme a Silvia Ginocchietti, ha affrontato il lavoro “Histoire des visages” per una esposizione che si è tenuta nel periodo aprile/maggio 2001 presso il pub “La Fabbrica” di Saronno (Va) in collaborazione col gruppo “Mecenatica”.

È stato invitato a partecipare al primo Salone Internazionale d’Arte Contemporanea di Oeiras, Lisbona (Portogallo), tenutosi dall’ 8 Maggio al 9 Giugno 2002, quale unico italiano su oltre cinquanta artisti da ogni parte del mondo.

Nel maggio del 2003 partecipa ad una mostra collettiva internazionale in seno al progetto “Riflessi sull’acqua” a Palazzo Cesi di Acquasparta, che si ripete con altrettanto successo a Roma in uno spazio appositamente creato lungo le rive del Tevere. Per tutto il mese di novembre del 2003 insieme a Silvia Ginocchietti tiene la mostra “Sguardi diVini” a Palazzo Cesi di Acquasparta.

Nel gennaio 2004 inizia la collaborazione con la Galleria d’Arte “Camaver Kunsthaus” di Lecco. A maggio tiene una doppia personale, insieme a Silvia Ginocchietti, nella “Galerie Internazionale” di Parigi, promossa dalla “Camaver Kunsthaus”. Successivamente, partecipa una collettiva dal titolo “Percorsi” a Palazzo Cesi di Acquasparta, promossa dalla Galleria “Camaver Kunsthaus”. In ottobre è invitato ad una collettiva di artisti italiani e francesi presso l’Abbazia di Vinetz a Chalons en Cahampagne (Francia).

In aprile 2005 mostra dal titolo “Revival” nella sede della Galleria “Camaver Kunsthaus” a Lecco, insieme a Silvia Ginocchietti e Michele Ardito. Nel giugno collettiva internazionale “La Musica è nell’aria”a Palazzo Cesi di Acquasparta (Tr), poi ripetuta a Lecco presso la Torre Viscontea in novembre.

In giugno 2006 ancora una collettiva internazionale con la Camaver Kunsthaus ad Acquasparta, Palazzo Cesi, dal titolo “La perfezione della conoscenza”.


ANTOLOGIA


TESTO ITALIANO

Le buone fate a Issime

Bei tempi quelli in cui le fate abitavano le montagne. C’erano ad Issime due fate benefiche che rendevano grandi servizi alla gente del paese. Una di queste si era stabilita in una grotta ad ovest dei due graziosi laghi che si trovano sulle alture del vallone di san Grato. Questi laghetti rimangono a sinistra salendo verso il colle del Dondeuil, che mette in comunicazione Issime con Challant. Molto sovente questa fata abbandonava la grotta per recarsi alla frazione di Pressevin al limite del vallone. Si fermava sopra una roccia che domina a picco il bacino di Issime, da dove poteva scorgere tutto ciò che accadeva nel paese. L’altra fata aveva scelto come sua dimora una caverna nei dintorni del lago Leytier. Questo lago, puro come il cristallo, si trova nella parte superiore del vallone di Türradju, ad est di Issime. Come la prima, anche questa fata lasciava di frequente il suo alto rifugio per trasferirsi nella parte inferiore del vallone sopra una cornice di roccia, vicino al torrente Türradjumbach. Da questo posto, i suoi occhi abbracciavano Issime in quasi tutta la sua ampiezza. Niente poteva passare inosservato alle due buone fate quando venivano ad occupare questi posti situati ai due fianchi e allo sbocco del vallone. Le due fate univano i loro sforzi per proteggere il paese e per scongiurare qualsiasi evento funesto per gli abitanti della valle che erano, per così dire, sotto la loro protezione. Talvolta esse facevano sentire dei canti melodiosi e allora era un segno di prosperità e di felicità; ma, all’avvicinarsi di una tempesta o di qualche spiacevole avvenimento, esse mandavano delle grida di disperazione e s’incoraggiavano reciprocamente a fare degli sforzi per evitare qualsiasi disgrazia. Si racconta che sia stata la fata di Türradju che abbia fatto sgorgare allo chalet di Crédémy una limpida sorgente, gradevole e benefica. Si assicura tuttavia che la fata di Pressevin fosse molto più potente della sua compagna. Nel 1347, il giorno di san Giacomo, la maggior parte degli abitanti di Issime si trovava riunita in chiesa per festeggiare il patrono, quando udì la fata di Pressevin urlare con tutte le sue forze: «Mentre voi pregate in chiesa, tutte le mucche del vallone di san Grato stanno per passare il colle del Dondeuil. Venite senza tardare un istante! Venite!» Una banda di ladri e di stregoni, approfittando dell’assenza dei montanari che si erano recati alla messa, avevano stregato le mucche che correvano in preda alla follia in direzione del colle. Tutti gli uomini uscirono dalla chiesa e presero correndo il cammino della montagna, ma la buona fata prevedendo che non sarebbero arrivati in tempo, si era già portata presso lo chalet di Mühnes. Da lassù essa gridò alla mucca Teltscha che, a capo della mandria, aveva raggiunto il colle: «Teltscha, Teltscha, la maggiore di sette mucche, girati su te stessa e rompi l’incantesimo». La mucca girò un istante su se stessa, poi cadde con il corpo diviso in due parti. La testa rotolò sul versante di Issime e il corpo dalla parte di Challant. Il sacrificio di una mucca aveva rotto l’incantesimo. Tutte le altre, più di cento, ritornarono tranquillamente alle loro stalle. Pochi anni dopo questo avvenimento memorabile, le due buone fate furono vinte da altre due fate più potenti, che si installarono nelle loro stesse dimore. Ma tanto le altre facevano del bene, tanto queste erano cattive e da allora la gente di Issime ebbe a soffrire ogni sorta di mali. Un giorno, verso la fine del mese di luglio, il cielo si oscurò ad un tratto di nuvole minacciose e un temporale spaventoso scoppiò su Issime. La grandine si abbatté sulla campagna con grande disperazione degli abitanti che si vedevano ridotti in miseria da un momento all’altro. Mentre gli elementi si scatenavano con furore, si udì la fata di Türradju gridare a quella di Pressevin: «Forza, forza! Che la grandine falci e rompa tutto!» E l’altra le rispose: «Sono quasi senza forze, mi tormentano, mi fermano… La grande pala del capoluogo, la «chiacchierona» del Kreuz, la «raganella» del Buard e lo «Stumpfal» del Corno m’impediscono di far grandinare!» Le due fate malvagie, vedendo i loro sforzi paralizzati da una potenza superiore, abbandonarono presto le loro caverne e si trasferirono in altre contrade. Allora la popolazione della valle cominciò un’era nuova, prospera e felice.


L’amore per la propria terra

C’era una volta un contadino, che aveva tanti figli, tutti sani come le mele sul ramo e come la rugiada sull’erba. AI confine con il suo campo c’era il bosco. Siccome i bambini erano cresciuti e gli serviva più terra per assicurare il pane a tutti, volle allargare il suo campo. Ma, per allargare il suo campo, doveva bruciare il bosco. Prima di bruciarlo, andò a chiedere consiglio ad un uomo sapiente: “O uomo della terra!“ - cominciò - “devo aprire il bosco per dare il pane ai miei figli, ma prima di aprirlo, devo bruciarlo. Nel bosco ci sono tanti animali e, tanti uccelli e ho paura che si brucino. Insegnami come fare, uomo della terra, che sei conosciuto per la tua intelligenza e saggezza in tutto il paese”. Il vecchio della terra, allora, pensò a lungo e alla fine consigliò così l’uomo che aveva tanti figli: “Prendi il tamburo e fa rumore per tre giorni e tre notti senza fermarti mai. Mentre batti i colpi, devi gridare a voce alta: “Per il pane dei miei figli devo bruciare il bosco, per poter ingrandire il campo più facilmente. O animali, o uccelli, o voi tutti che respirate nel bosco, scappate appena vedrete il fuoco e il fumo”.

Per tre giorni e tre notti la valle rimbombò per il rumore del tamburo. Dopo tre giorni, secondo la leggenda, il contadino incendiò il bosco per aprire la strada al campo. Un giorno, lavorando vicino ad una roccia, vide lo scheletro di un’aquila e dei suoi piccoli. L’uomo chiede allo scheletro: “Per l’amor di Dio, aquila, quando io feci tutto quel rumore con il tamburo, eri immersa in un sonno profondo o eri diventata sorda per non scappare?” Si racconta che lo scheletro dell’aquila gli rispose: “Non ero né immersa in un sonno profondo, né ero sorda, né ero muta, ma non volevo lasciare la mia terra. Qui sono nata e qui ho voluto morire “.


TESTO WALSER

D’lljibu hoakschi z’Éischeme 1


In di zéiti das d’hoakschi hen glebt ouf ter d’griet sén gsinh z’Éischeme zwia lljib hoakschi das hen gholfe dan éischemere. Eina dar zwienu het dˆschi pheebe in an balmu ouf béi d’schienu siawjini das sén z’uabruscht Sen Kroasch gumbu. Diˆsch siawa sén von d’schirka séntsch goan ouf wider d’Vurku, das seilt Éischeme un Tschallanh. Suven diˆsch hoaksch ischt kannhe im Prassevin. Dˆschi het dˆschi aréchturut uber an tschucke das ischt franh uab dan grunn van Éischeme un van doa hetsch gsian allz was ischt bschit im lann. D’andru hoaksch het dˆschi pheebe in an balmu béi Leikier. Diˆsche sia, loutiri wi klass, vinnt dˆschi in di Türrudˆschun gumbu. Auch diˆsch hoaksch ischt suven kannhe uber an tschucke béi am Türrudˆschunbach. Van doa hetsch muan gsian Éischeme allz ganz. Wénn d’hoakschi sén gsinh in diˆsch üerter hentsch muan gsian allz. Di zwia hoakschi hen dˆschi gleit zseeme vür hüten d’éischemera un dˆschi wérre van d’büeˆschun dinnhi. Wénn dˆschi hen gsunnhe het wéllje see das allz ischt kannhe wol; wa wénn ischt gsinh z’leid zéit ol as bües dinh hentsch grawut un nen gmachut anadre mut um helfen dam lann. Dˆschi zéllje das ischt gsinh d’lljibu hoaksch van in Türrudˆschu das het toan z’cheen ous in Krédémi a louteren guten brunne. Dˆschi seen auch das d’hoaksch van im Prassevin séji gsinh vill stoarhur dén dˆschéin gséllje. Im joar 1347, Sent Joapuksch virtag, villjen allu d’éischemera sén gsinh zar mesch um bettun, wénn dˆschi hen khüert d’hoaksch van im Prassevin rawun mit alli d’stérrji: «Darwil das irendri bettit in d’chilhu allu d’chü van in Sen Kroasch gumbu sén drum z’passrun d’Vurku. Cheet lést! Cheet!» A chuppletu diba, darwil das ellji d’lljöit sén gsinh zar mesch, hen kheen varhoakschut d’chü das, sturnu, sén glljiffe wider d’Vurku. Allu d’manna sén gsortrut van in d’chilhu un glljiffe wider d’gumbu, wa d’lljibu hoaksch, mit wissu das dˆschi wérti nöit arrivurut am zéit, ischt aschuan gsinh in d’Mühni. Van ouf doa hetsch grawut dar chu Teltscha das, d’iesta im troppe, ischt gsinh z’Vurku: «Teltscha, Teltscha, sibnurun d’oaltschta, driechdich um un brech z’tschantemen». D’chu het dˆschi gchiert um, zu ischt gvalle teilti imitsch. Z’hopt ischt gvalle wider Éischeme un da lljéib wider Tschallanh. An gchlakht chu het kheen brochen z’tschantemen. Allu d’andru, mia dén hunnert, sén kannhen hinner in ürriun goadma. As poar joar noa das ischt bschit das, di zwia hoakschi sén gsinh gschabnu awek van andru zwia hoakschi, das sén dˆschi kannhen phee in ürriun balmi. Wa sövvil d’andru hen toan recht, sövvil diˆschu sén gsinh hessugu un schwachu un sitter d’éischemera hen gstrekhut. An tag, d’létschtun toaga hoeju, da hümmil ischt gcheen tuppi un a wilte schmeiz ischt gcheen uber Éischeme. Z’reesal ischt gvalle uber z’gut un d’lljöit sén gsinh au désespoir z’gsian das. Darwil das z’wetter un dar winn sén gsinh drum, het mu khüert d’hoaksch in Türrudˆschu rawu deera van im Prassevin: «Ommo, ommo! Das z’reesal zarlécki allz!». Un d’andra het mu antcheede: «Bin vascht oan stérrji, dˆschi tün mi tschinnhellje, dˆschi tün mi aréchturun… D’«gruassun klocku» im Duarf, «dan bernedˆsche» im Chröiz, «d’ritschku» im Buard un z’«Stumpfalti» im Huare lien mi nöit tun z’reeslu!» Di zwia schwachu hoakschi, ab gsian das dˆschi hen nümmi muan goan vürsich, hen gloan ürriun balmi un sén kannhen awek. Dé d’lljöit van in d’valludu hen muan sinh poaslljigi un hurtigi.

1. Tratto dal volume: Nell’alta Valle del Lys si racconta… realizzato dal Comune di Issime nell’ambito del progetto di tutela delle minoranze linguistiche e finanziato con i fondi della legge 15.12.1999, n. 482 «Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche». Traduzione testi in Lingua minoritaria a cura di Sportello linguistico di Issime per il Töitschu: Barbara Ronco Sportelli linguistici di Gressoney-Saint-Jean e Gressoney-La-Trinité per il Titsch: Gabriella Thedy e Elisabeth Favre. Testi in italiano tratti da «Leggende e racconti della Valle del Lys», Edizione Guindani-Gressoney-Saint-Jean. Testo originale: J.J.A. Christillin, Leggende e racconti della Valle del Lys,  ed. Duc, Aoste 1901


TESTO arberesche

DASHURIA PËR VENDIN 1

Na paska jetuar njehere e nje kohe nje fshatar. Atij i paskan lindur shume femije. Te gjithe te shendoshe si molla ne gem, si vesa mbi bar. Ne skaj te ares se tij paska qene mali. Meqe femijet iu rriten, fshatarit i duhej me shume toke per te nxjerre buken e tyre. Para se ta hapte malin e ta bente are, iu desh ta digjte. Para se ta digjte, shkoi e pyeti nje plak te urte: “O plak i dheut! - ia nisi. - Me duhet te çel malin per kafshaten e femijeve, po, para se ta çel, me duhet ta djeg. Ne pyll ka shume kafshe e shpende. Kam frike se i djeg zjarri. Me meso çfare te beje, o plak i dheut, qe je i njohur per mençuri e di turi ne te kater anet e vendit.”

Plaku i dheut ishte menduar gjate e me ne fund e kishte keshilluar burrin me shume femije: “Merr daullen dhe bjeri tri dite e tri net pareshtur. Duke i rene thirre me ze te larte: per kafshaten e gojes te femijeve te mi, duhet t’ i ve zjarrin malit, qe te mund ta çel me lehte. O shpende, o kafshe dhe o gjithe ç’ merrni fryme ne mal, ikni posa ta shihni zjarrin dhe te shikoni tym!”

Tri dite e tri net kishte jehuar e gjemuar lugina nga daullja. Pas tri ditesh, siç thote legjenda, fshatari ia paska . vene zjarrin malit, qe te mund ta çelte.

Nje dite, duke punuar prane nje shkembi, pa skeletet e nje shqiponje dhe te zogjve te saj. E pyeti: “Aman, moj shqiponje, kur une i rash daulles tri dite e tri net, ne gjume te thelle qellove apo ishe shurdhuar qe nuk ike?”.

Thuhet se skeleti i shqiponjes i paska folur e i paska thene: “As isha ne gjume te thelle, as isha memece e shurdhe, por nuk desha te leshoja truallin tim. Ketu linda e ketu desha te vdes”.


1. Tratta da Dall’Albania e dal Kosovo a cura di Arminda Hitaj.