Una delle figure più rappresentative della narrativa gallega contemporanea è lo scrittore, poeta e giornalista in lingua gallega e spagnola: Manuel Rivas Barrós.
Nato a La Coruña (Galizia) nel 1957, inizia a soli 15 anni la carriera giornalistica, scrivendo per il giornale El ideal Gallego. Si trasferisce a Madrid per studiare Scienze dell’Informazione presso l’Università Complutense e continua a lavorare nel mondo del giornalismo. In quel periodo fonda il primo settimanale scritto interamente in lingua gallega, Teima, nell’anno 1977, e il mensile Man Común. Dopo la laurea torna in Galizia e collabora con la stampa, la radio e la televisione. Diventa vicedirettore di Diario 16 e responsabile della rubrica culturale di El Globo. Scrive anche per il Diario de Galicia e La voz de Galicia. Tutti questi impegni lo portano a vincere nel 1991 il Premio Fernández Latorre per il giornalismo. Nell’ottobre del 2003, insieme a Xurxo Souto, diventa padrino della radio comunitaria CUAC FM (La Coruña) e si cimenta come presentatore in un programma di dibattiti chiamato El faro. Attualmente collabora con il giornale El País.
Una buona parte dei suoi migliori reportage, in spagnolo, sono raccolti in El periodismo es un cuento (1998), usato come libro di testo in numerose Facoltà spagnole di Scienze dell’Informazione, così come nei volumi Toxos e flores (1992), Galicia, el bonsái atlántico (1994), Galicia, Galicia (2001), Mujer en el baño (2004) e Una espía en el reino de Galicia (2004).
La sua carriera letteraria inizia con la poesia e precisamente con la pubblicazione nel 1979 della raccolta “Libro do Entroido”. Negli anni settanta diventa cofondatore del gruppo Loia e pubblica nella rivista omonima i suoi primi versi. Successivamente scrive varie raccolte di poesie e antologie come
O pobo da noite (1996) e El pueblo de la noche y mohicania revisitada,(2004), A desaparición da neve (2009), A boca da terra (2015).
Si addentra alla narrativa con il romanzo breve per ragazzi Todo ben (1985), rivolto ad un pubblico giovane. Tra le varie opere che seguono questo inizio, ricordiamo il libro di racconti Un millón de vacas (1990), vincitore del Premio della Critica Spagnola ed il racconto En salvaxe compaña (1994), per il quale riceve il Premio della Critica della Narrativa Gallega. Nel 1996 pubblica la raccolta ¿Qué me quieres, amor?, che tratta di amori e di solitudine intrecciati con umorismo e tenerezza.
Tra di essi compare il racconto A lengua das bolboretas a cui si ispira il regista José Luis Cuerda per girare il film omonimo La lengua de las mariposas (1999). Con questo libro ottiene il Premio Nazionale della Narrativa, il Premio Torrente Ballester, e viene tradotto in varie lingue. Oltre ai racconti, Rivas scrive anche romanzi di successo come O lapis do carpinteiro, El lápiz del carpintero (1998), basato su una storia vera e tradotto in 33 lingue, grazie al quale vince diversi premi tra cui il Premio della Critica Spagnola e il Premio de la Asociación de Escritores en Lingua Galega e cattura l’attenzione di Antonio Reixa che lo trasforma in un film.
Del 1999 è la raccolta di tredici racconti sentimentali scritti con un linguaggio attento, accurato, in cui realtà e finzione si uniscono indissolubilmente che ha come titolo Ella, maldita alma. Tra le opere posteriori ricordiamo i racconti di As chamadas perdidas, Las llamadas perdidas (2002) vincitore del Premio della Critica, Contos de Nadal (2003)
e dello stesso anno Nosotros dos. Nel 2005 si mette in discussione nel campo del teatro con l’opera El héroe. Nel 2006 collabora con il giornalista italiano Giorgio Visciglia per la stesura di un articolo sulle dittature.
Tra le altre opere ricordiamo anche il romanzo Os libros arden mal (2006) e il saggio A cuerpo abierto (2008). Nel 2010 scrive Todo é silencio, Todo es silencio, pubblicato anche in Inghilterra nel 2011, opera finalista del Premio Hammett, è un romanzo giallo, poliziesco, adattato al cinema in un film nel 2012 diretto da José Luis Cuerda. Nel 2012 pubblica un’opera molto personale, autobiografica As voces baixas (Las voces bajas), in cui ritorna alla sua infanzia (insieme a sua sorella Maria).
Come dice Rivas, “quello che racconto non è l’enigma che sono; posso solo capire una parte dell’enigma che sono, attraverso il racconto”.
Nel 2015 pubblica El último día de Terranova, romanzo che parla del post-guerra spagnolo e della transizione, partendo dalla vita di una libreria de La Coruña, minacciata di dover chiudere.
Nel 2016 pubblica A boca da terra/La boca de la tierra e nel 2018 vede la luce l’opera Vivir sin permiso y otras historias de Oeste.
Rivas non è solo un autore di poesia, narrativa e saggi, è anche un attivista interessato ai problemi ambientali: è stato socio fondatore di Greenpeace in Spagna e per diversi anni ha svolto funzioni direttive in questa organizzazione. La sua attività è stata di fondamentale importanza in seguito al disastro della petroliera Prestige, partecipando alla creazione della piattaforma cittadina Nunca Máis.
Nel 2009 è stato eletto membro della Real Academia Gallega e nell’ottobre del 2012, gli è stato conferito il titolo di dottore honoris causa dall’Universidad de La Coruña in riconoscimento della sua difesa e promozione della lingua e della cultura gallega. Con Feltrinelli ha pubblicato il romanzo Il lapis del falegname (2000), il libro per bambini Il pirata testa matta (2001), la raccolta di racconti La lingua delle farfalle (2005) e il romanzo I libri bruciano male (2009).
Motivazione
Nel panorama della letteratura mondiale Manuel Rivas è una rara eccezione per la sua capacità di maneggiare il linguaggio, per l’autenticità, la tenerezza delle sue storie e la profonda risonanza poetica delle sue parole. I suoi libri hanno attratto lettori non solo del continente europeo ma anche di quello americano. La sua opera letteraria è soprattutto in gallego. Ha fondato diverse riviste letterarie in questa lingua. Alcune delle sue opere sono state adattate al cinema ottenendo molto successo. La varietà e la ricchezza dei contenuti, l’originalità, l’ironia e la solida capacità espressiva caratterizzano questo autore che ha saputo diffondere una lingua ed una cultura in tutto il mondo. Abile giocoliere delle parole, sa combinare la mitologia infantile con la realtà del mondo quotidiano cimentandosi altresì in diversi generi letterari senza tralasciare l’attivismo a favore dell’ambiente. Vincitore di molti premi, il Premio di Ostana gli viene assegnato per la sua lunga carriera creativa.
ANTOLOGIA - TESTO ITALIANO
La lingua delle farfalle
da “La lingua delle farfalle” (2005, Feltrinelli)
Traduzione di Danilo Manera
A Chabela
“Come va, Pardal? Spero che finalmente quest’anno potremo vedere la lingua delle farfalle.”
Il maestro aspettava da tempo che mandassero un microscopio a quelli della Pubblica istruzione. Ci parlava tanto di quell’apparecchio che ingrandiva le cose minuscole e invisibili, che noi bambini arrivavamo a vederle davvero, come se le sue parole entusiaste avessero l’effetto di formidabili lenti.
“La lingua della farfalla è una tromba avvolta a spirale come una molla da orologio. Se un fiore l’attrae, la srotola e la infila nel calice per succhiare. Quando avvicinate il dito inumidito a un barattalo di zucchero, non è forse vero che sentite già il dolce in bocca come se il polpastrello fosse la punta della lingua? Be’, così è la lingua delle farfalle.”
E allora tutti invidiavamo le farfalle. Che meraviglia. Andarsene in giro per il mondo volando, con quei vestiti da festa, e fermarsi sui fiori come taverne con barili pieni di sciroppo.
Io volevo molto bene a quel maestro. All’inizio, i miei genitori non riuscivano a crederci. Cioè non capivano perché volessi bene al mio maestro. Quand’ero un monellino, la scuola era una minaccia tremenda. Una parola che vibrava nell’aria come un battipanni.
“Vedrai quando ti toccherà andare a scuola!”
Due dei miei zii, come molti altri giovani, erano emigrati in America per non finire arruolati nella guerra del Marocco. Ebbene, anch’io sognavo di andare in America solo per non finire a scuola. Di fatto, si raccontavano storie di bambini che scappavano nei boschi per evitare quel supplizio. Ricomparivano due o tre giorni dopo, terrorizzati e muti, come disertori del Burrone del Lupo.
Io stavo per compiere sei anni e tutti mi chiamavano Pardal, cioè “passerotto”. Altri bambini della mia età lavoravano già. Ma mio padre era sarto e non aveva terre ne bestiame. Preferiva vedermi lontano piuttosto che avermi tra i piedi nel piccolo laboratorio di cucito. Sicché passavo gran parte del giorno scorrazzando per il viale e i giardini pubblici, e fu Cordeiro, lo spazzino che raccoglieva immondizia e foglie secche, a darmi quel soprannome: “Sembri un passerotto”. Credo di non aver mai corso tanto come l’estate prima di iniziare la scuola. Correvo come un matto e a volte varcavo il confine del viale alberato e continuavo lontano, con lo sguardo fisso sul monte Sinaí, sognando che un giorno o l’altro mi sarebbero spuntate le ali e sarei potuto arrivare a Buenos Aires. Invece non ho mai oltrepassato quella montagna magica.
“Vedrai quando ti toccherà andare a scuola! “
Mio padre raccontava come una tortura il modo in cui il suo maestro toglieva i vizi di pronuncia galeghi, come se gli strappasse le tonsille con le mani, perché gli alunni evitassero ad esempio la g aspirata e non dicessero “ghatto” o “ghrazie”. “Ogni mattina ci esercitavamo a scandire frasi in castigliano, come Los pajaros de Guadalajara tienen la garganta llena de trigo. Ce ne siamo prese di botte dicendo ‘Ghuadalagara’!” Se davvero voleva mettermi paura, ci riuscì. La notte della vigilia, non dormii. Raggomitolato nel letto, ascoltavo la pendola della sala con l’angoscia di un condannato. Il giorno arrivò bianco come il grembiule di un macellaio. Non avrei mentito se avessi detto ai miei genitori che ero malato.
La paura mi rosicchiava le viscere come un topo.
E me la feci addosso. Non me la feci addosso a letto, bensì a scuola.
Me lo ricordo molto bene. Sono passati tanti anni e sento ancora un’umidità calda e vergognosa che mi scivola giù per le gambe. Ero seduto all’ultimo banco, mezzo chino sperando che nessuno notasse la mia presenza, in attesa di poter uscire e mettermi a volare per il viale.
“Vediamo un po’, lei, si alzi in piedi!”
Il destino avvisa sempre. Alzai gli occhi e vidi con spavento che l’ordine era rivolto a me. Quel maestro brutto come una bestiaccia mi indicava con la riga. Era piccola, di legno, ma a me sembrò la lancia di Abd el Krim.
“Qual è il suo nome?”
“Pardal.”
Tutti i bambini scoppiarono a ridere. Sentii come se mi colpissero con delle latte sulle orecchie.
“Passerotto?”
Non mi ricordavo nulla. Nemmeno il mio nome. Tutto quel che ero stato fino ad allora mi si era cancellato dalla testa. I miei genitori erano due figure confuse che sbiadivano nella memoria. Guardai verso il finestrone, cercando tormentosamente gli alberi del viale.
E fu allora che mi pisciai addosso.
Quando gli altri ragazzini se ne accorsero, le sghignazzatè aumentarono, schioccando come frustate.
Scappai. Mi misi a correre come un pazzerello con le ali. Correvo, correvo come si corre solamente nei sogni quando ti insegue l’orco. Io ero convinto che il maestro stesse facendo proprio questo. Inseguirmi. Potevo sentire il suo fiato sul collo, e quello di tutti gli scolari, come una muta di cani a caccia di una volpe. Ma quando arrivai all’altezza del chiosco della banda musicale e guardai indietro, vidi che nessuno mi aveva seguito, che ero solo con la mia paura, zuppo di sudore e di pipì. Il palco era vuoto. Nessuno sembrava far caso a me, ma io avevo la sensazione che tutto il paese fingesse, che dozzine di occhi censori mi spiassero da dietro le finestre e che le lingue impiccione non avrebbero tardato a portare la notizia ai miei genitori. Le mie gambe decisero da sole. S’incamminarono verso il Sinaí con una determinazione fino ad allora sconosciuta. Quella volta avevo intenzione di raggiungere A Coruña e imbarcarmi come clandestino su una nave per Buenos Aires.
Dalla cima del Sinaí non si vedeva il mare, bensì un’altra montagna ancora più alta, con rupi scoscese come torri di una fortezza inaccessibile. Ora ricordo con una miscela di stupore e malinconia quel che riuscii a fare quel giorno. Io solo, sulla vetta, seduto su una sedia di pietra, sotto le stelle, mentre nella valle si muovevano come lucciole quelli che mi cercavano con le lucerne. Il mio nome attraversava la notte in groppa agli ululati dei cani. Non ero impressionato. Era come se avessi superato la linea della paura. Per questo non piansi né feci resistenza quando apparve accanto a me l’ombra robusta e ruvida di Cordeiro. Mi avvolse nel suo giaccone e mi prese in braccio. “Tranquillo, passerotto, è tutto finito.”
Quella notte dormii come un santo, stretto stretto a mia madre. Nessuno mi aveva sgridato. Mio padre era rimasto in cucina, a fumare in silenzio, con i gomiti sulla tovaglia di tela cerata e i mozziconi che si ammucchiavano nel posacenere ricavato da una conchiglia di vieira, proprio come quando era morta la nonna.
Avevo la sensazione che mia madre mi avesse tenuto per mano tutta la notte. Allo stesso modo, come se portasse una corba, mi accompagnò al mio ritorno a scuola. E allora potei osservare per la prima volta a cuor sereno il maestro. Aveva una faccia da rospo.
Il rospo sorrideva. Mi pizzicò la guancia affettuosamente. “Mi piace quel nome, Pardal.” E il pizzicotto mi ferì come un pasticcino per il caffè. Ma la cosa più incredibile fu che, in mezzo a un silenzio assoluto, mi condusse per mano fino alla cattedra e mi fece sedere sulla sua seggiola. Lui rimase in piedi, prese un libro e disse:
“Abbiamo un nuovo compagno. È una gioia per tutti e lo accoglieremo con un applauso”. Pensai che me la sarei fatta di nuovo nei pantaloni, ma notai solo un’umidità negli occhi. “Bene, e adesso cominciamo una poesia. A chi tocca? Romualdo? Forza, Romualdo, avvicinati. Sai come si fa: adagio e a voce ben alta.”
Romualdo faceva ridere con i pantaloni corti. Aveva le gambe lunghe e scure, con le ginocchia piene di cicatrici.
Una tarde parda y fria…
“Un momento, Romualdo, che cos’è quello che leggerai?”
“Una poesia, signore”.
“E come si intitola?”
“Recuerdo infantil. L’autore è don Antonio Machado”.
Molto bene, Romualdo, vai avanti. Con calma e ad alta voce. Osserva la punteggiatura”. Colui che veniva chiamato Romualdo, che io conoscevo come bambino di Altamura che trasportava sacchi di strafalcioni, si schiarì la voce come un vecchio fumatore di tabacco trinciato e lesse con una voce incredibile, splendida, che sembrava uscita dalla radio di Manolo Suarez, l’indiano di Montevideo.
Una tarde parda y fria
de inviemo. Los colegiales
estudian. Monotonía
de lluvia tras los cristales.
Es la clase. En un cartel
se representa a Caín
fugitiuo, y muerto Abel,
junto a una mancha carmín…
“Molto bene. Cosa significa monotonia di pioggia, Romualdo?”
“Che piove sul bagnato, signor Gregorio.”
“Hai pregato?” mi chiese la mamma, mentre stirava la roba che papà aveva cucito durante il giorno. In cucina, la pentola della cena spargeva un odore amaro di cime di rapa.
“Be’, sì” risposi non molto sicuro. “Una cosa che parlava di Caino e Abele.”
“Così va bene” disse la mamma. “Non so perché dicono che il nuovo maestro è un ateo.”
“Cos’è un ateo?”
“Uno che dice che Dio non esiste.” La mamma fece un gesto di disappunto e passò il ferro da stiro con energia sulle pieghe di un pantalone.
“Papa è un ateo?”
La mamma appoggiò il ferro e mi guardò dritto in faccia.
“Come può essere un ateo papà? Come ti salta in mente una domanda così stupida?”
Io avevo sentito molte volte mio padre bestemmiare contro Dio. Lo facevano tutti gli uomini. Quando qualcosa andava storto, sputavano per terra e lanciavano un insulto tremendo contro Dio. Dicevano entrambe le cose: Porco Dio, Porco diavolo. Mi sembrava che solo le donne credessero davvero in Dio.
“E il diavolo? Esiste il diavolo?”
“Naturalmente!”
La bollitura faceva ballare il coperchio della casseruola. Da quella bocca irrequieta uscivano zaffate di vapore e scaracchi di schiuma e verze. Una farfalla notturna svolazzava sul soffitto attorno alla lampadina appesa al filo elettrico intrecciato. La mamma era indispettita, come ogni volta che doveva stirare. Il viso le si tendeva quando marcava la riga di un paio di calzoni. Ma adesso parlava in un tono dolce e un po’ triste, come se si riferisse a un derelitto.
“Il diavolo era un angelo, ma poi è diventato cattivo.”
La farfalla sbattè contro la lampadina, che dondolò leggermente, scompigliando le ombre.
“Oggi il maestro ha detto che anche le farfalle hanno la lingua, una lingua sottile e lunghissima, che portano arrotolata come la molla di un orologio. Ce la mostrerà con un apparecchio che gli devono mandare da Madrid. Vero che sembra una bugia questa faccenda della lingua delle farfalle?”
“Se lo dice lui, è così. Ci sono molte cose che sembrano false, e sono vere. Ti è piaciuta la scuola?”
“Tanto. E non picchia. Il maestro non picchia.”
No, il signor Gregorio non picchiava. Al contrario, sorrideva quasi sempre con la sua faccia da rospo. Quando due di noi litigavano durante la ricreazione, lui li richiamava: “Sembrate due montoni”. E li obbligava a stringersi la mano. Poi li faceva sedere allo stesso banco. Fu così che conobbi il mio miglior amico, Dombodàn, buono, corpulento e goffo. C’era un altro ragazzino, Eladio, con un neo sulla guancia, che avrei pestato volenrieri, ma non lo feci mai per timore che il maestro mi ordinasse di dargli la mano e mi spostasse da accanto a Dombodàn. Il modo in cui il signor Gregorio si mostrava arrabbiatissimo era il silenzio.
“Se non vi zittite voi, dovrò tacere io.”
E si dirigeva al finestrone, con lo sguardo assente, perduto verso il Sinaí. Era un silenzio prolungato, sconsolante, come se ci avesse abbandonati in uno strano paese. Mi resi conto presto che il silenzio del maestro era il peggior castigo immaginabile. Perché tutto quello che lui toccava si trasformava in un racconto seducente. Il racconto poteva cominciare da un foglio di carta, e poi passare per l’Amazzonia e la sistole e diastole del cuore. Tutto era collegato, tutto aveva senso. L’erba, la lana, la pecora, il mio freddo. Quando il maestro andava verso il mappamondo, facevamo attenzione come se si illuminasse lo schermo del cinema Rex. Sperimentavamo la paura degli indigeni americani nell’udire per la prima volta il nitrito dei cavalli e le schioppettate degli archibugi. Andavamo in groppa agli elefanti di Annibale tra le nevi delle Alpi, sulla strada di Roma. Combattevamo con bastoni e pietre a Ponte Sampaio contro le truppe napoleoniche durante la guerra d’indipendenza. Ma non c’erano solo battaglie. Fabbricavamo falci e vomeri nelle ferriere dell’Incio. Scrivevamo canzonieri d’amore in Provenza o nel mare di Vigo. Scolpivamo il Portico della Gloria nella cattedrale di Santiago. Piantavamo le patate venute dall’America. E in America emigrammo quando arrivò la peste della patata.
“Le patate sono venute dall’America” dissi a mia madre all’ora di cena, quando mi mise il piatto davanti.
“Figurati se sono venute dall’America. Le patate ci sono sempre state!” sentenziò lei.
“No, prima si mangiavano castagne. Anche il granturco è venuto dall’America.” Era la prima volta che avevo la chiara sensazione che grazie al maestro io sapevo cose importanti del nostro mondo che loro, i miei genitori, ignoravano. Ma i momenti più affascinanti della scuola erano quando il maestro parlava degli animali. I ragni d’acqua inventavano il sottomarino. Le formiche allevavano un bestiame che dava latte e zucchero e coltivavano funghi. C’era un uccello in Australia che dipingeva il suo nido a colori con una specie di olio che fabbricava usando pigmenri vegetali. Non lo scorderò mai. Si chiamava tilonorinco o uccello giardiniere australiano. Il maschio metteva un’orchidea nel nuovo nido per attirare la femmina.
Ero così interessato che divenni il fornitore di animali del signor Gregorio e lui mi accolse come il suo miglior discepolo. Certi sabati o giorni festivi, passava da casa mia e andavamo insieme in gita. Percorrevamo le sponde del fiume, i gerbidi, le sterpaie, il bosco e salivamo sul monte Sinaí. Ciascuno di quei viaggi era per me come una rotta alla scoperta delI’America. Tornavamo sempre con un tesoro. Una mantide. Una libellula. Un cervo volante. E ogni volta una farfalla diversa, anche se ricordo soltanto il nome di una che il maestro chiamò Iris, e che brillava bellissima posata sul fango o sul letame.
Al ritorno, cantavamo lungo i sentieri come due vecchi compagni. Il lunedì, a scuola, il maestro diceva: “E adesso parliamo degli animaletti di Pardal”.
Per i miei genitori, quelle attenzioni del maestro erano un onore. Nei giorni delle escursioni, mia madre preparava la merenda per entrambi: “Non è necessario, signora, io ho già mangiato” insisteva il signor Gregorio. Ma al rientro diceva: “Grazie, signora, lo spuntino era squisito”.
“Sono sicura che non se la passa bene” diceva mia madre la sera.
“I maestri non guadagnano quel che dovrebbero” sentenziava, con una certa solennità, mio padre. “Sono loro i fari della Repubblica.”
“La Repubblica, la Repubblica! Vedremo dove va a finire la Repubblica!”
Mio padre era repubblicano. Mia madre no. Voglio dire che mia madre andava a messa tutti i giorni e i repubblicani erano presentati come nemici della Chiesa. Cercavano di non bistìcciare quando c’ero io, ma a volte li sorprendevo.
“Cos’hai tu contro Azaña? Qui c’è Io zampino del prete, che vi scalda la testa.”
“Io vado a messa a pregare” diceva mia madre.
“Tu sì, ma il prete no.”
Un giorno che il signor Gregorio venne a prendermi per andare a cercare farfalle, mio padre gli disse che, se non aveva niente in contrario, gli sarebbe piaciuto prendergli le misure per un vestito.
“Un vestito?”
“Signor Gregorio, non se ne abbia a male. Vorrei farle un presente. E io sono un sarto.”
Il maestro si guardò attorno sconcertato.
“E il mio mestiere” disse mio padre con un sorriso.
“Ho molto rispetto per i mestieri” disse alla fine il maestro.
Il signor Gregorio indossò quel vestito per un anno intero, e lo portava anche quel giorno di luglio 1936 quando mi incrociò sul viale, diretto al municipio.
“Come va, Pardal? Spero che finalmente quest’anno potremo vedere la lingua delle farfalle.”
Stava succedendo qualcosa di strano. Tutti sembravano avere fretta, ma non si muovevano. Quelli che guardavano in avanti, facevano dietrofront. Quelli che guardavano verso destra, si giravano a sinistra. Cordeiro, lo spazzino che raccoglieva immondizia e foglie secche, era seduto su una panchina, vicino al palco della banda. Non avevo mai visto Cordeiro seduto su una panchina. Guardò verso l’alto, con la mano a visiera. Quando Cordeiro guardava così e gli uccelli si zittivano, voleva dire che si avvicinava un temporale.
Sentii il fracasso di una motoretta solitaria. Era una guardia civile con una bandiera legata al sedile posteriore. Passò davanti al municipio e squadrò gli uomini che conversavano inquieti sotto i portici. Gridò: “Viva la Spagna!”. E ripartì lasciandosi dietro una scia di scoppi.
“Traditori! Criminali! Rossi!”
“Grida anche tu, Ramón, per l’amor del cielo, grida!” Mia madre teneva mio padre sottobraccio, come a reggerlo con tutte le sue forze perché non svenisse. “Che ti vedano gridare, Ramón, che ti vedano gridare!
E allora sentii mio padre dire, con un filo di voce: “Tradìtori!”. E poi, sempre più forte: “Criminali! Rossi!”. Si sciolse dal braccio di mia madre e si avvicinò di più alla fila dei soldati, rivolgendo lo sguardo furibondo al maestro. “Assassino! Anarchico! Mangiabambini!”
Adesso la mamma cercava di trattenerlo e lo tirava per la giacca con discrezione. Ma lui era fuori di sé. “Cornuto! Figlio di malafemmina! “Non lo avevo mai sentito apostrofare così nessuno, nemmeno l’arbitro sul campo da calcio. “Sua madre non ha colpa, eh, Moncho? Ricordatelo.” Ma adesso si girava verso di me impazzito e mi incitava con lo sguardo, gli occhi pieni di lacrime e sangue. “Gridagli contro anche tu, Moncho, gridagli anche tu!”
Quando i camion partirono, carichi di prigionieri, io fui uno dei bambini che si misero a corrergli dietro, tirando pietre. Cercavo disperatamente il volto del maestro per chiamarlo traditore e criminale. Ma il convoglio era ormai una nube di polvere in lontananza e io, in mezzo al viale, con i pugni chiusi, fui capace solamente di mormorare con rabbia: “Rospo! Tilonorinco! Iris!”
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